Cass., sez. Lavoro,
25 luglio 2023, n. 22391
La Corte d’Appello di Roma ha rigettato l’appello proposto dal lavoratore avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede, che aveva respinto le domande nei confronti del datore, di cui era dirigente sino al licenziamento comunicatogli il 12/9/2013, dirette: a) all’accertamento della natura arbitraria del licenziamento e alla condanna al pagamento dell’indennità supplementare; b) all’accertamento della violazione del patto di stabilità concluso il 22/2/2013 e alla condanna al risarcimento del danno ex art. 1218 c.c. corrispondente alle retribuzioni sino al 22/2/2016 o somma di giustizia; c) all’accertamento della natura ingiuriosa del licenziamento e alla condanna al risarcimento del danno alla dignità, all’immagine professionale, alla professionalità. Nel provvedimento impugnato la Corte territoriale ha osservato, in particolare, che risultava dimostrata la sussistenza dei fatti posti dalla società alla base del recesso dando altresì atto che era stato licenziato un altro dirigente e non ne risultavano assunti altri nel periodo successivo al recesso in contestazione; che il patto di retention stipulato tra le parti non era da interpretare quale garanzia di stabilità, ma come garanzia per la società di essere reintegrata dei costi di formazione, ove il lavoratore beneficiato fosse receduto dal rapporto prima dell’ammortizzamento dei costi di formazione; che la lettera di licenziamento era stata consegnata all’esterno della sala riunioni in cui si trovava l’appellante con altri dipendenti, non essendone a conoscenza gli altri partecipanti alla riunione, quindi senza pubblicità e non risultando riscontrate in via testimoniale le altre modalità lesive della dignità come dedotte. L’originario ricorrente e appellante chiede la cassazione della sentenza impugnata, cui resiste con controricorso la società. Secondo la giurisprudenza della Corte, nell’ipotesi di licenziamento individuale del dirigente d’azienda, cui, ai sensi dell’art. 10 della Legge n. 604/1966, non trova applicazione la disciplina limitativa dei licenziamenti, la nozione di giustificatezza del recesso si discosta da quella di giustificato motivo ed è ravvisabile ove sussista l’esigenza, economicamente apprezzabile in termini di risparmio, della soppressione della figura dirigenziale in attuazione di un riassetto societario e non emerga, in base ad elementi oggettivi, la natura discriminatoria o contraria a buona fede della riorganizzazione. Il giudice deve limitarsi al controllo sull’effettività delle scelte imprenditoriali poste a base del licenziamento, non potendo sindacare il merito di tali scelte, garantite dal precetto di cui all’art. 41 Cost. Il licenziamento individuale del dirigente d’azienda può fondarsi su ragioni oggettive concernenti esigenze di riorganizzazione aziendale, che non debbono necessariamente coincidere con l’impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di crisi tale da rendere particolarmente onerosa detta continuazione, dato che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica, garantita dall’art. 41 Cost. Vanno rammentati, in proposito: a) il principio, consolidato nella giurisprudenza di legittimità (tra le molte, Cass. n. 3964/2019), secondo cui, in tema di interpretazione del contratto, quella data dal giudice non deve invero essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma solo una delle possibili e plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra; b) il principio, parimenti consolidato, secondo cui, posto che l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un negozio giuridico si traduce in un’indagine di fatto affidata al giudice di merito, il ricorrente per cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti non potendo, invece, la censura risolversi nella mera contrapposizione dell’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata (Cass., n. 9461/2021; cfr. anche Cass., n. 4460/2020); c) in via generale, il principio che il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata, mentre il vizio di falsa applicazione di legge consiste, o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione, con la conseguenza che non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 360, comma 1, n. 3, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità (Cass., n. 640/2019, n. 7187/2022, n. 9093/2023). La giurisprudenza della Corte ha chiarito che il carattere ingiurioso del licenziamento che, in quanto lesivo della dignità del lavoratore, legittima un autonomo risarcimento del danno, non si identifica con la sua illegittimità, bensì con le particolari forme o modalità offensive del recesso; e che il dirigente che, in conseguenza della risoluzione del rapporto con il datore di lavoro causata dal recesso ingiustificato di quest’ultimo, chieda il risarcimento del danno riconducibile alla condotta datoriale, è tenuto a provare i comportamenti datoriali cui addebita, in ragione della loro gravità, la lesione del decoro e dell’integrità psico-fisica e l’elemento soggettivo della colpa grave o del dolo (cfr. Cass., n. 23686/2015, n. 6847/2010); Il ricorso deve pertanto essere respinto.