Sentenze – Legittimo il licenziamento disciplinare per chi svolge attività lavorativa in altra azienda durante il periodo di malattia

Alice Pattonieri , Consulente del Lavoro in Milano

Cass., sez. Lavoro, 26 gennaio 2024, n. 2516

Con la sentenza n. 2516 del 26 gennaio 2024, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di primo grado del Tribunale di Latina del 18/12/2018, come già la Corte di Appello di Roma. Di seguito i fatti che hanno dato origine alla controversia: un lavoratore dipendente viene licenziato per motivi disciplinari dopo essere stato sorpreso da un’agenzia investigativa, incaricata dal datore di lavoro, a svolgere la propria prestazione lavorativa presso l’attività commerciale della moglie, durante un periodo di assenza coperto da certificato di malattia. Lo stato patologico dell’ex dipendente, durante lo svolgimento del giudizio, era stato posto sotto la valutazione di una CTU medico-legale, al fine di accertare l’incompatibilità dello stato di malattia con lo svolgimento dell’attività lavorativa del dipendente, considerando in concreto la tipologia dello stato patologico e le mansioni svolte presso l’azienda della moglie. Dopo essere risultato soccombente sia in giudizio di primo grado, sia in appello, il lavoratore decide di adire la Suprema Corte di Cassazione allegando, tra i vari motivi di ricorso, un vizio di ultra petita che comporterebbe, a suo parere, la nullità della sentenza di primo grado. In particolare, il Tribunale aveva stabilito che l’attività lavorativa svolta presso l’azienda della moglie costituiva una grave violazione contrattuale degli obblighi di diligenza, fedeltà ma anche dei doveri di correttezza e buona fede, dal momento che avrebbe potuto determinare un ritardo nella guarigione o il verificarsi di un’eventuale ricaduta e, di conseguenza, il posticipo della ripresa del servizio presso l’azienda datrice di lavoro. Siffatta valutazione, a parere della parte ricorrente, andrebbe oltre i limiti delle motivazioni addotte nella lettera di contestazione e addirittura, per quanto riguarda l’eventualità della ricaduta nello stato patologico, risulterebbe inesistente. Pertanto, secondo il ricorrente, la sentenza di primo grado risulterebbe nulla per vizi in procedendo. Successivamente, la Corte d’Appello ha confermato la decisione del Tribunale di primo grado “per le stesse ragioni, inerenti ai medesimi fatti posti a base della decisione impugnata”. Così di seguito, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di primo grado, già confermata integralmente dalla Corte d’Appello, realizzando pertanto l’ipotesi di una c.d. doppia conforme. Gli Ermellini hanno ritenuto di dover dare rilievo alla perizia medico legale, la quale ha riconosciuto l’impossibilità di prestare determinate mansioni in presenza della specifica patologia accusata dal lavoratore. Il fatto che il lavoratore sia stato sorpreso a prestare proprio quell’attività ritenuta impossibile da effettuare nello stato da lui dichiarato porta a presumere l’inesistenza della malattia stessa. Diversamente, nel caso in cui la malattia si fosse realmente verificata, la prestazione dell’attività in sua concomitanza avrebbe potuto portare ad eventuali ricadute nello stato patologico, pregiudicando o ritardando così la guarigione e di conseguenza la ripresa del servizio. La condotta mantenuta dal lavoratore andrebbe pertanto ad integrare una grave violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e di fedeltà, nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede. L’oggetto dell’accertamento medico-legale, dunque, risulta perfettamente pertinente con le domande e le eccezioni presentate dalle parti, senza eccedere i limiti del petitum e della causa petendi del doppio grado di giudizio di merito.


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