Sentenze – Legittimo il licenziamento del lavoratore che fa troppe pause al bar, provate anche da agenzie investigative

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

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Cass., sez. Lavoro, 2 marzo 2025, n. 8707

La vicenda prende avvio dal licenziamento intimato al lavoratore, addetto al ritiro dei rifiuti urbani, da parte della società datrice di lavoro a fronte dell’accertato inadempimento dell’art. 8 del D.lgs n. 66/2003, che nello specifico stabilisce che, nei casi in cui l’orario di lavoro superi le sei ore, i contratti collettivi determinano le modalità e la durata dell’intervallo finalizzato al recupero psico-fisico, e alla consumazione del pasto, ed in mancanza di disciplina è prevista una pausa di almeno dieci minuti tra l’inizio e la fine di ogni periodo giornaliero di lavoro.

Il lavoratore effettuava infatti numerose pause intermedie durante l’orario di lavoro e, in particolare, usufruiva di frequenti e prolungate soste in alcuni esercizi pubblici-bar dei Comuni ove prestava servizio. In primo e secondo grado, la Corte territoriale rilevava che il quadro probatorio raccolto, composto dall’acquisizione di una relazione investigativa, dall’analisi dei GPS installati sui mezzi di raccolta dei rifiuti guidati dal dipendente, dalla deposizione di diversi testimoni, dimostrava effettivamente che il lavoratore, durante l’orario di lavoro, si era trattenuto presso diversi pubblici esercizi-bar per un periodo di tempo che eccedeva l’arco temporale previsto dalla normativa e dal contratto di lavoro. Con particolare riguardo all’utilizzazione degli esiti della relazione investigativa, la Corte territoriale ha sottolineato che il controllo era stato delegato solamente dopo il sorgere del sospetto, da parte del datore di lavoro, della violazione di obblighi derivanti dal CCNL e dal contratto individuale e di comportamenti che integravano una condotta fraudolenta, con riguardo alla giornata in cui il servizio era terminato con largo anticipo e il lavoratore aveva trascorso il resto del turno di lavoro presso un esercizio pubblico, per poi far rientro in cantiere e compilare il foglio presenze in corrispondenza dell’orario finale. Il personale investigativo era stato incaricato dalla società dopo che erano state constatate, tramite i sistemi di controllo a distanza-GPS installati su tutti i mezzi di raccolta come da espressa previsione del Capitolato di appalto, frequenti soste durante lo svolgimento dell’attività lavorativa, condotte che erano suscettibili di incidere sul patrimonio aziendale, nonché sull’immagine dell’azienda, alla luce degli obblighi assunti nei confronti del committente di regolare e diligente svolgimento del servizio pubblico di raccolta dei rifiuti. Impugna il lavoratore il licenziamento e si giunge alla Suprema corte, che esamina i motivi del ricorso, indicati:

  • nella violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3 e 4 della Legge n. 300/1970, avendo la Corte territoriale errato nel ritenere che lo svolgimento di pause durante l’orario di lavoro, eccedenti la previsione legale e contrattuale costituisca inadempimento dell’obbligazione del dipendente; e che il relativo controllo poteva essere delegato a soggetti terzi, nella specie un’agenzia investigativa, diversi dal datore di lavoro, solo in caso di atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione;
  • nella nullità della sentenza nonché violazione dell’art. 132 c.p.c. avendo la Corte territoriale errato nell’ipotizzare un danno patrimoniale a carico della società, trattandosi di mero inadempimento contrattuale e non di un fatto illecito che potesse giustificare, ex artt. 2 e 3 della Legge n. 300 del 1970, un controllo investigativo;
  • nella violazione degli artt. 132 e 115 c.p.c. nonché 7 della Legge n. 300 del 1970, avendo la Corte territoriale trascurato che il servizio di raccolta dei rifiuti, con riguardo alle giornate oggetto della contestazione disciplinare, era stato portato a compimento, con conseguente insussistenza di un inadempimento.

Gli Ermellini giudicano non accoglibili i motivi del ricorso: ribadiscono che le disposizioni degli artt. 2 e 3 dello Statuto dei lavoratori non precludono al datore di lavoro di ricorrere ad agenzie investigative, purché queste non sconfinino nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria riservata dall’art. 3 dello Statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori e giustificano l’intervento in questione non solo per l’avvenuta prospettazione di illeciti e per l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione. I controlli del datore di lavoro, anche a mezzo di agenzia investigativa, sono legittimi ove siano finalizzati a verificare comportamenti del lavoratore che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo, non potendo, invece, avere ad oggetto l’adempimento (o inadempimento) della prestazione lavorativa.

Non viene escluso il potere dell’imprenditore, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., di controllare direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica o anche attraverso personale esterno, costituito in ipotesi da dipendenti di una agenzia investigativa, l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti già commesse o in corso di esecuzione, e ciò a prescindere dalle modalità del controllo, che può avvenire anche occultamente, senza che vi ostino né il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione dei rapporti.

Ed infine, ribadiscono i Supremi giudici che la nozione di “patrimonio aziendale” tutelabile in sede di esercizio del potere di controllo dell’attività dei lavoratori vada intesa in una accezione estesa; si è così riconosciuto “il diritto del datore di lavoro di tutelare il proprio patrimonio, costituito non solo dal complesso dei beni aziendali, ma anche dalla propria immagine esterna, così come accreditata presso il pubblico” (Cass., n. 2722 del 2012; sulla tutela dell’immagine aziendale v. pure Cass., n. 13266 del 2018); costantemente, poi, è stata ritenuta lesiva del patrimonio aziendale la condotta di dipendenti potenzialmente integrante un illecito penale, sia ammettendo l’accertamento di fatti disciplinarmente rilevanti mediante filmati di telecamere installate in locali dove si erano verificati furti o a presidio della cassaforte aziendale, sia in ipotesi di mancata registrazione della vendita da parte dell’addetto alla cassa ed appropriazione delle somme incassate e si è quindi ribadito che la tutela del patrimonio aziendale può riguardare la difesa datoriale “dalla lesione all’immagine e al patrimonio reputazionale dell’azienda, non meno rilevanti dell’elemento materiale che compone la medesima”

Proprio sottolineando che i giudici di appello avevano ritenuto che il controllo non era diretto a verificare le modalità di adempimento dell’obbligazione lavorativa, bensì il compimento di atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione contrattuale, gli Ermellini confermano la correttezza interpretativa dei motivi di licenziamento e rigettano il ricorso del lavoratore.

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