Cass., sez. Lavoro, 20 febbraio 2024, n. 4458
La vicenda trae origine dal licenziamento per giusta causa intimato al dipendente, con mansioni di guida del camion dei rifiuti, dalla società datrice di lavoro, dopo avere scoperto che lo stesso era stato condannato per il delitto di associazione mafiosa vent’anni prima della sua assunzione. Il licenziamento per giusta causa avviene dopo tre anni di assunzione e di lavoro senza nessuna contestazione ai danni del lavoratore. Il giudice di primo grado e la Corte di Appello annullano il licenziamento, con conseguente condanna alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro ed al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata a dodici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del recesso fino a quello dell’effettiva reintegra. Nelle motivazioni specificano che il contratto collettivo applicato dalla società datrice di lavoro consente il licenziamento senza preavviso per aver riportato condanne per reati infamanti commessi nell’esercizio dell’attività lavorativa. Inoltre, il giudice di appello ribadisce che in ogni caso, a prescindere dalla specifica previsione contrattuale, riveste carattere generale il principio secondo cui possa configurarsi un illecito disciplinare passibile di licenziamento nel caso in cui il lavoratore riporti una condanna penale per reati non afferenti alle mansioni svolte, ma di gravità tale da ledere il rapporto fiduciario con il datore di lavoro e l’affidamento di questi sul futuro corretto adempimento. Secondo la Corte, nel caso di specie la condanna penale riportata dal lavoratore attiene a reati certamente gravi (art. 416 bis, c.p.c.) ma commessi oltre venti anni prima rispetto alla contestazione disciplinare, e per i quali la condanna penale ha acquisito definitività molti anni prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro. Nel caso di specie tale condanna, pur essendo teoricamente infamante, non ha però inciso sul rapporto di lavoro in atto, né messo in pericolo il corretto adempimento delle prestazioni future, né compromesso l’affidamento del datore di lavoro sui futuri adempimenti. Gli Ermellini, investiti del parere di merito, confermano le decisioni di primo e secondo grado, stante che i fatti addebitati risalgono a molti anni prima dell’assunzione e considerando che le mansioni espletate non risultano atte a incidere sulla reiterabilità del reato, né sul rapporto fiduciario in essere con la nuova azienda. Di conseguenza è applicabile la tutela reintegratoria riconosciuta al lavoratore illegittimamente licenziato nel vigore della disciplina del c.d. Jobs Act, secondo cui in tema di licenziamento disciplinare, l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, ai fini della pronuncia reintegratoria di cui all’art. 3, co. 2 del D.lgs. n. 23 del 2015, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare. Tale principio, secondo cui l’irrilevanza disciplinare del fatto, così come ritenuta dai giudici del merito, determina conseguenze reintegratorie, viene quindi ribadito, dagli Ermellini, che confermano nel merito l’operato della Corte di Appello.