Sentenze – Illegittimità della cessione del ramo d’azienda e diritto alla retribuzione

Clara Rampollo, Consulente del Lavoro in Pavia

Cass., sez. Lavoro, 24 luglio 2023 n. 22041

La vicenda riguarda il ricorso presentato da una società a seguito di una cessione di ramo d’azienda non andata a buon fine contro la decisione della Corte d’Appello di Milano che la condannava al pagamento in favore del lavoratore ceduto delle retribuzioni non percepite nel periodo di cassa integrazione guadagni (Cig) sin dalla data dell’illegittima cessione di azienda. La Suprema Corte ritiene che la Corte territoriale abbia erroneamente condannato l’azienda a risarcire il lavoratore ceduto prescindendo dalla verifica di una rituale offerta di prestazione lavorativa, come se il danno derivasse automaticamente sin dal momento in cui si è verificata la cessione illegittima. La Corte di Cassazione accoglie il ricorso presentato per motivi procedurali e di sostanza. La Corte d’Appello di Milano, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, aveva condannato la società cedente il ramo d’azienda al pagamento al dipendente ceduto di un risarcimento del danno patito in conseguenza della invalida cessione, consistente nella differenza fra quanto avrebbe legittimamente percepito ove la cessione non fosse stata posta in essere e quanto percepito presso la cessionaria. La società cedente ha proposto ricorso per Cassazione sulla base di due motivi: – ai sensi dell’art 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e violazione e/o falsa applicazione degli articoli 1206, 1207 e 1218 c.c., la Corte d’Appello aveva riconosciuto importi a titolo di risarcimento anche per il periodo antecedente alla sentenza che aveva ritenuto inefficace il trasferimento d’azienda; – in secondo luogo perché la stessa Corte territoriale in violazione e con la falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. aveva riconosciuto il diritto del pagamento della differenza tra il valore dei buoni pasto acquisiti presso il cessionario e quelli che avrebbe percepito se non avesse avuto luogo la cessione del ramo d’azienda. Posto che il Collegio non reputa che il ricorso presenti una questione di massima di particolare importanza che non sia già stata decisa da conforme giurisprudenza della stessa Corte dalla quale non si ravvisa ragione per discostarsi, il primo motivo è stato ritenuto infondato in quanto in mancanza di un’offerta ed esecuzione della prestazione lavorativa nulla poteva imputarsi alla società ricorrente. Anche il secondo motivo è stato ritenuto non fondato in quanto il buono pasto non ha natura retributiva e non si potrebbe nemmeno far equivalere la mancata presenza in servizio del lavoratore, dipesa da una condotta illegittima del cedente, ad una prestazione monetaria del buono pasto come forma risarcitoria. Le Sezioni Unite hanno distinto l’arco temporale del caso oggetto di ricorso in due parti: il periodo relativo al passaggio alle dipendenze del lavoratore e quello successivo alla pronuncia di illegittimità della vicenda traslativa. In particolare, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno commisurato alla retribuzione maturata per il periodo precedente alla declaratoria giudiziale di nullità (i c.d. intervalli “non lavorati”) solo a seguito di una messa in mora del datore di lavoro: in assenza del sinallagma della prestazione, il lavoratore ha diritto al risarcimento a causa dell’impossibilità della prestazione derivante dall’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla (Cass., n. 20858 del 2005, Cass., nn. 4677 e 24886 del 2006; Cass., n. 7979 del 2008). In via generale il ricorso promosso dal lavoratore volto a far valere l’illegittimità della cessione del ramo d’azienda può rappresentare un atto idoneo a costituire in mora il datore di lavoro ma nulla impedisce al lavoratore ceduto di mettere a disposizione dell’azienda cedente le proprie energie lavorative sin dal contestato trasferimento in modo che il datore di lavoro inadempiente possa essere obbligato a risarcire i danni derivanti dalla violazione dell’obbligo di far lavorare chi lo aveva richiesto. La Corte territoriale di Milano non ha verificato l’esistenza di una rituale offerta di prestazione lavorativa nel caso specifico e ha condannato l’azienda a risarcire il danno in modo automatico sin dal momento in cui si è verificata la cessione illegittima poi accertata giudizialmente. In conclusione, affinché un dipendente possa chiedere il risarcimento delle somme non percepite per il periodo corrispondente al suo trasferimento ad altro datore di lavoro a seguito di cessione di ramo d’azienda poi dichiarato illegittimo, deve mettere in mora il datore di lavoro cedente offrendo la propria prestazione lavorativa; l’indennizzo spetta comunque solo per il periodo intercorrente tra la data di cessione del ramo d’azienda e quello della pubblicazione del provvedimento giudiziale di illegittimità della cessione e solo a causa dell’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro cedente di ricevere la prestazione lavorativa.


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