Cass., sez. Lavoro, 31 maggio 2024, n. 15332
La vicenda riguarda il ricorso presentato dai lavoratori di una società per il riconoscimento, quale orario di lavoro, del tempo impiegato per spostarsi dal loro domicilio al cliente e, alla fine della giornata lavorativa, per rientrare dall’ultimo cliente al domicilio. La corte di Cassazione ha emesso una sentenza riguardante il tempo di spostamento di questi lavoratori macchinisti confermando il rigetto della domanda dei lavoratori di riconoscere come orario di lavoro il tempo di spostamento. La sentenza si basa sull’interpretazione della normativa europea e nazionale sull’orario di lavoro, nonché sulla giurisprudenza comunitaria in materia. Vediamo come si è sviluppato l’iter processuale. Il giudice di primo grado aveva rigettato la domanda dei lavoratori e la Corte d’Appello di Roma aveva confermato la sentenza di primo grado. I lavoratori propongono quindi ricorso in Cassazione con quattro motivi: – falsa applicazione delle norme sull’orario di lavoro ed errata interpretazione di “luogo di lavoro fisso”; – omessa pronuncia sulla domanda relativa agli strumenti di lavoro e DPI; – violazione delle norme sull’orario di lavoro, – falsa applicazione del Ccnl applicato in azienda (attività ferroviarie). La Corte di Cassazione pone alla base dell’analisi dei motivi di ricorso in considerazione, il seguente quadro normativo: – la Direttiva 2003/88/CE che definisce l’orario di lavoro come qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni; ove i lavoratori non abbiano un luogo di lavoro fisso od abituale, costituisce “orario di lavoro” anche il tempo di spostamento; – il D.lgs. n. 66 del 2003 che recepisce la definizione europea di orario di lavoro nell’ordinamento italiano; in particolare costituisce orario di lavoro non solo il lavoro effettivo ma anche i periodi in cui i lavoratori sono obbligati ad essere fisicamente presenti sul luogo indicato dal datore di lavoro e a tenervisi a disposizione di quest’ultimo per poter fornire immediatamente la loro opera in caso di necessità; – la giurisprudenza della CGUE – Corte di Giustizia dell’Unione Europea – che interpreta la nozione di orario di lavoro, inclusi i tempi di spostamento per i lavoratori senza luogo di lavoro fisso. Dai principi di diritto sanciti sia a livello europeo e sia a livello nazionale, emerge che l’attività dei lavoratori ricorrenti è riconducibile nella nozione di orario di lavoro ove si tratti di prestazione effettiva ovvero di attività sottoposta al potere conformativo del datore di lavoro ovvero che si svolga nell’ambito del luogo di lavoro inteso come luogo in cui il lavoratore è chiamato a svolgere un’attività su ordine del datore di lavoro, anche quando tale luogo non sia il posto in cui esercita abitualmente la propria attività professionale purché sia intaccata in senso apprezzabile la facoltà di gestire liberamente il proprio tempo. La Corte, riaffermando i tre requisiti essenziali per definire l’orario di lavoro (presenza sul luogo di lavoro, disponibilità al datore di lavoro, esercizio di attività o funzioni), stabilisce che il tempo di spostamento non rientra generalmente nell’orario di lavoro, salvo casi specifici di necessità per l’esecuzione della prestazione o limitazione della libertà del lavoratore e che il luogo di lavoro può essere plurimo ma deve essere preventivamente individuabile e non continuamente mutevole. Nella fattispecie esaminata il tempo di spostamento dei lavoratori ricorrenti non rientra nella nozione di orario di lavoro perché questi potevano liberamente disporre del proprio tempo; infatti, durante gli spostamenti non operava il potere organizzativo o di ingerenza del datore di lavoro e il luogo di lavoro era predefinito: gli impianti erano preventivamente individuabili e in numero limitato. In conclusione, nel caso di specie oltre ad non aver accertato che i lavoratori fossero soggetti ad un potere di etero direzione durante lo spostamento non è stato nemmeno dimostrato che gli indumenti fossero diversi da quelli utilizzati od utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento. Il tempo per indossare la divisa rientra nell’orario di lavoro solo se assoggettato al potere di conformazione del datore, per l’inclusione nell’orario di lavoro non è decisiva la natura di DPI. Il ricorso è rigettato.