SENTENZE – “Furbetti del cartellino”: per la Cassazione il licenziamento disciplinare è una sanzione proporzionata

Alice Pattonieri, Consulente del Lavoro in Milano

Cass., sez. Lavoro, Ord. 24 giugno 2024, n. 16616

La vicenda riguarda due lavoratori dipendenti presso il Comune di Napoli, i quali impugnavano il licenziamento per giusta causa loro intimato. Il licenziamento, giunto al termine di un procedimento disciplinare, trovava fondamenta in determinati comportamenti messi in atto dagli ex dipendenti, quali la falsa attestazione della loro presenza in servizio. I lavoratori, dal canto loro, nell’ambito del giudizio di merito lamentavano la genericità della contestazione e l’insussistenza del fatto che dava origine al recesso. L’impugnazione veniva respinta sia nella fase sommaria del procedimento che in sede di opposizione. Contemporaneamente, a carico dei dipendenti, pendeva un procedimento penale per diversi reati previsti dal Codice Rocco, in particolare: art. 81 (concorso formale, reato continuato), art. 110 (pena per coloro che concorrono nel reato), art. 640 comma 2, punto 1 (truffa per fatto commesso a danni di un Ente Pubblico) e art. 494 (sostituzione di persona). Un tale quadro criminoso emergeva nel modus operandi utilizzato per attuare la falsa attestazione della propria presenza in servizio: questa, infatti, veniva generata mediante più azioni ripetute e in periodi di tempo continuativi (in concreto: solo uno dei lavoratori era solito presentarsi sul luogo di lavoro e timbrare il badge per tutti gli assenti) inducendo in errore l’ente incaricato del controllo della presenza ed alla contabilizzazione dei corrispettivi dovuti. Tutto ciò generava un ingiusto profitto ai lavoratori, nonché danno del Comune e lesione dell’immagine dell’Ente. I lavoratori si rivolgevano, dunque, alla Corte d’Appello di Napoli, la quale confermava la sentenza precedente rigettando il ricorso, sulla base delle seguenti motivazioni: i reclamanti, soliti a trasgredire i propri doveri sul luogo di lavoro avvalendosi di mezzi elaborati e complessi, davano vita ad un esteso sistema delittuoso talmente grave da annientare totalmente la fiducia nell’ambito di un qualsiasi rapporto di lavoro. Dimostrava inoltre la scarsa (se non nulla) propensione ai principi di diligenza, buona fede e correttezza, necessari all’instaurazione e al proseguimento di una qualsivoglia relazione lavorativa. A questo punto, gli ex dipendenti del Comune di Napoli proponevano ricorso in Cassazione sulla base di diversi motivi, uno dei quali desta particolare interesse: i ricorrenti contestavano la proporzionalità della sanzione (ossia il licenziamento per giusta causa), valutata invece positivamente dal giudice di merito. A loro detta, la sanzione subita non rispettava il principio di proporzionalità, dal momento che gli stessi non avrebbero mai subito prima un procedimento disciplinare. La Cassazione, però, si rifà ad una propria precedente pronuncia del 17/10/2018 (n. 26010), secondo la quale “l’accertamento dei fatti ed il successivo giudizio in ordine alla gravità e proporzione della sanzione espulsiva adottata sono demandati all’apprezzamento del giudice di merito, che anche qualora riscontri l’astratta corrispondenza dell’infrazione contestata alla fattispecie tipizzata contrattualmente è tenuto a valutare la legittimità e congruità della sanzione inflitta […] con giudizio che, se sorretto da adeguata e logica motivazione, è incensurabile in sede di legittimità». Nel caso in analisi, la Corte d’Appello aveva ricostruito gli accadimenti in maniera analitica, sviscerando e motivando largamente la gravità dei comportamenti messi in atto dai ricorrenti. Soltanto in seguito ad un’ampia e puntuale valutazione dell’insieme era giunta alla conclusione che la proporzionalità della sanzione comminata ai lavoratori fosse stata rispettata. Per contro, veniva escluso nella maniera più totale che i giudici di merito si fossero imbattuti in un mero automatismo. Alla luce di quanto esposto, gli ex dipendenti del Comune di Napoli vedevano il loro ricorso rigettato dalla Suprema Corte di Cassazione.


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