Cass., sez. Penale, 30 agosto 2022, n. 31879
Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano
Con sentenza emessa il Tribunale di Crema, all’esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato l’imputato responsabile dei reati di cui agli artt. 22, comma 12, D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (capo A), e 590, secondo e terzo comma, c.p. (capo B), per avere, in qualità di legale rappresentante della E.A.C. Srl, occupato alle proprie dipendenze un cittadino
indiano privo di permesso di soggiorno e per avere cagionato allo stesso, per colpa consistita nella violazione delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, lesioni personali dalle quali derivava una malattia
di durata superiore ai 40 giorni e l’indebolimento permanente della mano destra. C., previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alle circostanze aggravanti di cui all’art. 590 c.p., era
stato condannato alla pena – condizionalmente sospesa – di mesi tre, giorni dieci di reclusione ed euro 2.800,00 di multa per il reato di cui al capo A) e alla pena di mesi due di reclusione per il reato di cui al capo B), nonché al risarcimento dei danni patiti dall’Inail, parte civile costituita, da liquidarsi in separato giudizio. Il Tribunale aveva individuato quale profilo di colpa specifica la violazione da parte dell’imputato dell’art. 18, D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, norma che pone in capo al datore di lavoro l’obbligo di formazione e informazione del dipendente, obbligo considerato non adempiuto nella specie, posto che il lavoratore era risultato impiegato in nero presso l’azienda da circa un mese, senza essere stato istruito in ordine ai rischi connessi allo svolgimento della prestazione lavorativa e, segnatamente, circa l’uso della macchina spaccalegna, la cui lama aveva cagionato una grave lesione al braccio del lavoratore.
Dopo il verificarsi del fatto, il lavoratore era stato accompagnato presso il Pronto soccorso dell’Ospedale di Crema da un pick-up di colore nero, immediatamente dileguatosi. Il cittadino indiano presentava una significativa ferita al braccio e i suoi indumenti erano intrisi di “residui di materiale legnoso”.
All’esito della visione dei filmati delle telecamere del presidio medico, i Carabinieri risalivano al proprietario del pick-up, risultato appartenente alla E.A.C. Srl, il cui titolare aveva poi ammesso di avere accompagnato la persona
offesa, la quale, secondo quanto dichiarato dall’imputato, sarebbe apparsa nel piazzale della ditta provenendo dai terreni dello zio dell’imputato. Quest’ultimo, tuttavia, aveva negato di conoscere il lavoratore infortunato,
aggiungendo che il nipote era solito assumere saltuariamente qualche indiano. A sua volta, la persona offesa aveva dichiarato di essere stato reclutato a lavorare presso l’azienda dell’imputato da circa un mese e che,
il giorno del fatto, egli stava tagliando un pezzo di legno di grandi dimensioni avvalendosi dell’apposito macchinario ma, nel procedere alla sistemazione del pezzo, aveva premuto inavvertitamente il pedale della macchina,
provocando la discesa della lama, che gli aveva procurato lo schiacciamento della mano destra e l’amputazione di un dito.
La sentenza di primo grado era stata appellata dalla difesa dell’imputato, che aveva evidenziato la contraddittorietà delle dichiarazioni della persona offesa, la quale, al momento dell’ingresso in Pronto soccorso, era risultata
odorare di alcool, l’assenza di testimoni a riscontro della dinamica dell’infortunio, l’inverosimiglianza
della ricostruzione fornita dal lavoratore, nonché la mancanza di una prova certa circa il rapporto di lavoro intercorso tra quest’ultimo e la E.A.C. Srl. All’esito del giudizio di impugnazione, la Corte di Appello di Brescia, con la sentenza in epigrafe, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti del datore di lavoro in ordine a entrambi i reati, per essersi i medesimi estinti per la sopravvenuta prescrizione, non accogliendo l’istanza di proscioglimento nel merito formulata dall’appellante, ha confermato le statuizioni civili e ha condannato l’imputato al pagamento delle ulteriori spese in favore della parte civile.
Quanto all’evenienza degli elementi costitutivi del primo reato, nel respingere le doglianze difensive relative alla mancata prova del rapporto di lavoro, la Corte territoriale ha affermato che la sussistenza del suddetto rapporto poteva desumersi da plurimi elementi, primo fra tutti l’essersi verificato l’infortunio all’interno dello stabilimento dell’azienda. Inoltre, sono stati evidenziati la presenza di materiale legnoso sugli indumenti del lavoratore al momento del suo arrivo in ospedale e il rilievo che, se la persona offesa fosse veramente sbucata improvvisamente
dai terreni dello zio dell’imputato, non ci sarebbero state ragioni per giustificare la fretta dell’imputato nell’abbandonare il lavoratore davanti al pronto soccorso. Inoltre, i giudici di appello hanno aggiunto
che, una volta assodata l’assenza della somministrazione della previa formazione al lavoratore, anche un’ipotetica disattenzione o imprudenza del lavoratore non avrebbe potuto comunque escludere la responsabilità del datore di lavoro, in questo caso del legale rappresentante della società datrice di lavoro. Avverso la suddetta pronuncia ricorre per cassazione l’imputato, a mezzo del suo difensore, articolando due motivi.
Per ciò che concerne l’asserita insussistenza del rapporto di lavoro tra l’impresa societaria amministrata dall’imputato e la persona offesa, la Corte di Appello ha fatto riferimento – oltre che ai residui di “materiale legnoso” sugli indumenti del lavoratore – anche alle dichiarazioni rilasciate da quest’ultimo e al contributo dichiarativo del teste, dipendente dell’E.A.C. Srl. I giudici di appello – lungi dall’appiattirsi acriticamente sulle dichiarazioni della persona offesa – ne hanno operato un’accurata valutazione, motivando le ragioni di apparente contraddittorietà
nella successione delle sue affermazioni, segnalando il ragionevole timore che avvinceva il lavoratore, riconnesso alla sua condizione di immigrato privo di permesso di soggiorno, e traendo dalle medesime l’essenza genuina del relativo narrato con argomentazioni esenti da vizi logici. Sul tema, si ricorda che le regole dettate dall’art. 192, comma 3, c.p.p. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da
sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni
di qualsiasi testimone, con la specificazione che, laddove la persona offesa si sia costituita
parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi (Sez. U., n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214 – 01; fra le successive, Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, S., Rv. 275312 – 01).
Nel caso di specie, la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato con la società amministrata dall’imputato (e non con lo zio) è stata accertata anche in virtù delle convergenti dichiarazioni rilasciate dal teste, il quale ha riferito
di aver notato il lavoratore infortunato in azienda – non solo nel giorno dell’infortunio, ma – anche in precedenti occasioni, precisando, altresì, che il suddetto si trovava nei pressi della macchina spaccalegna proprio qualche istante prima del sinistro. A conclusioni non dissimili deve pervenirsi per quel che concerne il profilo della colpa specifica dell’imputato e dell’eventuale interruzione del nesso di causalità conseguente a un asserito
comportamento abnorme del lavoratore. Sull’argomento, è, del resto, fondata l’osservazione svolta nella memoria della parte civile, laddove si osserva che la ritenuta configurazione della colpa specifica in capo all’imputato
espressa nella sentenza impugnata non presta il fianco a critiche, nel senso che, pur ipotizzando – per assurdo – che l’imputato non avesse occupato il lavoratore infortunato in qualità di lavoratore subordinato, l’averlo comunque
addetto a qualsiasi diverso titolo alla mansione del taglio del legname, senza fornirgli alcuna formazione e/o istruzione in merito ai lavori da eseguire con l’uso della macchina “sega spaccalegna”, che fossero volti a
salvaguardarne l’incolumità e la salute, determina in ogni caso la responsabilità del datore, atteso che il sistema prevenzionale tutela tutti i lavoratori, a prescindere dalla tipologia contrattuale che li lega al datore stesso, ai sensi
dell’art. 3, D.lgs. n. 81 del 2008.
In concreto, quindi, il legale rappresentante della società datrice di lavoro è stato, secondo la motivata conclusione dei giudici di merito, raggiunto rettamente dall’accertamento di responsabilità, nulla avendo il medesimo predisposto a protezione del lavoratore, d’altronde assunto contra legem. Secondo il corretto riferimento operato nella contestazione, invero, l’art. 18, D.lgs. n. 81 del 2008 contempla fra gli obblighi del datore di lavoro quello, nell’affidare i compiti ai lavoratori, di tener conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro
salute e alla sicurezza, quello di prendere le misure appropriate affinché soltanto i lavoratori che hanno ricevuto adeguate istruzioni e specifico addestramento accedano alle zone che li espongono ad un rischio grave e specifico,
nonché quello di adempiere agli obblighi di informazione, formazione e addestramento di cui agli articoli 36 e 37 dello stesso D.lgs. (obblighi finalizzati ad assicurare che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente
ed adeguata in materia di salute e sicurezza). Per il resto, il datore di lavoro che non adempie gli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde, a titolo di colpa specifica, dell’infortunio dipeso dalla negligenza del lavoratore che, nell’espletamento delle proprie mansioni, ponga in essere condotte imprudenti, trattandosi di conseguenza diretta e prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi, né l’adempimento di tali obblighi è surrogabile dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore.
Per quanto attiene, poi, alla denunciata abnormità della condotta della persona offesa, i giudici del merito hanno escluso tale evenienza formulando uno scrutinio adeguato e non illogico degli elementi di prova acquisiti
in merito alla mancata dimostrazione dello stato di alterazione alcolica del lavoratore. In conclusione, l’impugnazione deve essere, nel suo complesso, rigettata, restando intatta l’accertata responsabilità civile dell’imputato. Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente
al pagamento delle spese processuali.
Cass., sez. Lavoro,8 luglio 2022, n. 21773
Andrea Di Nino, Consulente del Lavoro in Milano
Con la sentenza n. 21773 dell’8 luglio 2022, la Corte di Cassazione si è espressa in merito alla legittimità del licenziamento per giusta causa intimato ad una dipendente sorpresa, durante il periodo di congedo straordinario
concessole (per assistere la figlia portatrice di handicap in situazione di gravità, ai sensi dell’art. 42, comma 5, D.lgs. n. 151/2001), a lavorare presso il negozio di cui era titolare il compagno, anch’egli dipendente della società.
In particolare, la Corte d’Appello di Bologna aveva respinto, in secondo grado, il reclamo proposto dalla lavoratrice, confermando la sentenza di primo grado con cui la donna si era vista rigettare l’impugnativa del licenziamento
per giusta causa intimato dal datore di lavoro per il motivo di cui sopra. La dipendente era stata colta sul fatto da parte di un investigatore privato, incaricato dalla società datrice di lavoro di pedinare il compagno della stessa, anch’egli proprio dipendente. Quest’ultimo, in particolare, era stato sorpreso a lavorare presso il medesimo negozio
– di cui era titolare – nel corso di un’assenza per malattia. A seguito del licenziamento e avverso le pronunce
dei primi due gradi di giudizio, dunque, la lavoratrice ricorreva in Cassazione con diversi motivi di doglianza.
Nel dettaglio, la dipendente riteneva che non fosse stato effettivamente individuato l’oggetto dell’onere probatorio in merito alla giusta causa di licenziamento, che la sentenza impugnata ha ritenuto essere stato assolto dal datore
di lavoro. Inoltre, la lavoratrice lamentava lo scarso approccio critico della Corte d’appello ai vari elementi di prova raccolti dal datore di lavoro: a dire della donna, infatti, la Corte d’appello avrebbe recepito “senza il necessario apprezzamento critico le relazioni investigative, le foto e i filmati alle stesse allegati, nonché le dichiarazioni
rese dagli investigatori escussi come testimoni, senza neppure rilevare le contraddizioni in cui questi ultimi sarebbero incorsi”.
Nell’ambito del terzo grado di giudizio, la Suprema Corte ha ritenuto inammissibili i motivi avanzati dalla lavoratrice e ha rigettato il ricorso. Nel dettaglio, i giudici hanno ritenuto che, in secondo grado, i giudici di merito non abbiano considerato gli elementi suddetti come facenti piena prova, bensì abbiano valutato gli stessi “unitariamente agli
altri dati probatori acquisiti”, ritenendo che fossero, nel complesso, adatti a dare dimostrazione della condotta contestata alla lavoratrice mediante il licenziamento.
Cass., sez. Lavoro, 13 luglio 2022, n. 22094
Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano
La Corte di Cassazione di Bologna conferma la legittimità del licenziamento comminato ad una dipendente che si è rifiutata di sottoporsi alle visite mediche obbligatorie. La vicenda prende il via dal primo esame della Corte di Appello di Bologna, che confermava la pronuncia emessa dal Tribunale della stessa sede.
L’azienda datrice di lavoro licenziava la lavoratrice dipendente, in forza presso la società dal 10.11.2000 con mansioni di impiegata amministrativa livello 4°.
Il recesso era stato adottato, con missiva dell’11.10.2007, per giusta causa con riferimento alla lettera di contestazione disciplinare del 20.9.2017 in cui le era stato ascritto di essersi rifiutata di effettuare la visita medica
nelle giornate del 12.9.2017 e del 19.9.2017, nella prima circostanza adducendo l’inidoneità del luogo di svolgimento del controllo e, nel secondo caso, omettendo di presentarsi nel luogo ed orario del previsto espletamento. La lavoratrice impugna il licenziamento e si rivolge agli Ermellini, denunciando in primis la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 20 e 41 del D.lgs. n. 81/2008, in relazione all’art. 32 Cost., all’art. 2103 c.c. e all’art. 1460
c.c., ai sensi dell’art. 360, co.1, n.3, c.p.c., per avere la Corte distrettuale erroneamente interpretato le suddette disposizioni che impongono al datore di lavoro di sottoporre il dipendente ad accertamenti sanitari in ipotesi di
cambio di mansioni e al lavoratore di sottoporvisi.
Sostiene, in primo luogo, che la visita medica disposta dall’azienda aveva la sola finalità di accertare l’idoneità della lavoratrice non allo svolgimento delle mansioni già assegnate e in corso di svolgimento, come previsto dall’art. 5 della Legge n. 300/70, bensì l’idoneità a svolgere le nuove mansioni di addetta alle pulizie assegnatele illegittimamente.
In secundo, la lavoratrice adduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. nonché l’insussistenza della giusta causa di licenziamento, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., per non avere considerato la Corte di merito,
ai fini dell’accertamento della sussistenza della giusta causa, da un lato, l’elemento soggettivo del comportamento connotato da buona fede e, dall’altro, la sproporzione della sanzione inflitta rispetto alla condotta contestata.
La Suprema Corte, nell’analisi delle motivazioni portate dalla lavoratrice, ritiene il primo infondato, in quanto la sorveglianza sanitaria comprende l’obbligo, per il datore di lavoro e per il lavoratore, di visita medica in occasione del cambio della mansione onde verificare l’idoneità alla mansione specifica.
Essendo quindi la visita medica di idoneità in ipotesi di cambio delle mansioni prescritta per legge, la richiesta di sottoposizione a visita, da parte del datore di lavoro, prima della assegnazione alle nuove mansioni, come correttamente sottolineato dalla Corte distrettuale, non è censurabile e, anzi un adempimento dovuto.
Pertanto, il rifiuto della lavoratrice a non sottoporvisi, perché rivolto a contrastare un illegittimo demansionamento, è stato illegittimo. Nel ragionamento esposto dagli Ermellini, viene infatti sottolineato che la visita medica disposta era preventiva e prodromica all’assegnazione delle nuove mansioni; l’omissione di detta visita avrebbe costituito un colposo e grave inadempimento di parte datoriale. La reazione della lavoratrice non è giustificabile ai sensi dell’art. 1460 c.c. perché, da un lato, il datore di lavoro si era limitato ad adeguare la propria condotta alle prescrizioni imposte dalla legge per la tutela delle condizioni fisiche dei dipendenti nell’espletamento delle mansioni
loro assegnate e, dall’altro, la dipendente avrebbe ben potuto impugnare un eventuale esito della visita, qualora non condiviso, ovvero l’asserito illegittimo demansionamento, innanzi agli organi competenti.
Il secondo motivo è altresì giudicato inammissibile, in quanto la giusta causa di licenziamento, integra una clausola generale che richiede che l’interprete la renda concreta tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi
alla coscienza generale. La buona fede, nel rifiuto a sottoporsi a tali visite mediche, non è stata rilevata dalla ricostruzione dei fatti documentale, e soprattutto dall’illegittimità del comportamento omissivo della dipendente,
punito anche con sanzioni penali, e lo scopo della condotta del datore di lavoro, finalizzata alla prevenzione rispetto alla sicurezza e salubrità nei luoghi di lavoro.Pertanto, il licenziamento viene confermato.
Cass., sez. Lavoro, 6 luglio 2022, n. 21470
Clarissa Muratori, Consulente del Lavoro in Milano
La Corte di Appello di Brescia, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava risolto il rapporto di lavoro tra la società M.A.s.r.l. ed il lavoratore S.M. . Secondo i giudici di appello il licenziamento, derivando dalla perdita di un appalto di servizi e dalla necessità quindi di un’operazione di riorganizzazione del personale in forza da parte dell’azienda, era stato correttamente intimato per giustificato motivo oggettivo. Tuttavia, sempre secondo i giudici del merito, la società non aveva utilmente adempiuto all’obbligo di repêchage del lavoratore.
Come noto la legittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo comporta per il datore di lavoro la necessità di provare la sussistenza delle ragioni che portano alla risoluzione del rapporto di lavoro e l’inutilizzabilità
del lavoratore in altre mansioni analoghe a quelle precedentemente svolte.
Se sul primo aspetto i giudici ammettevano la sussistenza dei motivi di licenziamento (perdita dell’appalto), sul secondo, l’obbligo del repêchage, ritenevano che la società non avesse tenuto una condotta sufficientemente adeguata. In primo luogo, vi erano state nuove assunzioni di personale ad un livello di inquadramento e di mansioni inferiori rispetto a quelle svolte dal lavoratore, senza che al dipendente fosse stata fatta alcuna proposta di demansionamento al fine di evitare il licenziamento, ma oltre tutto S.M., all’epoca del recesso, svolgeva mansioni
non soppresse dalla cessazione dell’appalto. Sulla base di analoghi precedenti di legittimità ed in conformità alla reale sussistenza della perdita dell’appalto veniva dichiarato legittimo il licenziamento per giustificato
motivo oggettivo, ma con la condanna della società al pagamento di 16 mensilità della retribuzione globale di fatto.
Propone ricorso il lavoratore per la cassazione della sentenza, ricorso che viene accolto con rinvio alla Corte di Appello di Brescia in diversa composizione. L’accoglimento del ricorso deriva dal fatto che “con la sentenza n. 125 del 19 maggio 2022 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo
comma, secondo periodo, della legge n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012, limitatamente alla parola «manifesta»;”.
Nel giudizio di cassazione, la dichiarazione di illegittimità di una norma di legge deve essere tenuta in conto qualora il giudizio di cassazione si fondi su norme modificate o addirittura espunte dall’ordinamento nel periodo
temporale tra la deliberazione della decisione e la pubblicazione della sentenza.In ragione di ciò il capo della sentenza impugnata che aveva negato la tutela reintegratoria deve essere cassato, onde permettere al giudice
del rinvio di riconoscere la tutela dovuta secondo il nuovo quadro normativo.
Cass., sez. Lavoro, 30 giugno 2022, n. 20825
Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano
Si tratta del ricorso proposto da una impresa individuale avverso il giudizio di opposizione alla cartella esattoriale per omissioni contributive, in riferimento ad un maggior numero di lavoratori rispetto a quanto intimato, ritenendo
sussistente l’obbligazione contributiva per le ore di straordinario retribuite in nero. La parte ricorrente richiede la nullità della sentenza sostenendo che la Corte di merito avrebbe erroneamente ammesso dall’opponente l’identificazione di alcuni lavoratori non accorgendosi che gli stralci del ricorso recavano in realtà riferimenti a soggetti diversi. La Corte di merito aveva ritenuto identificati i lavoratori sulla scorta di atti e attività ispettive,
omettendo tuttavia di esaminare le puntuali allegazioni, fin dall’atto introduttivo, dimostrative che mai i predetti lavoratori sarebbero stati sentiti e individuati. Ancora, la parte ricorrente deduce l’omesso esame di un
fatto controverso e decisivo per il giudizio, avendo la Corte di merito ritenuto la pretesa contributiva pari a 21 ore straordinarie effettuate nell’aprile 2006, omettendo di esaminare le censure incentrate sulla deduzione che il
predetto lavoratore non avesse mai ricevuto somme in nero. Pertanto è da ritenersi nulla la sentenza, in quanto la Corte territoriale avrebbe omesso di esaminare il motivo principale del gravame, incentrato sulla contestazione in
toto dello svolgimento del lavoro in nero. Ciò premesso, la pronuncia della Cassazione, concentrata in modo spiccato su questioni processuali, si annota in quanto mette in evidenza che i Giudici di merito avevano (invece)
tenuto in debita considerazione gli atti compiuti da tutti gli operatori in fase di accertamento ispettivo. Infatti, così si legge nell’ordinanza, “in ogni caso, la Corte di merito ha dato atto della dichiarazione del finanziere che aveva
proceduto agli accertamenti ispettivi unitamente agli ispettori degli enti previdenziali e valorizzato, altresì, la documentazione da questi, per relationem, richiamata, contabile ed extracontablie, quale il registro presenze con solo nome e storico dei dipendenti richiesti ai centro per l’impiego, dando forma, pertanto, all’apprezzamento proprio del giudice del merito e al relativo convincimento formatosi sul compendio probatorio, insindacabile
in questa sede di legittimità”. La corte pertanto rigetta il ricorso.