Sentenze

Stefano Guglielmi, Elena Pellegatta, Andrea di Nino, Angela Lavazza, Consulenti del Lavoro in Milano

Danno biologico differenziale, onere della prova e responsabilità oggettiva

Cass., sez. Lavoro, 30 giugno 2022, n. 20823

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

Il giudice di primo grado, in accoglimento della domanda del lavoratore, condannava la datrice di lavoro al pagamento del danno biologico differenziale derivato dall’espletamento delle attività di lavoro svolte. La Corte di appello, in riforma della decisione di primo grado, ha respinto le domande del lavoratore che ha condannato alla restituzione di quanto percepito in esecuzione della sentenza di primo grado. La statuizione di rigetto è stata fondata sulle seguenti considerazioni:
a) la qualificazione della domanda sia in termini di responsabilità contrattuale che in termini di responsabilità  extracontrattuale comporta l’onere per il lavoratore della prova del danno alla salute, della nocività dell’ambiente
di lavoro, e della relativa connessione causale mentre sul datore di lavoro grava l’onere della prova dell’adozione delle cautele necessarie ad impedire il verificarsi del pregiudizio subito;
b) la verificazione del danno non è sufficiente a determinare l’insorgere dell’onere probatorio a carico del datore di lavoro in quanto la prova liberatoria a suo carico presuppone sempre che vi sia stata omissione da parte di questi nella predisposizione di misure di sicurezza suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica, necessarie ad evitare il danno mentre non può essere estesa ad ogni ipotetica misura di prevenzione configurandosi in tal caso una responsabilità oggettiva;
c) i lavoratori, sui quali ricadeva il relativo onere, non avevano offerto prova di una specifica omissione datoriale nella predisposizione di quelle misure di sicurezza, suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza
e dalla tecnica, necessarie ad evitare il danno.

Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso il lavoratore, ha resistito con controricorso il datore e richiamato la domanda di manleva nei confronti della Compagnia assicuratrice la quale ha resistito con  controricorso. Tutte le parti hanno depositato memoria. Il lavoratore non aveva fornito sufficiente prova, della quale era onerato, della sussistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione di quelle misure di sicurezza, suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica necessarie ad evitare il danno oggetto della pretesa risarcitoria  azionata. In tale contesto, il riferimento alla estrema difficoltà per il datore di lavoro in ragione del lungo tempo trascorso di dimostrare il corretto adempimento degli obblighi di
prevenzione e sicurezza si configura quale argomentazione aggiuntiva ed ulteriore che non interferisce con il nucleo centrale del ragionamento decisorio fondato, in estrema sintesi, sul mancato assolvimento dell’onere probatorio asseritamente gravante sui lavoratori.

La Corte di appello, richiamati i principi in tecnica necessaria ad evitare il danno. Solo ove tale prova fosse stata offerta sorgeva per il datore di lavoro l’onere di dimostrare di avere adottato le cautele necessarie ad impedire il
verificarsi del pregiudizio subito; tale onere non era stato in concreto assolto.
Secondo la condivisibile e consolidata giurisprudenza di questa Corte infatti l’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va
collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento; ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a
causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonchè il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova
sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (ex plurimis: Cass. n. 15112 del 2020, Cass. n. 26495 del 2018, Cass. n. 12808 del 2018,
Cass. n. 14865 del 2017, Cass. n. 2038 del 2013, Cass. 12467 del 2003).
La Corte accoglie il terzo motivo, dichiara inammissibile il primo e rigetta il secondo assorbiti gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello in diversa composizione cui
demanda di provvedere sulle spese del presente giudizio di legittimità.


Danneggiamento dei beni aziendali: il datore deve provare la condotta colposa del lavoratore e il lavoratore deve provare la sua non imputabilità

Cass., sez. Lavoro, 31 maggio 2022, n. 17711

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

La vicenda prende avvio a seguito di un sinistro stradale che ha coinvolto un lavoratore, inquadrato nel 1° livello con mansioni di operatore ecologico anche con l’ausilio di veicoli, mentre si trovava alla guida di un mezzo aziendale lava-strade che, nei pressi di incrocio semaforizzato, perdeva il controllo del mezzo, che si ribaltava sul fianco destro. La Polizia Locale accertava l’assenza di fattori esterni che avessero potuto determinare il sinistro; il lavoratore riportava trauma cranico minore e poli-contusione con prognosi di 20 giorni e dichiarava di non ricordare nulla dell’incidente. L’azienda datrice di lavoro, dal momento che il preventivo di spesa per la riparazione dei danni era superiore al valore residuo del veicolo, rendendo così non conveniente la riparazione, poneva la macchina lava-strade definitivamente fuori servizio, irrogava al lavoratore la sanzione disciplinare della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per 10 giorni e agiva in giudizio per il risarcimento dei danni sulla base di un rapporto dei propri uffici interni. In primo grado, il giudice rigetta la richiesta  dell’azienda datrice di lavoro, per difetto di prova del danno, in quanto il veicolo incidentato era stato messo definitivamente fuori servizio prima del giudizio e non erano stati chiariti i criteri in base ai quali gli uffici interni della società avevano quantificato il danno.
Di diverso avviso invece la Corte di Appello, secondo cui che la responsabilità del sinistro era da ricondurre a violazione dell’obbligo di diligenza di cui all’art. 2104 c.c.. La dinamica dell’evento, ossia la perdita di controllo del
mezzo da parte dell’autista, non era stata da questi contestata, e dal rapporto della polizia locale erano stati esclusi fattori esterni nella causazione del sinistro. Il sinistro doveva percio’  ritenersi avvenuto per imperizia del  lavoratore, che doveva pertanto risarcire l’azienda. Ricorre il lavoratore, ai sensi dell’art. 360, n. 3,
c.p.c., per violazione e falsa applicazione dell’art. 2104 c.c., adducendo che la perdita del controllo del mezzo è unicamente un dato oggettivo, non gli era stata elevata alcuna contravvenzione, era risultato negativo alla  presenza di alcool nel sangue e la rottamazione del mezzo incidentato prima del giudizio aveva impedito la possibilità di provare eventuali difetti meccanici o di manutenzione del veicolo.
Con il secondo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2729 c.c., 115 c.p.c., anche in relazione agli artt. 24, 111 Cost. per l’affermazione della sua responsabilità nella causazione
dell’incidente, sebbene la colpa non risultasse provata e con una motivazione generica. Il dato oggettivo della perdita di controllo del mezzo non avrebbe caratteristiche di prova presuntiva, essendo in contrasto con la mancanza di contravvenzioni elevate a carico del lavoratore. La suprema corte ritiene non fondati entrambi i motivi, e condanna il lavoratore a risarcire l’azienda.
La Corte di legittimità ha ribadito che, ai fini dell’affermazione della responsabilità del lavoratore verso il datore di lavoro per un evento dannoso, verificatosi nel corso dell’espletamento delle mansioni affidategli, il datore di
lavoro è tenuto a fornire la prova che tale evento sia riconducibile ad una condotta colposa del lavoratore per violazione degli obblighi di diligenza, mentre il lavoratore, a sua volta, è tenuto a provare la non imputabilità
a sé dell’inadempimento. Alla luce di tale  principio, i giudici di legittimità hanno, dunque, ritenuto condivisibile il ragionamento operato dalla Corte di merito, basato sulla valutazione delle prove raccolte, sull’apprezzamento degli elementi di fatto acquisiti agli atti, inclusi gli elementi presuntivi, valorizzando, nel caso in argomento, gli accertamenti della polizia locale.
In proposito la Corte non ha mancato di evidenziare che tra i compiti del giudice di merito rientra anche quello di valutare l’opportunità di fare ricorso a presunzioni, individuando i fatti da porre a fondamento della decisione,
una volta valutata la loro rispondenza ai requisiti di legge.
Quando il ragionamento decisorio, come nel caso di specie, non presenti assoluta illogicità e contraddittorietà, non occorre, quindi, che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile.


Dimissioni per fatti concludenti: il rapporto di lavoro si estingue anche in assenza della procedura telematica

Tribunale di Udine, 26 maggio 2022, n. 20

Andrea di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

Il Tribunale di Udine, con sentenza depositata il 26 maggio 2022, si è espresso in merito alla fattispecie delle dimissioni per fatti concludenti e alla procedura di “dimissioni telematiche” di cui all’articolo 26 del
D.lgs. n. 151/2015.
In particolare, i fatti oggetto del contendere hanno visto una lavoratrice assentarsi dal lavoro per un periodo prolungato, in particolare dal 14 dicembre 2019 e per oltre i sei mesi successivi, senza alcuna giustificazione. A
fronte di tale circostanza, il datore di lavoro recapitava alla lavoratrice, tramite una lettera inviata il 12 giugno 2020, un invito formale a dimettersi. Dato il mancato riscontro della lavoratrice, l’8 luglio successivo veniva inviata al Centro per l’Impiego la comunicazione obbligatoria “Unilav” di cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni.
Detta risoluzione del rapporto di lavoro veniva però impugnata da parte della lavoratrice, in quanto mai erano state da lei rassegnate dimissioni, né comunque presentata la convalida in via telematica prevista dalla legge.
La stessa, inoltre, si dichiarava al contempo disponibile a riprendere l’attività lavorativa, previo risarcimento delle retribuzioni maturate e dei relativi contributi previdenziali dovuti per i mesi trascorsi dal momento dell’assenza fino al ripristino del rapporto di lavoro. L’assenza prolungata, in particolare, veniva motivata dallo stato di “prostrazione psicofisica” dovuto all’essere stata destinata alla “gravosa” attività di consegna delle vivande in determinati comuni, coerentemente all’attività economica svolta dal datore di lavoro. Dal canto suo, il datore di lavoro eccepiva come il rapporto di lavoro si fosse, in realtà, risolto per esclusiva volontà della lavoratrice, per evidenti fatti concludenti costituiti dall’assenza ingiustificata protrattasi per oltre sei mesi. Tale circostanza era avvalorata dalle confidenze esternate dalla stessa lavoratrice alla propria responsabile di unità, consistenti nell’intenzione di non rientrare più in servizio a seguito delle ferie, iniziate il 9 dicembre 2020, a causa
dell’insoddisfazione per il proprio lavoro. A dire del datore di lavoro, il dichiarato intento della dipendente era, dunque, quello di provocare il recesso datoriale e ottenere, di conseguenza, la Naspi.

In generale, ai giudici del tribunale è risultato innanzitutto incontroverso, nella vicenda in esame, il fatto che la lavoratrice si sia volontariamente assentata in via continuativa dal lavoro a decorrere dal 14 dicembre 2019, senza mai fornire, a riguardo, alcuna giustificazione e senza riscontrare, per un periodo di oltre sei mesi, le missive del datore di lavoro.
Difatti, nonostante la contestazione disciplinare del 31 dicembre 2019 – in cui alla dipendente veniva contestata l’assenza ingiustificata in essere dal 14 dicembre precedente – e la lettera del 12 giugno 2020 – in cui si prendeva atto della risoluzione in “in via di fatto” del rapporto di lavoro e si invitava la lavoratrice a “comunicare le sue dimissioni secondo la modalità telematica vigente” – la dipendente restava silente, confermando di non aver volontariamente dato riscontro a tali comunicazioni per dichiarata assenza di interesse.
La dipendente stessa aveva anche invitato la propria responsabile di unità a non metterla in turno nel periodo natalizio, poiché “non credeva di rientrare” e si aspettava che sarebbe stata la società, eventualmente, a “doverla licenziare”. Su queste basi, al giudice è apparso quindi evidente che la lavoratrice “abbia voluto porre fine al rapporto di lavoro con la società […] di sua iniziativa, avendo palesato tale intento […] alla propria responsabile e non essendo più rientrata a lavoro dopo le ferie”. Al di là della fondatezza delle motivazioni della lavoratrice, definite come “postume e piuttosto generiche”, il tribunale ha osservato “come proprio tali motivazioni siano un chiaro ed ulteriore indice dell’intenzione attorea […] di porre termine alla sua esperienza lavorativa”.

Il giudice osserva, inoltre, come, nonostante la modifica legislativa sopraggiunta nel 2015 in tema di dimissioni e di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, lo scioglimento del contratto di lavoro per mutuo dissenso – e per
dimissioni in particolare – sia anzitutto fondato sugli artt. 2118 e 2119 c.c., i quali sanciscono la regola generale della “libera recedibilità” da parte del lavoratore, fatto salvo il periodo di preavviso. Tale libertà di recesso è rimasta immutata, pertanto la sentenza illustra che “le dimissioni possono continuare a configurarsi come valide, almeno in ipotesi specifiche, anche per effetto di presupposti diversi da quelli della avvenuta formalizzazione telematica imposta con la novella del 2015”.

Inoltre, il giudice evidenzia come la legge delega n. 183/2014 aveva previsto “modalità semplificate per garantire data certa nonché l’autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore […]”.
Tale inciso – viene osservato – è rimasto totalmente inattuato nel D.lgs. n. 151/2015, il contenuto del quale, dunque, sembra poter essere disapplicato di fronte alla fattispecie delle dimissioni per fatti concludenti

In definitiva, viene ritenuto irragionevole ritenere che, in caso di inerzia del lavoratore nel dimettersi, possa porsi fine al rapporto di lavoro soltanto mediante l’adozione di un licenziamento per giusta causa. In questo caso, infatti, verrebbe intaccata la “libera esplicazione dell’autonomia imprenditoriale” ex art. 41 della Costituzione, sia in termini di rischi (la giustificazione in un ipotetico giudizio) che di costi (c.d. ticket Naspi) e, non da ultimo, si
materializzerebbe una “ingiusta sottrazione di risorse” da destinarsi solo a vantaggio di quei lavoratori con effettivo diritto alla Naspi poiché disoccupati involontariamente. Sulla base di tutte le considerazioni commentate, il ricorso della lavoratrice veniva respinto e il rapporto di lavoro ritenuto cessato definitivamente.


Principio di effettività in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro: assume la posizione di garante colui che di fatto assume e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto, se pur sprovvisto di regolare investitura

Cass., sez. Penale, 24 maggio 2022, n. 20127

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

Il procedimento trae origine dall’infortunio occorso al lavoratore che formalmente era dipendente di una società cooperativa ma di fatto era impiegato presso un’altra società, in base ad un contratto di appalto stipulato tra le due società, con mansioni di facchinaggio e stoccaggio. Il lavoratore, azionando una macchina con grossi cilindri accoppiati (denominata masticatrice) che serviva per formare lastre sottili di para destinata alla produzione di mastice, rimaneva con la mano schiacciata tra i due organi in movimento, subendo di conseguenza l’amputazione del primo e del secondo dito della mano destra. Al lavoratore veniva riconosciuta una invalidità del 21% ed una
pensione di circa 330 euro mensili.
La sentenza aveva condannato il Presidente del CdA, il consigliere delegato alla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori e il responsabile della produzione, alla pena di reclusione (6 e 4 mesi) oltre al risarcimento dei
danni da liquidarsi in separato giudizio civile. La condanna degli imputati si è basata sui seguenti elementi:
1) il lavoratore aveva azionato il macchinario avente un quadro comandi distante 4 metri e arrestandolo con un dispositivo di sicurezza dal funzionamento non intuitivo per averlo imparato da altri, risultando impossibile che
lo stesso lo avesse appreso casualmente per averlo visto fare da altri;
2) da escludere una manovra abnorme in quanto non è noto il motivo per cui il lavoratore avrebbe dovuto mettere in moto la macchina per inserirvi la para;
3) il macchinario era vecchio e non conforme alla normativa vigente e si trovava all’esterno
ed il quadro comandi era posto a circa 4 metri di distanza;
4) il dispositivo di sicurezza di cui era dotato il macchinario era una corda a strappo azionabile solo con un movimento volontario, inoltre al momento del controllo il cordino era anche allentato.
Gli imputati propongo ricorsi separati.
La Suprema Corte, valutando complessivamente le motivazioni delle sentenze di merito, che costituiscono un unico apparato motivatorio, conferma che le posizioni sono state compiutamente analizzate e delineate nei ruoli. Il Presidente del CdA, con delega al compimento degli atti di ordinaria amministrazione aveva sottoscritto il contratto di appalto nonché il documento unico di valutazione dei rischi da interferenza e quindi aveva messo a
disposizione i lavoratori della società appaltatrice presso la società committente, impiegati peraltro per mansioni diverse da quelle previste ed in assenza di coordinamento da parte del personale della società appaltante.
La Suprema Corte ricorda che la giurisprudenza di legittimità è costante nell’interpretare l’art. 299 del D.lgs. n. 81/2008 nel senso che l’individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, deve fondarsi non  già sulla qualifica rivestita ma bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono rispetto alla carica attribuita al soggetto, ossia alla sua funzione formale.
Con riguardo alla condotta del lavoratore, che in base al contratto di appalto doveva essere adibito a mansioni di facchinaggio o al più di pulizia dei macchinari, è stata oggetto di discussione da parte dei difensori degli imputati: da considerare se la condotta del lavoratore potesse essere ritenuta, se non una condotta abnorme, quantomeno una condotta esorbitante, ovvero al di fuori dall’ambito delle proprie mansioni e delle disposizioni impartite nel contesto lavorativo del momento. La sentenza di appello, confermando le conclusioni del giudice di primo grado, aveva ritenuto che il lavoratore fosse stato di fatto adibito all’utilizzo del macchinario e che proprio per le caratteristiche dello stesso, dispositivo di sicurezza dal funzionamento non intuitivo (un cordino posto in alto non attivabile con movimento involontario) ed un quadro comandi distante 4 metri non fosse possibile ipotizzare che si trattasse del primo approccio al macchinario.
In conclusione, i ricorsi sono rigettati con condanna al pagamento delle spese processuali.


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