SENTENZE

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

Legittimo il licenziamento per giustificato motivo soggettivo fondato sul rifiuto del lavoratore di prestare lavoro straordinario

Cass., sez. Lavoro, sentenza 20 aprile 2023, n. 10623

La Corte di Appello di Ancona, in riforma della sentenza di primo grado, aveva dichiarato la legittimità del licenziamento (“convertito” dal giudice del reclamo da licenziamento per giusta causa, in licenziamento per giustificato motivo soggettivo) intimato al lavoratore e condannava la società al pagamento, in favore dello stesso, dell’indennità di mancato preavviso.

Il licenziamento era stato conseguente alla contestazione fatta al lavoratore per la mancata effettuazione del lavoro straordinario, nel periodo dal 9 al 27 maggio 2016, in spregio alla direttiva aziendale con la quale era stato stabilito l’aumento dell’orario di lavoro per ragioni produttive, considerando la recidiva nella quale era incorso il lavoratore per fatti puniti già con sanzione conservativa. Il dipendente ha proposto ricorso in Cassazione basandosi prevalentemente sulla deduzione di violazioni del Ccnl Industria e anche rispetto all’art. 5 del D.lgs n. 66/2003, con riferimento alla libertà datoriale di imporre prestazioni di lavoro straordinario. In particolare, il lavoratore contesta l’interpretazione del Ccnl nel senso di consentire alla società di disporre ad libitum delle prestazioni di lavoro straordinario nei confronti dell’indistinta platea dei lavoratori, anche se contenuta nel limite di 82 ore annue. Dall’esame dei motivi contenuti nel ricorso, la Suprema corte ricorda come l’art. 5 del D.lgs n. 66/2003 rimette espressamente alle parti collettive la regolamentazione dei limiti del ricorso al lavoro straordinario, confermando così la correttezza dell’interpretazione della Corte di Appello. Il datore di lavoro ha la possibilità di richiedere al lavoratore prestazioni di lavoro straordinario nei limiti della c.d. quota esente, senza preventiva consultazione o informazione alle organizzazioni sindacali, nel rispetto dei limiti di 2 ore giornaliere e 8 ore settimanali e con un preavviso di almeno 24 ore. La Suprema corte conferma l’operato e la valutazione di proporzionalità in relazione agli aspetti oggettivi e soggettivi del fatto accaduto, ritenendo giustificata la sanzione espulsiva anche a prescindere dalla contestazione della recidiva. Le stesse considerazioni sono riferite alle giustificazioni inviate dal lavoratore, in quanto inidonee ad incidere sui fatti accertati.

La Corte rigetta il ricorso.


Nel pubblico impiego privatizzato il termine per la conclusione del procedimento decorre dalla contestazione dell’addebito da parte dell’UPD

Cass., sez. Lavoro, 18 aprile 2023, n. 10284

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

Il termine per la conclusione del procedimento da parte dell’Ufficio per i procedimenti disciplinari non decorre più dalla conoscenza dell’illecito in capo al responsabile della struttura di appartenenza, ma da quando l’ufficio predetto abbia ricevuto la segnalazione di tale illecito, sicché a tal fine i tempi intercorsi prima di quella trasmissione non hanno rilievo, se non quando ne risulti irrimediabilmente  compromesso il diritto di difesa del dipendente.
È questo il principio che gli Ermellini stabiliscono, in base alla Legge Madia, nell’esame del merito del caso di cui sono investiti. Venuto a conoscenza nel 2017 di un uso anomalo della carta carburante per il proprio dipendente, il Comune di C.S. procede intimando il licenziamento disciplinare nei suoi confronti.
La Corte d’Appello di Palermo, riformando la sentenza del Tribunale di primo grado, ha accolto l’impugnativa del licenziamento disciplinare intimato dal Comune, ricostruendo il momento in cui doveva ritenersi che il responsabile del servizio cui era addetto il dipendente avesse avuto contezza dell’illecito, ha ritenuto che fosse stato violato il termine di dieci giorni per la comunicazione dei fatti all’Ufficio per i procedimenti disciplinari (di seguito, UPD) e, a seguire, i termini stabiliti per lo svolgimento e la conclusione del procedimento disciplinare, circostanze tutte da cui essa faceva derivare l’illegittimità del licenziamento, con condanna del datore alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
Il Comune ha proposto ricorso per cassazione resistiti dal lavoratore con controricorso.
Gli Ermellini rilevano quattro motivi fondati ed il loro accoglimento manda assorbite le restanti censure.
L’illecito contestato, concernendo comportamenti sia anteriori, fin dal 2015 o comunque dal 2016, sia posteriori ad agosto 2017, e alle modifiche introdotte all’art. 55-bis, D.lgs. n. 165/2001, nell’ambito di un procedimento unitario riguardante il protratto uso anomalo di una carta carburante di servizio, ricade nella disciplina procedimentale successiva che prevede che la violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare previste dagli articoli da 55 a 55-quater, fatta salva l’eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dall’azione disciplinare né l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente, e le modalità di esercizio dell’azione disciplinare, anche in ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il principio di tempestività.
Vale dunque il consequenziale principio secondo il quale in tema di illeciti disciplinari nel pubblico impiego privatizzato, la violazione del termine di dieci giorni per la trasmissione degli atti dal responsabile del servizio all’ufficio per i procedimenti disciplinari non comporta la decadenza dall’azione disciplinare né l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, a meno che ne risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente.
Ne consegue che il richiamo della norma al principio di tempestività va inteso nel senso che anche la rilevanza di eventuali violazioni del termine per la trasmissione degli atti va misurata in ragione della violazione del diritto di difesa, tenendosi conto che il pregiudizio rispetto a quest’ultimo è di regola più probabile quanto più ci si allontani nel tempo dal momento dei fatti.
È dunque errato il ragionamento della Corte territoriale che ha fatto discendere la decadenza dal solo mancato rispetto del termine  per la trasmissione degli atti, senza altra diversa verifica sulla violazione del diritto di difesa in ragione delle particolarità e specificità del caso concreto. Il termine per la contestazione, sia prima che dopo la riforma c.d. Madia, va calcolato dal momento in cui l’UPD riceve gli atti dal responsabile della struttura.
Mentre, tuttavia, prima della menzionata riforma,  il termine per la conclusione del procedimento aveva comunque decorrenza dalla conoscenza dell’illecito da parte del responsabile della struttura (art. 55-bis, co. 4, penultimo periodo), per effetto della riforma stessa, come detto qui applicabile, esso, della durata di centoventi giorni, decorre dalla contestazione dell’addebito da parte dell’UPD.
Gli Ermellini accolgono pertanto il ricorso del comune, e rimettono la causa alla medesima Corte territoriale che procederà alla disamina anche della questione sulla tempestività e decadenza.


Il lavoratore che rifiuta la trasformazione del rapporto a tempo parziale può essere licenziato?

Cass., Ord. 9 maggio 2023, n. 12244

Patrizia Masi, Consulente del Lavoro in Milano

Con questa ordinanza la Cassazione consolida l’importante principio che vuole che, in caso di rifiuto di trasformazione del rapporto da full-time a part-time, il dipendente può essere legittimamente licenziato se il recesso non è intimato a causa del diniego opposto, ma a causa dell’impossibilità di utilizzo della prestazione a tempo pieno.
A seguito della cessione del ramo d’azienda i tre soci della società cessionaria decidono di prestare direttamente attività lavorativa e, per far fronte all’esubero pari ad una unità, propongono ai tre dipendenti assunti a full time la disponibilità alla riduzione dell’orario lavorativo.
A seguito di rifiuto di due dei tre lavoratori, l’azienda sceglie di licenziare per giustificato motivo oggettivo per riduzione di personale, la lavoratrice impiegata nel reparto ortofrutta, mantenendo le altre due figure a tempo pieno. La lavoratrice impugna. In primo grado, il Tribunale dichiara illegittimo il licenziamento con condanna della società a riassumere la dipendente oppure a corrisponderle un’indennità liquidata in cinque mensilità della retribuzione globale di fatto.
La lavoratrice impugna chiedendo alla Corte, in secondo esame, il riconoscimento della natura ritorsiva o in subordine l’inefficacia del licenziamento, oltre al diritto del risarcimento del danno.
La Corte d’Appello esclude il motivo ritorsivo e legge la scelta della società di mantenere full-time i due lavoratori in quanto addetti al reparto salumeria, sacrificando la lavoratrice addetta al reparto ortofrutta, oggettiva, nell’alveo di un bilanciamento delle esigenze organizzative, che spetta al datore di lavoro.
La lavoratrice impugna nuovamente basando l’istanza su cinque motivi i quali vengono tutti respinti.
Gli Ermellini rilevano che, benché l’articolo 8, co. 1, del Decreto legislativo n. 81/2015 statuisca che il rifiuto della trasformazione a tempo parziale del contratto di lavoro non costituisce un giustificato motivo di licenziamento, non viene preclusa la facoltà di recesso per motivo oggettivo in caso di rifiuto del part-time. In tal caso occorre che sussistano e siano dimostrate dal datore di lavoro:
– le effettive esigenze economiche ed organizzative tali da consentire il mantenimento della prestazione solo con l’orario ridotto;
– la proposta al dipendente di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale e il rifiuto del medesimo;
– l’esistenza di un nesso causale tra le esigenze di riduzione dell’orario e il licenziamento.
Per quanto sopra, la Cassazione respinge il ricorso della lavoratrice condannadola alla rifusione delle spese


Scarica l'articolo