SENTENZE

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Appello, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento disciplinare irrogato al lavoratore. Ha condannato il datore al pagamento di un’indennità risarcitoria liquidata in dieci mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita oltre interessi legali dalla risoluzione del rapporto al soddisfo.
Il giudice di Appello, per quanto interessa, ha ritenuto che le violazioni contestate dal datore al dipendente, che aveva consapevolmente disatteso le procedure dettate per le operazioni eseguite, erano gravi non essendo consentito al lavoratore di contrastarle e modificarle e restando irrilevante il fatto che da tali comportamenti non era stato tratto alcun vantaggio personale essendo peraltro stato accertato che aveva comunque avvantaggiato dei terzi.
Tuttavia, ha accertato l’intempestività della contestazione di addebito, intervenuta a distanza di tempo dalla data in cui il fatto era stato pienamente accertato.
Il lavoratore ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, controricorso del datore.
La Corte adita, con giurisprudenza costante (cfr. tra le tante Cass., 20/06/2006 n. 14115, Cass., 12/05/2005 n. 9955 e anche recentemente Cass., n. 23068 del 2021), ha ritenuto che il principio dell’immediatezza della contestazione disciplinare, la cui “ratio” riflette l’esigenza dell’osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, non consente all’imprenditore-datore di lavoro di procrastinare la contestazione medesima in modo non solo da rendere difficile la difesa del dipendente ma anche di perpetuare l’incertezza sulla sorte del rapporto (che nello specifico è stato accertato che si era protratto per tutto il tempo senza alcuna iniziativa anche di carattere cautelare).
Una nozione, quella dell’immediatezza della contestazione, da intendere in maniera relativa, correlata al caso concreto e alla complessità dell’organizzazione del datore di lavoro, procedendo ad un adeguato accertamento e una precisa valutazione dei fatti (cfr. Cass., n. 29480 del 2008, n. 22066 del 2007, n. 1101 del 2007, n. 14113 del 2006 e n. 4435 del 2004) e da valutare con riferimento al tempo in cui i fatti sono conosciuti dal datore di lavoro, e non a quello in cui essi sono avvenuti.
La conoscenza deve tradursi nella ragionevole configurabilità dei fatti oggetto dell’inadempimento, inteso nelle sue caratteristiche oggettive, nella sua gravità e nella sua addebitabilità al lavoratore (cfr. al riguardo oltre alla già citata Cass., n. 16683 del 2015 le sentenze ivi richiamate Cass., 27/02/2014, n. 4724 e 26/03/2010, n. 7410).
In tale contesto ben può il datore di lavoro procedere a verifiche preliminari necessarie (cfr. Cass., 08/03/2010, n. 5546, 17/12/2008 n. 29480). La valutazione dei fatti del giudice di merito il quale, come nella specie è avvenuto, abbia accertato la tardività della contestazione di addebito tenendo conto dei parametri sopra indicati e ancorando la sua decisione ad elementi oggettivamente riscontrati non è censurabile in Cassazione; a questa Corte è preclusa ogni ulteriore indagine.
La Corte di merito ha proceduto all’esame dei fatti contestati, pacifici nella loro materialità, e ne ha correttamente desunto la giusta causa di licenziamento sottolineando che, ai fini della sua gravità specificatamente del notevole inadempimento), ciò che rileva non è tanto e soltanto il danno arrecato quanto piuttosto l’idoneità della condotta a ledere il vincolo fiduciario da valutare tenuto conto del tipo di mansioni svolte. In tale prospettiva il giudice di secondo grado ha esattamente valorizzato l’elemento soggettivo della condotta, consapevole e volontaria (dolo generico), e la circostanza della consapevolezza di agire in contrasto con specifiche e cogenti direttive datoriali.
In sostanza questi non solo era inadempiente ma con piena consapevolezza voleva esserlo.
La circostanza che il fatto tardivamente contestato comporti l’illegittimità del licenziamento non implica di per sé che lo stesso sia insussistente.
La tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4 citato è applicabile ove il fatto contestato sia insussistente. In tale nozione è compresa l’ipotesi di assenza ontologica del fatto e quella di fatto che, pur sussistente, sia tuttavia privo del carattere di illiceità ma non anche il caso in cui difetti un elemento necessario per poter applicare una sanzione, qual è appunto l’inosservanza di un tempo ragionevole per intraprendere il procedimento disciplinare.
Come già ritenuto da questa Corte (cfr. Cass., 10/02/2020, n. 3076), infatti, la tutela applicabile va individuata solo una volta che sia stata accertata l’assenza di una giusta causa di licenziamento che si compendia anche dell’aspetto connesso alla tempestiva reazione all’inadempimento del lavoratore.
Nel caso in esame, l’esistenza di un ritardo notevole e non giustificato nell’avviare il procedimento disciplinare deve trovare applicazione l’art. 18, comma 5 della Legge n. 300 del 1970, così come modificata dal comma 42 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012 (in questo senso si veda Cass., 27/12/2017, n. 30985). L’intempestività della contestazione connota il comportamento datoriale che viola i canoni di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. i quali governano anche l’esercizio del potere disciplinare il quale deve essere improntato alla massima trasparenza poiché incide sulle sorti del rapporto e sulle relative conseguenze giuridiche ed economiche.
Per l’effetto la sentenza deve essere cassata con rinvio alla Corte di Appello in diversa composizione che rivedrà le conseguenze della tardiva contestazione alla luce dei principi sopra esposti.

Somministrazione illecita di manodopera e assenza di rischi d’impresa

Cass., sez. Lavoro, sentenza 4 maggio 2023, n. 18530

Clarissa Muratori, Consulente del Lavoro in Milano

Ancora un caso di somministrazione illecita di manodopera la cui illiceità è stata rilevata sulla base delle deposizioni dei testi escussi e dei verbali ispettivi.
A sua difesa la società fornitrice di manodopera sosteneva l’apparente regolarità e adeguatezza di ogni attività posta in essere, nonostante in verità fosse emerso, durante le deposizioni dei testi e gli accertamenti ispettivi, che oltre a non aver titolo a fornire manodopera, la società aveva operato una concreta lesione dei diritti dei lavoratori, essendo stato rilevato che gli stessi erano stati sotto inquadrati, che le denunce Inps riportavano dati imponibili inferiori rispetto a quelli esposti sul libro unico e che addirittura, in caso di cessazione del lavoratore, non veniva elaborato e pagato il cedolino paga relativo al trattamento di fine rapporto oltreché alle competenze finali.
Tutto questo aveva indotto i giudici del merito a ritenere sussistente l’elemento a fondamento della norma incriminatrice, ovvero la finalità dei contraenti di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo.
Nessuna lettura alternativa poteva essere eseguita sul caso di specie, nonostante questa fosse la richiesta oggetto del ricorso per Cassazione promosso dalla società “somministratrice”.
In primo luogo perché non consentita in sede di legittimità una revisione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, ma poi perché l’apparato argomentativo non presentava profili di irrazionalità, e soprattutto perché la valutazione del materiale probatorio non poteva che condurre alla ricostruzione eseguita dai giudici di primo e secondo grado.
Per tale ragione il presente ricorso è stato cassato con addebito delle spese alla parte soccombente.

Licenziamento per giusta causa: i parametri contenuti nel Ccnl non sono vincolanti

Cass., sez. Lavoro, sentenza 30 maggio 2023, n. 15140

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Appello di Bologna ha confermato la sentenza del Tribunale di Forlì con la quale erano state respinte le domande del lavoratore contro la Società cooperativa agricola, di cui era dipendente con contratto a termine, di accertamento della nullità del licenziamento per giusta causa e di condanna del datore di lavoro alla riassunzione e/o al risarcimento dei danni.
In particolare, il lavoratore, con mansioni di addetto all’eviscerazione presso il reparto macello tacchini, già dipendente della cooperativa con numerosi precedenti contratti stagionali, con mansioni di scaricatore di casse e successivamente di mulettista-carrellista, dichiarato poi parzialmente idoneo con limitazioni e ricollocato per tale ragione presso il reparto macello tacchini, era stato licenziato.
Il provvedimento espulsivo era stato adottato in conformità alle previsioni del Ccnl applicabile al rapporto di lavoro: “per non aver estratto correttamente il pacco intestinale ai tacchini”, previa contestazione di recidiva specifica, essendo stato lo stesso addebito motivo di 3 precedenti sanzioni disciplinari.
Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione per i seguenti motivi: i giudici di merito avrebbero dovuto qualificare il licenziamento del lavoratore come licenziamento per scarso rendimento e non per giusta causa; un omesso esame della condotta delle parti alla luce delle prescrizioni mediche e della mancata ammissione di CTU; la violazione e falsa applicazione del principio di proporzionalità tra fatto contestato e provvedimento di licenziamento, con riguardo alle circostanze concrete e alle modalità soggettive della condotta del lavoratore.
La Suprema Corte non accoglie i motivi confermando la sentenza impugnata che aveva ritenuto di rilievo disciplinare, e dimostrate, le violazioni poste alla base della contestazione disciplinare, giustificando il licenziamento, anche alla luce della recidiva specifica. Inoltre, non appare neppure dimostrata, prosegue la Suprema Corte, la violazione dell’art. 2087 c.c. in riferimento all’accertamento di conformità dell’assegnazione del lavoratore al reparto macello tacchini, sulla base delle risultanze delle valutazioni sanitarie del medico competente e della descrizione dettagliata delle mansioni assegnate, in rapporto al peso del materiale da trattare, ai movimenti da svolgere e alla postura.

La Suprema Corte ha più volte affermato che rientra nell’attività “sussuntiva e valutativa del giudice di merito” la verifica della sussistenza della giusta causa, con riferimento alla violazione dei parametri posti dal codice disciplinare del Ccnl. Il giudice non deve limitarsi a verificare la riconducibilità dei fatti concreti a fondamento del licenziamento alla fattispecie prevista dalla contrattazione collettiva, ma deve valutarne la gravità e proporzionalità rispetto alla sanzione irrogata dal datore di lavoro, ponendo altresì attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza.
Il ricorso è respinto.

La genuinità di un rapporto di collaborazione deve essere valutata sulla base della normativa vigente al momento della stipula del contratto

Cass., sez. Lavoro, 26 maggio 2023, n. 14744

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

È illegittimo giudicare un rapporto di collaborazione sulla base di una normativa successivamente vigente rispetto al momento della sua stipula.
É a questo il principio a cui perviene la Corte di Cassazione nel caso di una collaboratrice che, dapprima in forma di collaborazione coordinata e continuativa, e successivamente di lavoro autonomo, ha ricevuto comunicazione di rescissione contrattuale da parte dell’azienda cooperativa per cui lavorava.
La vicenda prende avvio dal ricorso di una lavoratrice nei confronti dell’azienda per la quale aveva avuto una serie di rapporti di collaborazione (specificatamente contratti di collaborazione coordinata dal 28.5.2002 al 22.10.2004 e contratti autonomi a partita IVA dal 23.10.2004 al giorno 8.7.2014). La lavoratrice chiede l’accertamento della sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato, la illegittimità della risoluzione del rapporto ed il ripristino dello stesso con condanna della convenuta al pagamento della retribuzione globale di fatto spettante dalla messa in mora al ripristino.
In primo grado viene esclusa la subordinazione, il rapporto viene qualificato come collaborazione coordinata e continuativa regolata dal D.lgs. n. 276/2003 e viene applicato l’art. 69 del D.lgs. n. 276/2003 convertendo il rapporto in uno subordinato a tempo indeterminato sul rilievo che le prestazioni non fossero riconducibili ad un progetto. Si appella la società, ed in secondo grado, la Corte d’Appello di Roma ha dichiarato la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a far data dal 28 maggio 2002 ed ha condannato la società a ripristinare il rapporto e a pagare alla lavoratrice un’indennità, ex art. 32, co. 5, L. n. 183/2010.
Ricorre in appello la società basandosi su 3 motivi.
Nel primo, sostiene il principio del “tempus regis actum”, art.11 delle disposizioni di legge relative all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c. Nel secondo motivo, ad avviso della ricorrente, erroneamente era stata ritenuta inammissibile la censura con la quale in appello era stata denunciata l’erroneità della pronuncia di primo grado che aveva escluso l’esistenza di un progetto sebbene i fatti sottostanti fossero stati tutti tempestivamente allegati sin dal primo grado e dunque, d’ufficio, anche in grado di appello, il giudice avrebbe dovuto tenerne conto senza che possa ritenersi maturata alcuna decadenza.
Con il terzo motivo si sostiene il carattere innovativo dell’intervento normativo del 2012 che non si pone come interpretazione autentica della precedente disciplina avente effetto retroattivo ma piuttosto come disposizione proiettata al futuro ed applicabile solo ai nuovi contratti stipulati dal 18 luglio 2012 in poi.
Gli Ermellini rigettano il secondo ed il terzo motivo e ritengono ammissibile il primo. Infatti, risulta pacificamente accertato che tra le parti sono intercorsi due distinti rapporti. Uno che trae origine da un contratto di collaborazione coordinata e continuativa iniziato il 28.5.2002 e proseguito fino al 22.10.2004 quando era cessato. Un altro contratto di lavoro autonomo dispiegatosi nel periodo dal 23.10.2004 all’8.7.2014. La Corte ha qualificato entrambi i rapporti come collaborazioni coordinate e continuative ma ritiene tuttavia il Collegio che, per quanto concerne il rapporto iniziato nella vigenza della Legge n. 196 del 1997 e proseguito nella vigenza del D.lgs. n. 276 del 2003, fino al 22 ottobre del 2004, la legittimità del contratto andava verificata alla luce delle disposizioni dettate per le collaborazioni coordinate e continuative dalla Legge n. 196 del 1997.
La Corte costituzionale ha ritenuto che riconoscendo il rapporto alla luce della L. n. 92/2012, si sacrificavano interessi che le parti avevano regolato nel rispetto della disciplina dell’epoca, irragionevolmente e contraddittoriamente con la ratio del decreto, che era quello di “aumentare i tassi di occupazione e di promuovere la qualità e la stabilità del lavoro”. Pertanto, viene ribadito che è al momento della genesi del contratto che si definisce il regime del rapporto con esso instaurato ed è in tale regime contrattuale che il lavoratore può chiedere che si accerti comunque che il rapporto di lavoro autonomo, pur legittimamente istaurato come collaborazione continuativa e coordinata, si sia diversamente atteggiato come rapporto di lavoro subordinato stante l’inserimento stabile nell’ organizzazione del destinatario della prestazione, l’assoggettamento al suo potere disciplinare ed alle sue direttive, tratto tipico quest’ultimo della subordinazione che è riscontrabile anche quando il potere direttivo del datore di lavoro viene esercitato de die in diem, consistendo, in tal caso, il vincolo della subordinazione, nell’accettazione dell’esercizio del suddetto potere direttivo di ripetuta specificazione della prestazione lavorativa richiesta in adempimento delle obbligazioni assunte dal prestatore stesso.


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