Sentenze

Stefano Guglielmi, Angela Lavazza, Elena Pellegatta, Clarissa Muratori, Consulenti del Lavoro in Milano

Licenziamento disciplinare: la verifica in concreto della sussistenza di una giusta causa di licenziamento

Cass., sez. Lavoro, 28 marzo 2023, n. 8737

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

Il dirigente impugnava il licenziamento in tronco irrogatogli deducendone la natura ritorsiva dello stesso, in quanto intimato a seguito e per effetto della rottura, all’inizio del luglio 2017, della relazione sentimentale che aveva intrattenuto sin dal luglio 2012 con la Presidente della Società, in subordine l’illegittimità del recesso per insussistenza dei fatti contestati e comunque per sproporzione della sanzione espulsiva. Il Tribunale dichiarava inammissibile il ricorso. In sede di opposizione, ritenuto ammissibile il ricorso, il Tribunale di Catanzaro ha affermato sussistenti, sulla base della prova testimoniale, gli episodi di insubordinazione contestati: è pertanto da escludersi la nullità ritorsiva del licenziamento, dal momento che la conflittualità esistente tra le parti, per ragioni di carattere meramente sentimentale, seppur poteva essere stata concausa del contegno assunto dalle parti e della conseguente
cessazione del rapporto di lavoro, non aveva costituito il motivo unico determinante del licenziamento, essendosi per contro venuto a creare in ambito lavorativo una situazione insostenibile.
Il Tribunale ha affermato, comunque, l’illegittimità del licenziamento sotto il profilo della proporzionalità, anche alla luce delle pregresse modalità di svolgimento della prestazione.
La Corte d’Appello, adita in sede di reclamo, ha accolto l’impugnazione incidentale proposta dalla Società nei confronti del lavoratore e ha dichiarato la legittimità del licenziamento irrogato allo stesso.
Per la cassazione della sentenza di appello ricorre il lavoratore, resiste con controricorso la Società. Il Procuratore Generale ha depositato requisitoria scritta con cui ha chiesto rigettarsi il ricorso.
Il Tribunale ha affermato con esplicita statuizione che la conflittualità esistente tra le parti, per ragioni di carattere meramente sentimentale, seppur possa essere stata concausa del contegno assunto dalle parti e della conseguente cessazione del rapporto di lavoro, non ha costituito il motivo unico determinante del licenziamento, così peraltro escludendo il motivo ritorsivo.
Tale statuizione non risulta dalla sentenza di appello aver formato oggetto del reclamo principale proposto dal lavoratore, nè ciò è dedotto nell’odierno motivo di ricorso. Pertanto, sulla mancanza di motivo ritorsivo del si è formato giudicato interno.
La doglianza dell’imputabilità del licenziamento  alla relazione affettiva che sarebbe intercorsa tra il lavoratore e la Presidente del datore di lavoro già disattesa dal Tribunale, è inammissibile per il formarsi del giudicato interno e per il difetto di rilevanza.
È contestata poi la proporzionalità della sanzione espulsiva, atteso che la proporzionalità deve essere valutata avendo riguardo all’entità dell’inadempimento e della colpa, nonché della grave incidenza di essi sull’elemento della fiducia che il datore di lavoro deve poter riporre sul lavoratore ai fini della prosecuzione del rapporto.
Questa Corte ha più volte affermato (si v.,  Cass., n. 12789 del 2022) che l’art. 2119. c.c. configura una norma elastica, in quanto costituisce una disposizione di contenuto precettivo ampio e polivalente destinato ad essere progressivamente precisato, nell’estrinsecarsi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, fino alla formazione del diritto vivente mediante puntualizzazioni, di carattere generale ed astratto, precisando che l’operazione valutativa, compiuta dal giudice di merito nell’applicare clausole generali come quella dell’art. 2119 c.c., non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità (Cass., nn. 1351 del 2016, 12069 del 2015, 6501 del 2013), poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento.
La relativa valutazione deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo (Cass., nn. 1977 del 2016, 1351 del 2016, 12059 del 2015).
I fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da lederne irrimediabilmente l’elemento fiduciario e spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi, innanzi tutto, rilievo alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva,  ma pure all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente e dalla qualifica rivestita, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla sua particolare natura e tipologia (v. ad es. Cass. nn. 2013 del 2012).
Nella specie la Corte d’Appello, pur richiamando modalità di comportamento del lavoratore riguardanti le attività fissate per il mese di agosto, ha incentrato la sussistenza della giusta causa nella violazione dell’ordine di servizio del 24 luglio 2017, allorché in data 31 luglio 2017, il lavoratore senza richiedere alcuna autorizzazione abbandona in via anticipata il posto di lavoro, nonostante fosse stato chiarito nella riunione di metà mese l’assoggettamento senza deroghe agli orari di entrata e di uscita indicati in contratto. Atteso che la Corte d’Appello ha dato atto che una modifica dell’orario di lavoro del ricorrente era intervenuta in modo chiaro e definitivo solo il 24 luglio, ne discende che la legittimità del recesso è stata affermato con riguardo al mancato rispetto dell’orario di lavoro in un limitato arco temporale di pochi giorni. Tale statuizione non ha fatto corretta applicazione dei principi sopra richiamati, che richiedono un più ampio vaglio di contesto oggettivo e soggettivo, ai fini della valutazione della sussistenza della giusta causa di recesso.
La Corte dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo motivo nei sensi di cui in motivazione. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello di Catanzaro in diversa composizione.


Appalto di manodopera: quando è genuino e quando invece è illecito

Cass., sez. Lavoro, 16 febbraio 2023, n. 4828

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

La sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha confermato che, in tema di appalto avente ad oggetto la prestazione di servizi, è fondamentale il requisito dell’autonomia di gestione e di organizzazione dell’appaltatore.
Il caso portato all’attenzione della Suprema Corte riguarda la valutazione dell’esistenza di una interposizione fittizia di manodopera tra una società appaltatrice del servizio di call center e l’appaltante con conseguente accertamento, per i dipendenti della società appaltatrice, dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze della società appaltante.
Il Tribunale di Roma aveva rigettato la domanda mentre la Corte di Appello, in riforma della sentenza di primo grado, aveva ritenuto che tra le parti fosse esistente un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con le decorrenze e gli inquadramenti specificati per ciascun lavoratore.
Il Giudice di Appello aveva ritenuto che, dall’istruttoria espletata, fosse emerso che il servizio reso dai dipendenti della società appaltatrice era stato a beneficio esclusivo della società appaltante. La stessa società appaltante aveva conferito nell’appalto beni di rilevanza tutt’altro che marginale e dai quali non si poteva prescindere per il raggiungimento dello scopo dell’appalto. Inoltre, il compenso era stato parametrato alle giornate di lavoro effettuate, azzerando così il rischio economico per l’appaltatrice. I dipendenti poi, con accertamenti testimoniali, avevano confermato che il rapporto con la società appaltante aveva superato la mera collaborazione con gestione diretta da parte dell’appaltante di turni ed orari; il controllo era superiore al solo coordinamento.
Per la Suprema Corte la sentenza impugnata ha correttamente applicato i principi già affermati: l’appalto di manodopera vietato dall’art. 1 della Legge n. 1369 del 1960, va ricavato tenendo conto della previsione dell’art. 3 della stessa legge concernente l’appalto (lecito) di opere e servizi all’interno dell’azienda con organizzazione e gestione propria dell’appaltatore.
L’appalto di manodopera è configurabile sia in presenza degli elementi presuntivi considerati dal terzo comma del citato art. 1 (impiego di capitale, macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante), sia quando il soggetto interposto manchi di una gestione di impresa a proprio rischio e di un’autonoma organizzazione (da verificarsi con riguardo alle prestazioni affidategli) in particolare nel caso di attività esplicate all’interno dell’azienda appaltante, sempre che il presunto appaltatore non dia vita, in tale ambito, ad un’organizzazione lavorativa autonoma e non assuma, con la gestione dell’esecuzione e la responsabilità del risultato, il rischio di impresa relativo al servizio fornito. Peraltro, con riferimento agli appalti cosiddetti “endoaziendali”, che sono caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di attività strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, è precisato che il richiamato divieto di cui all’art. 1 della Legge n. 1369 del 1960 opera tutte le volte in cui l’appaltatore mette a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore stesso i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa.
Ancora, la valorizzazione, al fine dell’esclusione della genuinità dell’appalto, dell’assenza di una organizzazione di impresa impiegata nello stesso e della riferibilità alla committente del concreto esercizio del potere direttivo sui lavoratori formalmente dipendenti dalla appaltatrice si pone in linea con l’insegnamento della Suprema Corte secondo il quale il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro previsto dall’art. 1 della  Legge 1369 del 1960 opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo né una assunzione di rischio economico con effettivo assoggettamento dei propri dipendenti al potere direttivo e di controllo (Cass. n. 7820 del 2013, n. 6343 del 2013, n. 19920 del 2011, n. 7898 del 2011, n. 11720 del 2009, n. 16788 del 2006).
In conclusione, il ricorso è rigettato.

È illegittimo il licenziamento del dipendente che durante i permessi ex L. 104 svolge attività a favore dei disabili, anche se non in modalità continuativa: licenziamento illegittimo 

Cass., sez. Lavoro, 13 marzo 2023, n. 7306

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

La fruizione di permessi ex Legge n. 104 per l’assistenza a un familiare disabile riveste nell’ordinamento italiano una finalità ultima di rilievo costituzionale, basata sugli articoli 2 e 32 Cost. nonché sui principi di solidarietà interpersonale ed intergenerazionale.
Pertanto, nell’indicare che il diritto ai permessi retribuiti è riconosciuto al lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, il nesso che il testo normativo pone non è di tipo strettamente temporale, cioè tra la fruizione del permesso e la prestazione di assistenza in precisa coincidenza con l’orario di lavoro, bensì funzionale, tra il godimento del permesso e le necessità, gli oneri, le incombenze che connotano l’attività di assistenza delle persone disabili in condizioni di gravità. Il contenuto dell’assistenza che legittima l’assenza dal lavoro (il permesso retribuito), quindi i tempi e i modi attraverso cui la stessa viene realizzata, devono individuarsi in ragione della finalità per cui i permessi sono riconosciuti, cioè la tutela delle persone disabili, il cui bisogno di ricevere assistenza giustifica il sacrificio organizzativo richiesto al datore di lavoro.
È a questo ultimo assunto a cui pervengono gli Ermellini investiti nel giudizio di merito sul caso di un dipendente, licenziato per avere fruito, a detta del datore di lavoro, indebitamente, dei giorni di permesso ex Legge n. 104 per assistere entrambi i genitori disabili.
La corte territoriale ha accertato durante il primo grado che il lavoratore aveva trasferito il padre presso la propria abitazione, stante l’aggravarsi delle condizioni della madre e che aveva usufruito dei giorni di permesso coordinandosi con la sorella, con cui condivideva l’onere della cura dei genitori, svolgendo si delle attività inerenti tale cura ma anche delle attività di svago personali, come la lettura di un libro per due ore, presso i giardini pubblici in orario considerato lavorativo (dalle ore 9 alle ore 17). Proprio a fronte di questi intervalli di svago si era mossa l’azienda procedendo con il licenziamento del lavoratore per giusta causa, per avere il dipendente usufruito dei permessi di cui all’articolo 33, comma 3, della Legge n. 104 del 1992, per finalità estranee all’assistenza dei genitori disabili.
Il giudice aveva dichiarato illegittimo il licenziamento, sia in primo che in secondo grado, e tale interpretazione viene coerentemente confermata anche dalla Suprema corte.
La valutazione del giudice di appello ha confermato che fosse sostanzialmente garantita dal lavoratore l’assistenza ai genitori, nei sette giorni oggetto di investigazione, ed ha sottolineato come tale onere di assistenza dovesse valutarsi con la necessaria flessibilità, in modo da poter considerare anche i bisogni personali del dipendente e l’integrità del suo equilibrio psicofisico, sottoposto ad una gravosa prova per le incombenze legate alla cura dei familiari in difficili condizioni di salute; ciò secondo una interpretazione che tenga  conto dei principi costituzionali di tutela della salute e della solidarietà familiare.
Sulla base di tali premesse, escluso un utilizzo dei permessi in funzione “meramente compensativa” delle energie impiegate dal dipendente per l’assistenza fornita in orario extralavorativo, spetta al giudice di merito valutare se la fruizione dei permessi possa dirsi in concreto realizzata in funzione della preminente esigenza di tutela delle persone affette da disabilità grave, e nella salvaguardia di una residua conciliazione con le altre incombenze personali e familiari che caratterizzano la vita quotidiana di ogni individuo.
Nei casi in cui il lavoratore in permesso ex articolo 33, comma 3 cit., svolga l’attività di assistenza in tempi e modi tali da soddisfare in via preminente le esigenze ed i bisogni dei congiunti in condizione di handicap grave, pur senza abdicare del tutto alle esigenze personali e familiari altre rispetto a quelle proprie dei congiunti disabili e pure a prescindere dall’esatta collocazione temporale di detta assistenza nell’orario liberato dall’obbligo della prestazione lavorativa, non potrà ravvisarsi alcun abuso del diritto o lesione degli obblighi di correttezza e buona fede, quindi alcun inadempimento.

Comporto “secco” o “per sommatoria”, le differenti interpretazioni giudiziali

Cass., sez. Lavoro, 20 febbraio 2023, n. 5288

Clarissa Muratori, Consulente del Lavoro in Milano

Il tema del comporto “secco” o “per sommatoria” è stato più volte affrontato in sede giudiziale.
Il caso in esame aveva determinato la condanna alla reintegra nel posto di lavoro di un dipendente che – secondo l’interpretazione dei giudici del merito – non aveva superato nell’anno solare il periodo di comporto.
Il licenziamento veniva quindi dichiarato illegittimo e la società condannata al risarcimento del danno ai sensi dell’articolo 18, Legge 20 maggio 1970, n. 300.
La Corte d’Appello era giunta alla suddetta conclusione applicando al caso di specie il concetto di “comporto secco” sulla base del combinato disposto degli articoli 175 e 177 del Ccnl Commercio del 18 luglio 2008 e giungendo alla conclusione che se ad un periodo di malattia, nello stesso anno, segue un’interruzione, comincia a decorrere un nuovo periodo di comporto.
Nello specifico, il lavoratore si era assentato per due periodi di malattia nell’arco del 2007, con soluzione di continuità tra i due eventi morbosi, e per nessuno dei due periodi si era verificato il superamento dei 180 giorni consecutivi. Per tale ragione la corte concludeva per l’illegittimità del licenziamento non essendosi determinato in nessuno dei due casi il superamento del comporto tale da giustificare il recesso dal rapporto lavorativo.
La società ricorre per cassazione ritenendo il ragionamento alla base dei giudici di merito non allineato con i criteri ermeneutici che  devono sottendere non solo alle norme di diritto, ma anche alle previsioni contrattuali contenute nei Ccnl, in particolare nel contratto collettivo citato.
La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso della società, afferma infatti che l’interpretazione operata dalla corte distrettuale, “ogni periodo di comporto ha durata di 180 giorni”, è una lettura isolata dal contesto delle previsioni contrattuali in cui è stata inserita.
In particolare tale previsione va ricollegata all’articolo 177 in cui si afferma che per malattia e infortunio valgono distinti ed autonomi periodi di comporto, ciascuno di 180 giorni cadauno. Ciò premesso, il concetto espresso non era certamente assimilabile al caso oggetto d’esame, in quanto nella specifica
fattispecie al lavoratore erano riferibili unicamente due periodi di assenza per malattia.
Ma la Corte di Cassazione fa ulteriori precisazioni.
In primo luogo, dall’analisi del Ccnl citato, non vi sono elementi a supporto per desumere in modo chiaro che in caso di interruzione della malattia decorra automaticamente un nuovo periodo di comporto, ed inoltre, non vi è neppure lo specifico riferimento contrattuale al carattere consecutivo, e quindi ininterrotto delle assenze per malattia.
Si aggiunga a questo che l’utilizzo del termine “periodo” in forma singolare non depone certo a favore di un’interpretazione che permetta la conservazione del posto di lavoro a fronte di più periodi di assenza per malattia che per sommatoria determino il superamento dei 180 giorni.
Per il caso in esame la Corte di Cassazione ha quindi concluso per il rinvio alla medesima Corte d’Appello in diversa composizione per una nuova pronuncia giudiziale.


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