Cass., sez. Lavoro, 18 novembre 2022, n. 34036
Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano
Chi subentra nella cessione di azienda come proprietario e datore di lavoro è tenuto a farsi carico dei debiti dell’azienda ceduta, anche nei confronti dei dipendenti ormai cessati. È l’assunto ribadito dalla Suprema corte di Brescia nell’analisi del ricorso da parte della Società Cooperativa Sociale che è subentrata alla precedente Società cooperativa sociale per incorporazione. I dipendenti della precedente società hanno convenuto in giudizio la nuova proprietà, chiedendo il pagamento di differenze retributive, per mancato riconoscimento degli aumenti contrattuali nazionali e/o territoriali, mancata applicazione degli aumenti periodici di anzianità e relativa incidenza sul calcolo delle ferie, dei permessi, dei congedi, delle festività, delle mensilità aggiuntive e dell’elemento retributivo territoriale, maturate nel periodo di lavoro alle dipendenze della cooperativa sociale incorporata dalla convenuta, quando i rapporti di lavoro in oggetto erano già cessati. Respinte le domande in primo grado, in appello i lavoratori si sono visti accordare, in parziale riforma della sentenza di primo grado, il pagamento delle somme in favore di ciascuno come in dispositivo indicate, oltre accessori, a titolo di differenze derivanti dal calcolo degli scatti di anzianità nei limiti della prescrizione.
Ricorre in Cassazione la nuova Cooperativa, con quattro motivi.
Con il primo motivo di ricorso addotto, la Società cooperativa sosteneva la violazione e falsa applicazione dell’art. 2504 bis del c.c. in combinato disposto con l’art.2112 c.c. adducendo che la fusione per incorporazione fosse regolata in tutti i suoi aspetti, anche in relazione ai rapporti di lavoro ed alle obbligazioni da essi derivanti. Tale motivo è considerato infondato.
Con il secondo motivo, anch’esso ritenuto infondato, sosteneva che mancava l’applicabilità alla fattispecie in esame, di fusione per incorporazione, del principio del rispetto dell’ordinamento comunitario da parte dei singoli ordinamenti nazionali.
Con il terzo motivo di ricorso censurava la sentenza impugnata per avere violato le disposizioni nazionali e comunitarie le quali stabiliscono la responsabilità del soggetto incorporante per i crediti del lavoratore nell’ipotesi di rapporto di lavoro in essere al momento del trasferimento. Anche questo motivo, come i precedenti, è ritenuto infondato.
La cassazione dei primi tre motivi persegue la linea delle precedenti cassazioni, Cass. n. 30577/2021, dove si conferma che alla fusione sia collegato un generale subentro della società che da essa risulta in tutti i diritti e gli obblighi delle società ad essa partecipanti.
Il quarto motivo di ricorso, incentrato sulla violazione dell’art. 2560 c.c., è anch’esso infondato in quanto, come chiarito dalla Corte, la fusione di società realizza una successione a titolo universale, corrispondente a quella mortis causa, con la conseguenza che il soggetto risultante dalla fusione (per incorporazione) diviene l’unico e diretto obbligato per i debiti dei soggetti definitivamente estinti per effetto della fusione, debiti tra i quali vanno ricompresi quelli nascenti da rapporti di lavoro subordinato con le preesistenti società, a prescindere dai requisiti di conoscenza o conoscibilità dei debiti medesimi, sulla linea delle precedenti Cassazioni n. 13286/2015.
Pertanto, gli Ermellini respingono il ricorso e condannano la nuova cooperativa sociale alla rifusione delle spese di lite secondo soccombenza.
Cass., sez. Lavoro, 11 novembre 2022,n. 33428
Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano
La Corte d’Appello di Genova ha riformato la sentenza del Tribunale di La Spezia e respinto tutte le domande proposte dal la[1]voratore contro il datore, di cui era stato dipendente da marzo 1985 al 30 aprile 2014 quale informatore scientifico del farmaco, e condannato il medesimo alla restituzione delle somme corrisposte in forza della sen[1]tenza di primo grado, nonchè alla rifusione delle spese di lite ed al pagamento delle spese della CTU espletata in primo grado. Il Tribunale spezzino, infatti, svolta ampia istruttoria testimoniale e tecnica, accertata la sussistenza di grave demansionamento e di comportamenti mobbizzanti in danno dell’informatore a decorrere da settembre 2012, in parziale accoglimento del ricorso aveva condannato il datore di lavoro al risarcimento del danno biologico temporaneo, del danno biologico permanente, del danno alla dignità ed all’immagine personali e professionali, oltre rimborso delle spese mediche sostenute ed accessori. La Corte genovese, in accoglimento dell’appello principale del datore, ha ritenuto che il Tribunale avesse assegnato rilevanza eccessiva alle attività di carattere commerciale svolte dall’originario ricorrente ai fini dell’accerta[1]mento del demansionamento, tenuto anche conto del fatto che tali mansioni erano state contestate solo con il ricorso introduttivo dopo quasi 30 anni di attività. Ha conseguentemente ritenuto assorbito l’appello incidentale del lavoratore diretto all’accertamento dell’interruzione del rapporto di lavoro alla fine del periodo di comporto per fatto e colpa del datore di lavoro, al connesso risarcimento dei danni, ad una liquidazione dei danni riconosciuti in misura maggiore e per ulteriori voci; avverso la predetta sentenza propone ricorso per cassazione il lavoratore. La Corte d’Appello nella valutazione del demansionamento, a differenza del Tribunale, ha ricondotto all’area della percezione soggettiva la situazione lavorativa per cui è causa, venutasi a modificare da settembre 2012. Non ha, tuttavia, tenuto conto della rilevanza del fattore organizzativo – e delle connesse possibili situazioni di costrittività organizzativa – all’interno del perimetro rappresentato dal complessivo dovere di tutela della salute, anche psichica del lavoratore, ai sensi dell’obbligo datoriale di protezione di cui all’articolo 2087 c.c., in interazione con il diritto del lavoratore alle mansioni corrispondenti all’inquadramento di cui all’articolo 2103 c.c.. Il riconoscimento della rilevanza in tale ambito di tecnopatie da costrittività organizzativa è rinvenibile nella circolare Inail n. 71 del 17 dicembre 2003, intitolata “Disturbi psichici da costrittività organizzativa sul lavoro. Rischio tutelato e diagnosi di malattia professionale. Modalità di trattazione delle pratiche”, con individuazione delle malattie derivanti da disfunzioni dell’organizzazione del lavoro e riconduzione nei meccanismi propri della malattia professionale non tabellata, e nel Decreto Ministeriale 27 aprile 2004, adottato dal Ministero del lavoro, con il quale sono state inserite tra le malattie di possibile origine lavorativa per le quali è obbligatoria la denuncia ai sensi e per gli effetti del Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965, articolo 139, anche (Lista II – gruppo 7) le “malattie psicosomatiche da disfunzioni dell’organizzazione del lavoro”. Secondo gli orientamenti maturati nel suindicato percorso interpretativo questa Corte (come risulta da Cass. n. 15580/2022 punto 4.1 della motivazione), è pervenuta alle seguenti conclusioni: – è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass., 21 maggio 2018, n. 12437; Cass., 10 novembre 2017, n. 26684). – è configurabile lo straining quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass., 10 luglio 2018, n. 18164) o esse siano limitate nel numero (Cass., 29 marzo 2018, n. 7844), ma anche nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei la[1]voratori (Cass., 19 febbraio 2016, n. 3291). Le nozioni di mobbing e straining hanno natura medico-legale e non rivestono autonoma rilevanza ai fini giuridici, e servono soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’articolo 2087 c.c., e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (Cass., 19 febbraio 2016, n. 3291 e altre). È comunque configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento che si ponga in nesso causale con un danno alla salute. Si resta invece al di fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa. La causa deve essere cassata con rinvio per il riesame nel merito della domanda risarcitoria del lavoratore, tenendo conto, in diritto, del principio per cui rientra nell’obbligo datoriale di protezione di cui all’articolo 2087 c.c., in interazione con il diritto del lavoratore alle mansioni corrispondenti all’inquadramento di cui all’articolo 2103
Cass., sez. Lavoro, 31 ottobre 2022, n. 32130
Andrea di Nino, Consulente del Lavoro in Milano
Con la sentenza n. 32130 del 31 ottobre 2022, la Corte Suprema di Cassazione si è espressa in merito alla quantificazione del risarcimento del danno spettante al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo che, a seguito del recesso, ha avuto accesso alla pensione di anzianità. In particolare, i fatti di causa hanno visto un lavoratore, dipendente con funzioni di dirigente presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, richiedere la declaratoria di illegittimità di un decreto di detto Ministero con il quale era stato risolto il suo rapporto di lavoro a far tempo dal 4 settembre 2009, sul presupposto dell’intervenuta maturazione del requisito contributivo massimo di quaranta anni a sensi dell’articolo 72, comma 11 del D.l. n.112/2008. Il giudice del rinvio, in merito, ha osservato, sulla base del principio di diritto enunciato dalla Cassazione, che il decreto ministeriale in esame (n. 342/2009) era illegittimo; quanto
to ai profili risarcitori derivanti dall’illegittima risoluzione del rapporto di lavoro dirigenziale, nell’operarne una quantificazione, il giudice escludeva il ristoro del danno biologico e, con riguardo al danno patrimoniale, faceva riferimento, da un lato, alle retribuzioni perdute nel periodo tra il 3 settembre 2009 e il 31 ottobre 2010, data di scadenza del biennio di trattenimento in servizio, e, dall’altro, alla “maggiore indennità di buonuscita”. I relativi importi venivano quantificati da un CTU opportunamente incaricato. A dire del giudice, non poteva invece essere riconosciuta, neanche sotto forma di perdita di chance, in difetto di esplicita domanda in tal senso, la retribuzione di risultato, atteso che essa “postula(va) una positiva verifica circa il conseguimento, da parte del dirigente, degli obiettivi prefissati”. Senonché, dal complessivo importo spettante a titolo di risarcimento andavano decurtate le somme che il lavoratore, nel medesimo arco temporale, aveva comunque percepito come pensione d’anzianità, e ciò in quanto, mancando nella specie un dictum giudiziale di ripristino del rapporto di lavoro che avrebbe reso ripetibili le somme erogate dall’Inps, a dire del giudice si sarebbe verificata, in difetto di detrazione dell’aliunde perceptum, un’indebita locupletazione del lavoratore stesso. Rispetto alla sentenza di secondo grado sopra descritta, il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione, cui il Ministero resisteva con controricorso. Tra i vari motivi, il ricorso del dirigente verteva sulla indebita detrazione di quanto corrisposto medio tempore a titolo di pensione di anzianità dal risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, effettuata dal giudice di appello. Secondo il ricorrente, infatti, solo il compenso da lavoro percepito durante il c.d. periodo intermedio (i.e., intercorrente tra il licenziamento e la sentenza di annullamento) può comportare la riduzione del risarcimento per il principio della compensatio lucri cum damno, mentre il trattamento pensionistico non sarebbe in alcun modo ricollegabile al licenziamento illegittimo e non sarebbe detraibile anche qualora vengano, come nella specie, a cristallizzarsi gli effetti del licenziamento per effetto della mancata reintegra in servizio. Detto motivo di ricorso è stato ritenuto fon[1]dato da parte dei giudici della Corte di Cassazione. In particolare, tra i motivi di accoglimento del ricorso, i giudici evidenziano di aver “più volte affermato il principio, da cui non v’è ragione di discostarsi, che non è detraibile come aliunde perceptum il trattamento pensionistico, potendosi considerare compensativo (quale aliunde perceptum) del danno arrecato dal licenziamento non qualsiasi reddito percepito, ma solo quello conseguito attraverso l’impiego della medesima capacità lavorativa”. La Corte di Cassazione evidenzia, altresì, come le Sezioni Unite (Cass. S.U. n. 12194/02) abbiano, già in epoca risalente, precisato che “il diritto a pensione discende dal verificarsi di requisiti di età e contribuzione stabiliti dalla legge, prescinde del tutto dalla disponibilità di energie lavorative da parte dell’assicurato che abbia anteriormente perduto il posto di lavoro, né si pone di per sé come causa di risoluzione del rap[1]porto di lavoro (cfr. Cass. 28 aprile 1995, n. 4747), sicché le utilità economiche che il lavoratore illegittimamente licenziato ne ritrae dipendono da fatti giuridici del tutto estranei al potere di recesso del datore di lavoro, non sono in alcun modo causalmente ricollegabili al licenziamento illegittimamente subito e si sottraggono per tale ragione all’operatività della regola della compensatio lucri cum damno”. Pertanto, le relative somme non possono configurarsi come “un lucro compensabile col danno”, ossia come un effettivo incremento patrimoniale del lavoratore, in quanto “a fronte della loro percezione sta un’obbligazione restitutoria di corrispondente importo”. Detta compensazione, inoltre, non può riconoscersi quando “il medesimo rapporto si ponga, invece, in termini di soggezione a divieti più o meno estesi di cumulo tra la pensione e la retribuzione, giacchè in tali evenienze la sopravvenuta declaratoria di illegittimità del licenziamento travolge ex tunc il diritto al pensionamento e sottopone l’interessato all’azione di ripetizione di indebito da parte del soggetto che eroga la
più di recente, le Sezioni Unite (sent. n. 12564/2018) abbiano osservato che “quando la condotta del danneggiante costituisce semplicemente l’occasione per il sorgere di un’attribuzione patrimoniale che trova la propria giustificazione in un corrispondente e precedente sacrificio, allora non si riscontra quel lucro che, unico, può compensare il danno e ridurre la responsabilità”. Pertanto, pare sussistere una ragione giustificatrice che non consente il computo della pensione di reversibilità in differenza alle conseguenze negative che derivano dall’illecito, poiché detto trattamento previdenziale “non è erogato in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dal danneggiato, ma risponde a un diverso disegno attributivo causale, che si pone quale causa del beneficio individuabile nel rapporto di lavoro pregresso, nei contributi versati e nella previsione di legge: tutti fattori che si configurano come serie causale indipendente”. La perdita di interesse del lavoratore alla ricostituzione del rapporto, anche de facto, mediante un provvedimento di reintegra e per effetto del raggiungimento del termine biennale di trattenimento in servizio, non esclude che vi sia la prosecuzione de iure dello stesso, considerato l’accertamento giudiziale dell’illecita risoluzione del rapporto. Dal ciò consegue – a dire della Suprema Corte e unitamente alla responsabilità risarcitoria del datore di lavoro, sul quale permane l’obbligo contributivo – la ripetibilità delle somme erogate nel biennio di riferimento a titolo pensionistico da parte dell’Inps. È seguito, pertanto, l’accoglimento del motivo di ricorso avanzato dal lavoratore da parte della Corte di Cassazione.
Cass., sez. Lavoro, 18 novembre 2022, n. 3405
Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano
In riferimento alla domanda presentata dal lavoratore, intesa all’accertamento della nullità/illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il giudice di primo grado aveva dichiarato risolto il rapporto di lavoro e aveva condannato l’Associazione/datrice di lavoro al pagamento dell’indennità risarcitoria, commisurata sull’ultima retribuzione globale di fatto nella misura di 16 mensilità, oltre accessori, respingendo le ulteriori domande di demansionamento e mobbing. La Corte di Appello di Roma, pronunciandosi sugli appelli proposti da entrambe le parti, rigettava quello della datrice di lavoro e accoglieva parzialmente quello del lavoratore. Il giudice, esclusa la natura discriminatoria del recesso, escluso il demansionamento e svuotamento di mansioni così come esclusa la configurabilità di una condotta mobbizzante (per essere gli episodi denunciati riconducibili all’ambito della fisiologica dinamica dei rapporti di lavoro), ha ritenuto effettiva e non simulata la riorganizzazione attuata dal nuovo Direttore Generale della società, espressione della libertà di iniziativa economica. In giudizio, la parte datoriale aveva fornito sufficiente ed adeguata dimostrazione dell’effettività di tale causale, rappresentata dal riassetto organizzativo del settore Comunicazioni, offrendo ulteriore, seppur non necessaria, dimostrazione dell’esigenza di ridurre i costi, attraverso la redistribuzione di una parte di attività tra altri soggetti mentre, le attività di relazioni istituzionali sarebbero state affidate ad una società esterna. In merito al “repêchage”, il giudice di appello aveva rilevato che le contestazioni presentate dalla datrice di lavoro erano del tutto generiche ed inadeguate a contrastare le prove presentate dal lavoratore circa l’assunzione di altri dipendenti, la presenza di altre società facenti capo all’Associazione/ datrice di lavoro. Il giudice, in parziale accoglimento dell’appello del lavoratore, confermando nel resto la decisione di primo grado, aveva condannato la società al pagamento dell’ulteriore risarcimento del danno, collegato alla modalità di risoluzione del rapporto, quantificato in via equitativa nella somma di 15.000 euro, oltre accessori. Per la cassazione della decisione propone ricorso il lavoratore; la parte intimata resiste con tempestivo controricorso con il quale propone ricorso incidentale. Il lavoratore deposita controricorso avverso il ricorso accidentale. Dall’esame dei motivi di ricorso principale ed incidentale, la Suprema Corte accoglie le censure sollevate dal lavoratore in merito alla tutela reintegratoria perché la società non aveva dimostrato l’impossibilità di un’utile ricollocazione lavorativa del lavoratore. La Suprema Corte rammenta che il testo dell’art. 8, comma 7, Legge n.300/1970, qua[1]le risultante all’esito degli interventi della Corte Costituzionale, comporta che, in ipotesi di insussistenza del fatto alla base del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, il giudice deve applicare la tutela di cui al comma 4 dell’art.18 quale risultante dalla novella della Legge n.92/2012, implicante la reintegra del lavoratore ed il pagamento di un’indennità risarcitoria nei liniti definiti dal comma medesimo. Per orientamento consolidato della Suprema Corte, riaffermato anche nel vigore della modifica al testo dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, il fatto costitutivo del giustificato motivo oggettivo è rappresentato sia dalle ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, sia all’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore (cd. repêchage ). La protezione del lavoratore contro i licenziamenti illegittimi, con riferimento al licenziamento intimato per ragioni inerenti l’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, deve includere anche l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore.
La Suprema Corte accoglie pertanto il primo motivo di ricorso principale e rinvia alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, per il riesame della tutela applicabile per l’ipotesi di illegittimità del licenziamento.
Cass., Sez Lavoro, 19 ottobre 2022, n. 30850
Luciana Mari, Consulente del Lavoro in Milano
A seguito dell’impugnazione da parte del lavoratore del licenziamento intimatogli, tanto il Giudice di primo grado, quanto la Corte d’Appello decidevano parallelamente nel rigetto delle doglianze del dipendente. Innanzitutto, veniva riconosciuto che, anche sulla base delle norme del Ccnl di settore, il provvedimento espulsivo era perfettamente efficace, non essendo maturata la decadenza per l’irrogazione del medesimo. Quanto alla pretesa genericità della contestazione disciplinare, la Corte d’Appello rilevava che essa fosse stata redatta per iscritto e nel rispetto del canone di specificità, peraltro coadiuvata dall’allegazione dei documenti richiamati. A tale lettera di addebito disciplinare non seguiva alcuna censura da parte del lavoratore, ragione per cui si poteva legittimamente ritenere che essa fosse coperta da giudicato. Inoltre veniva deciso che il requisito dell’immutabilità non poteva ritenersi violato dall’integrazione successiva della contestazione, volta a specificare adeguatamente i fatti addebitati nonché comunque pervenuta in momento precedente alla consegna dell’atto conclusivo della procedura disciplinare. Il lavoratore decideva quindi di proporre ricorso per Cassazione. Proprio in ragione della particolare posizione di soggezione del dipendente rispetto all’esercizio datoriale del potere disciplinare, la giurisprudenza ha da sempre valorizzato il diritto di difesa del lavoratore. Secondo tale prospettiva in via generale il datore dovrebbe procedere alla contestazione non appena abbia acquisito una compiuta e meditata conoscenza dei fatti oggetto di addebito, atteso che il ritardo nella contestazione lede il diritto di difesa del lavoratore e, in particolare, il suo affidamento sulla mancanza di rilievo disciplinare attribuito dal datore di lavoro alla condotta inadempiente. La tempestività e l’immutabilità della contesta[1]zione rappresentante le primarie garanzie che integrano il principio cardine di tutta la disciplina della contestazione dell’inadempimento, che dev’essere determinata, specifica e tempestiva. Con specifico riguardo, poi, al principio di immutabilità, la Suprema Corte è ferma nel ravvisare la funzione dello stesso di evitare una concreta menomazione del diritto di difesa dell’incolpato, qualora il datore di lavoro proceda negli atti successivi alla contestazione disciplinare a un diverso apprezzamento o a una diversa qualificazione del medesimo. Coerentemente con detto orientamento giurisprudenziale la pronuncia in esame della Cassazione ha ritenuto che l’addebito iniziale integrato nelle successive occasioni di specificazione da parte del datore di lavoro rimane legittimamente contestato se non si registra una diversa qualificazione del fatto né un suo diverso apprezzamento. In dettaglio per la Suprema Corte “il principio di immutabilità della contestazione attiene al complesso degli elementi materiali connessi all’azione del dipendente e può dirsi violato solo ove venga adottato un provvedimento sanzionatorio che presupponga circostanze in fatto nuove o diverse rispetto a quelle contestate, così da determinare una effettiva menomazione del diritto alla difesa dell’incolpato”. Alla luce della giurisprudenza riportata, può concludersi che principio della immutabilità della contestazione non deve essere inteso in senso estremamente rigido. Per poter considerare che il suddetto canone sia stato rispettato dal datore di lavoro, è necessaria la piena identità tra la ricostruzione dell’addebito così come operata nella contestazione e l’addebito preso nel suo complesso che è sotteso alla sanzione applicata, così da non ledere, salvaguardandolo, il diritto di difesa del lavoratore resosi manchevole. Sono pertanto consentite tutte le modifiche dei fatti contestati che – non configurandosi come elementi aggiuntivi di una condotta, pur potenzialmente disciplinarmente rilevante, appartenga ad una fattispecie diversa e più grave quella contestata, risolvendosi quindi in nuove circostanze prive di valore identificativo della originaria fattispecie – non ostacolano la difesa del lavoratore sulla base delle conoscenze acquisite e degli elementi a discolpa dallo stesso forniti a seguito della contestazione dell’addebito. Può quindi ritenersi opportuno – peraltro frequente nella prassi – che, nel corso di un procedimento disciplinare, la contestazione venga arricchita di circostanze che, non aggiungendo nuove imputazioni, si ritengono però idonee a suffragare la gravità o comunque a consentirne una più precisa valutazione.