Cass., Sez, Lavoro, 7 ottobre 2022, n. 29332
Luciana Mari, Consulente del Lavoro in Milano
La sentenza della Corte di Appello di Caltanissetta ha affermato che i “comportamenti vessatori e denigratori” del dirigente inflitti nei confronti dei suoi sottoposti, causando un sistema di “sopraffazione e condizionamento psicologico”, fanno scattare la sanzione espulsiva a suo carico. Inoltre, è assicurato il diritto di difesa esercitato dai collaboratori, qualora la consegna della relazione da questi sottoscritta avvenga prima dell’audizione disciplinare al dirigente.
La contestazione di addebito aveva ad oggetto comportamenti gravemente lesivi del vincolo fiduciario, di cui a ripetute segnalazioni ed a dettagliata relazione sottoscritta da diversi collaboratori, concernenti problemi di gestione della struttura complessa di Genetica medica, consistiti, in particolare, in “sistematici comportamenti vessatori e denigratori nei confronti dei medici e biologi” qualificati come “dittatoriali”, ripetutamente “tesi a ridicolizzare l’operato dei lavoratori”, decisioni arbitrarie in ordine ai soggetti da includere nelle pubblicazioni a prescindere dall’effettiva partecipazione al lavoro, comportamenti volti ad ostacolare la comunicazione e l’interazione lavorativa tra medici e biologi, mancato utilizzo di apparecchiature in dotazione al laboratorio di UOS Citogenetica, dichiarazioni lesive dell’immagine del presidente e dell’ente.
Ancora, all’insegna del divide et impera, il dirigente ostacolava la comunicazione e l’interazione fra i dipendenti, finendo per non utilizzare apparecchiature che pure sono in dotazione al reparto. Il dirigente medico aveva instaurato nei dipartimenti un sistema di «sopraffazione e condizionamento psicologico».
Tale sistema era specificato nella relazione di cui alla contestazione, consegnata in copia al ricorrente prima dell’audizione.
Tali condotte oggetto di contestazione erano idonee a giustificare il licenziamento disciplinare irrogato, quantunque la condotta di dichiarazioni lesive dell’immagine del legale rappresentante dell’Associazione non fosse stata confermata.
La Suprema Corte, nel confermare la sentenza di secondo grado e il licenziamento, ha affermato che la contestazione dell’addebito deve essere specifica, non osservare schemi rigidi e prestabiliti e, soprattutto, deve fornire al dipendente incolpato le indicazioni necessarie per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati; ne consegue la piena ammissibilità della contestazione per relationem.
Il giudice può apprezzare le suddette caratteristiche secondo i canoni ermeneutici applicabili agli atti unilaterali. Analogamente il giudice può vagliare l’immediatezza della contestazione per la quale vanno considerate anche le ragioni che possono cagionare il ritardo, quali il tempo necessario per l’accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa. I giudici di merito hanno inoltre ritenuto provati i fatti contestati nella loro materialità di comportamenti vessatori nei confronti dei collaboratori e sottoposti, in contrasto con i doveri connessi all’incarico ricoperto ed alla corretta gestione della struttura.
La Corte respinge il ricorso condannando la parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità.
Cass., ordinanza 3 ottobre 2022, n. 28572
Patrizia Masi, Consulente del lavoro in Milano
L’Inps sostiene che i redditi percepiti da F.N., quale partecipazione agli utili della società di capitale di cui è fondatore, debbano essere qualificati come redditi di lavoro autonomo (e non come redditi di capitale) e come tali devono essere inseriti nella base imponibile sulla quale parametrare l’obbligo contributivo.
In prima istanza, e successivamente in Appello, viene respinto il ricorso presentato dall’Istituto che, infine, ricorre in Cassazione basando la sua impugnazione su un unico motivo: violazione e falsa applicazione dell’art. 3 bis della Legge n. 438/1992 di conv. con modifiche del D.l. n. 384/1992 e in connessione con la Legge n. 223/1990, dell’art. 53, co. 2, lett. d) del D.P.R. n. 917 (TUIR) e dell’art. 10 del D.lgs. n. 241 del 1997, ai sensi dell’art. 360, n. 3 c.p.c..
La Cassazione dichiara inammissibile il ricorso poiché il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e perché l’esame dei motivi non ha offerto elementi validi per mutare l’orientamento della stessa.
Secondo la Corte, infatti, se è vero che il TUIR distingue la natura della partecipazione agli utili del socio fondatore da quella del socio non fondatore, definendo la prima reddito di lavoro autonomo e la seconda reddito di capitale, non di meno tale distinzione non “conviene” alla posizione dell’Inps nella fattispecie in esame, poiché quella operata dal TUIR è una fictio iuris destinata a spiegare effetti a fini fiscali, ma non anche ad incidere sulla qualificazione dei relativi redditi ai fini contributivi.
Infine, a parere del Collegio, la richiesta dell’Inps è infondata anche dal punto di vista della qualificazione del “socio fondatore”. A questa domanda è già stata data risposta in giurisprudenza (Cass., n. 21540 del 2019; Cass., n. 18765/2022; Cass., n. 10969/2022): il reddito per la partecipazione a società di capitali va incluso nella base imponibile contributiva solo qualora tale quota parte rientri tra i redditi d’impresa, nell’accezione contenuta nell’art. 3 bis del D.l. n. 384/1992.
Cass., sez. Lavoro, 15 novembre 2022, n. 33623
Patrizia Masi, Consulente del lavoro in Milano
Il lavoratore ha impugnato il licenziamento inflittogli a seguito di un procedimento di licenziamento collettivo. Secondo il lavoratore, infatti, è illegittimo l’accordo raggiunto tra azienda datrice di lavoro e sindacato nel quale si afferma che i “lavoratori saranno valutati dal responsabile dell’area aziendale, tenuto conto delle professionalità formazione e servizi quali-quantitativi, al fine di mantenere i lavoratori con le competenze professionali necessarie per continuare efficacemente l’attività dell’impresa”. La Corte d’Appello, in riforma alla pronuncia di primo grado, ha accolto la domanda di cui sopra, assumendo che i criteri di selezione non siano oggettivamente verificabili e controllabili, lasciando quindi ampia discrezionalità al datore di lavoro.
La Suprema Corte, confermando il rilievo della Corte d’Appello, ha affermato che al fine di garantire la trasparenza della procedura di licenziamento collettivo, i criteri designati per l’individuazione dei lavoratori da licenziare devono essere oggettivi e non possono essere applicati arbitrariamente. In altre parole, si è ribadito che i criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità devono essere, tutti ed integralmente, basati su elementi oggettivi e verificabili.
Il criterio elaborato nella fattispecie è stato ritenuto “non oggettivamente verificabile e controllabile”
pertanto, sulla base di tali presupposti, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso della società, affermando l’illegittimità del licenziamento contestato e condannando la ricorrente alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, oltre che al risarcimento del danno in misura pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con accessori e spese.
Cass., sez. Lavoro, 28 novembre 2022, n. 34968
Stefano Guglielmi, Consulente del lavoro in Milano
lavoratore ha agito presso il Tribunale di Roma nei confronti del Ministero della Giustizia esponendo di avere lavorato dapprima presso l’Amministrazione penitenziaria e poi, dal 1981, presso l’Ufficio automezzi di Stato della Direzione Affari Civili, ove il personale era carente, al punto che i ritmi di lavoro cui egli era stato sottoposto risultavano insostenibili, mancando qualsiasi pianificazione e distribuzione dei carichi e dovendosi svolgere, in ambiente disagiato, mansioni inferiori e superiori ed al punto che, a partire dall’anno 2002 aveva maturato sintomi depressivi finendo per essere ritrasferito nel novembre 2000, in esito ad un accentuato malore, all’Amministrazione penitenziaria, patendo poi un infarto nel gennaio del 2001 (questo quanto si legge testualmente dalla sentenza).
Il lavoratore aveva quindi agito nei confronti del Ministero per il risarcimento del danno biologico subito per violazione dell’art. 2087 c.c. e delle pertinenti norme del D.lgs. n. 626 del 1994, oltre ai danni alla professionalità, insistendo in subordine per il riconoscimento dell’ascrivibilità della patologia cardio-vascolare a causa di servizio con accertamento del diritto al pagamento del c.d. equo indennizzo.
Il Tribunale ha riconosciuto solo il diritto all’equo indennizzo, mentre ha rigettato la domanda risarcitoria, con pronuncia poi confermata dalla Corte d’Appello di Roma. Si concludeva per l’assenza di prova delle violazioni che il lavoratore assumeva essere imputabili al Ministero, essendovi necessità di dimostrazioni dell’elemento soggettivo della colpa, non potendosi ipotizzare una responsabilità oggettiva e dovendosi considerare come il nesso etiologico proprio del riconoscimento del c.d. equo indennizzo si basasse su presupposti differenti rispetto a quelli propri del risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., i quali presuppongono anche la dimostrazione dell’elemento soggettivo, rispetto al quale il ricorrente non aveva fornito elementi probatori sufficienti.
Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione.
È indubbio che l’azione dispiegata dal ricorrente si riporti ad una fattispecie di responsabilità contrattuale, con essa essendosi inteso denunciare l’inadempimento datoriale rispetto all’assicurazione di condizioni di lavoro idonee a preservare la salute degli addetti, il richiamo della Corte territoriale all’art. 2043 c.c. è in sé errato (v., per i criteri distintivi nella presente materia, Cass., S.U. 8 luglio 2008, n. 18623).
Il lavoratore che agisca ai sensi dell’art. 2087 c.c. ha l’onere di provare l’esistenza del danno subito, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro.
Nel caso di specie riguardante il verificarsi di un c.d. “superlavoro” ed in cui la nocività addotta consiste nello svolgimento stesso della prestazione, lo svolgimento di un lavoro che non sia in sé vietato dalla legge rende fisiologico – e quindi non imputabile a responsabilità datoriale – un certo grado di usura o pregiudizio, variabile sotto il profilo fisio-psichico a seconda del tipo di attività (Cass. 29 gennaio 2013, n. 3028).
In tema di demansionamento, che appunto consiste in un’attribuzione di mansioni inadeguate rispetto a quelle contrattualmente dovute, si è consolidato l’indirizzo, mutuato dall’originario e generale impianto di Cass., S.U., 30 ottobre 2001, n. 13533, per cui il lavoratore “allorquando da parte di un lavoratore
sia allegata una dequalificazione o venga dedotto un demansionamento riconducibili ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro… è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’una o l’altro siano stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari o, comunque, in base al principio generale risultante dall’art. 1218 c.c., da un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile” (Cass. 6 marzo 2006, n. 4766, e più di recente Cass. 20 aprile 2018, n. 9901; Cass. 18 gennaio 2018, n. 1169; Cass. 3 marzo 2016, n. 4211). È ben vero che, secondo Cass., S.U., n. 13533/2001, cit., un tale assetto probatorio vale solo per le obbligazioni di “fare”, mentre rispetto a quelle di “non fare” l’onere di provare l’inadempimento grava sul creditore.
In realtà l’obbligazione di sicurezza si materializza in un intreccio indissolubile di fattori “di fare” e di “non fare”, ma essa va colta nella sua unitarietà come dovere di garantire che lo svolgimento del lavoro non sia fonte di pregiudizio per il lavoratore e quindi come obbligazione di fare consistente nell’obbligo di attribuire, pretendere e ricevere dal lavoratore una qualità e quantità di prestazione che sia coerente “con la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica”, in modo che non derivi pregiudizio alla integrità fisica” ed alla “personalità morale del lavoratore” (così, esplicitamente, proprio l’art. 2087 c.c.).
Il nesso eziologico tra l’infarto e l’attività lavorativa in concreto svolta è poi pacifico ed attestato dal riconoscimento ormai incontestato dell’equo indennizzo per causa di servizio. Può anche definirsi il seguente principio: “in tema di azione per risarcimento, ai sensi dell’art. 2087 c.c., per danni cagionati dalla richiesta o accettazione di un’attività lavorativa eccedente rispetto alla ragionevole tollerabilità,
il lavoratore è tenuto ad allegare compiutamente lo svolgimento della prestazione secondo le predette modalità nocive ed a provare il nesso causale tra il lavoro così svolto e il danno, mentre spetta al datore di lavoro, stante il suo dovere di assicurare che l’attività di lavoro sia condotta senza che essa risulti in sé pregiudizievole per l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, dimostrare che viceversa la prestazione si è svolta, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, con modalità normali,
congrue e tollerabili per l’integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore”.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione.
Cass., sez. Lavoro, 13 ottobre 2022, n. 29981
Elena Pellegatta, Consulente del lavoro in Milano
La vicenda prende avvio con il ricorso degli eredi del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, azienda edile, per ottenere il riconoscimento della sussistenza, fra le parti, di un rapporto di lavoro subordinato in luogo dell’assenza di formalizzazione dello stesso dal 2 gennaio 2000 al 30 settembre 2002 e della configurazione quale contratto di collaborazione professionale per il periodo successivo
all’1 dicembre 2012, con le connesse differenze retributive. Il giudice di secondo grado, riesaminando i risultati della attività istruttoria esperita in primo grado, ha ritenuto di non condividere l’iter motivazionale del primo giudice e, pertanto, ha reputato configurabile un rapporto di lavoro subordinato fra le parti sin dall’inizio del rapporto, con le conseguenze economiche connesse a tale statuizione.
La vicenda viene portata davanti agli Ermellini, che confermano la corretta valutazione del giudice di secondo grado, ritenendo non ammissibili i tre motivi del ricorso.
Il primo motivo, ossia l’errata configurazione del rapporto come subordinato invece che autonomo, non è ammissibile. Le risultanze testimoniali, pacificamente acclarate in appello, indicavano chiaramente come il lavoratore fosse sottoposto alle direttive dei dirigenti della azienda non solo quanto al luogo ma anche quanto alle modalità e direzione del taglio dello sbanco ed ha concluso per lo stabile inserimento nell’organico aziendale del lavoratore alla luce della circostanza che dettava disposizioni agli operai, che a lui gli stessi si rivolgevano quanto a richieste inerenti ferie e malattie; inoltre gli indici riscontrati deponevano per l’assenza di rischio e per la messa a disposizione da parte del lavoratore delle proprie energie lavorative in relazione delle quali veniva corrisposta la retribuzione, in luogo del risultato conseguito.
Ha osservato, pertanto, il giudice di secondo grado, che soltanto nel caso in cui la prestazione dedotta in contratto sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione e, allo scopo della qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, il criterio rappresentato dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare non risulti, in quel particolare contesto, significativo, occorre far ricorso a criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell’orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale e la sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore, desunto anche dalla eventuale concomitanza di altri rapporti di lavoro. In mancanza delle suddette autonomie organizzative, viene confermato il rapporto di lavoro subordinato.
Anche il secondo motivo di impugnazione, ossia la prescrizione dei crediti da lavoro dipendente, è giudicato infondato.
La Corte ha affermato, con riguardo a tale domanda, che il rapporto di lavoro tra il lavoratore e la società non era assistito da stabilità reale, in quanto senza formalizzazione nel periodo dal 2.1.2000 al 30.9.2002 ed in forza di contratto di lavoro autonomo dall’1.10.2002 al 26.9.2009.
La Suprema Corte ha affermato che la prescrizione dei crediti del lavoratore non decorre in costanza di un rapporto di lavoro formalmente autonomo, del quale sia stata successivamente riconosciuta la natura subordinata con garanzia di stabilità reale in relazione alle caratteristiche del datore di lavoro.
Come emerge da quanto oggetto del presente giudizio, il riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, negata dalla parte ricorrente fino al giudizio di legittimità, è stata proprio oggetto della vicenda sub judice, e contrasterebbe con la richiamata giurisprudenza di legittimità la previsione della possibilità di far decorrere la prescrizione in costanza di un rapporto privo di qualificazione professionale per il primo periodo ed in prosieguo configurato in termini di lavoro autonomo, con una conseguente inammissibile compressione dei diritti retributivi del prestatore.
Il terzo motivo di impugnazione, indicato come la violazione del contratto collettivo nazionale lapidei in ordine all’errata determinazione dei conteggi relativi alla tredicesima mensilità ed al trattamento di fine rapporto, è altresì inammissibile. Su tale assunto infatti il datore di lavoro non ha portato alcuna prova che potesse dimostrare il contrario al giudice di secondo grado; e l’onere della indicazione specifica dei motivi di impugnazione, imposto a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione qualunque sia il tipo di errore (“in procedendo” o “in iudicando”) per cui è proposto, non può essere assolto “per relationem” con il generico rinvio ad atti del giudizio di appello, senza la esplicazione del loro contenuto, essendovi il preciso onere di indicare, in modo puntuale, gli atti processuali ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché le circostanze di fatto che potevano condurre, se adeguatamente considerate, ad una diversa decisione e dovendo il ricorso medesimo contenere, in sé, tutti gli elementi che diano al giudice di legittimità la possibilità di provvedere al diretto controllo della decisività dei punti controversi e della correttezza e sufficienza della motivazione della decisione impugnata.
Cass., sez. Lavoro, 13 ottobre 2022, n. 30167
Andrea di Nino, Consulente del lavoro in Milano
Con la sentenza n. 30167 del 13 ottobre 2022, la Corte Suprema di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato da un datore di lavoro a seguito del riconoscimento dell’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo inflitto ad un lavoratore.
La Corte distrettuale, inoltre, aveva rilevato che al lavoratore fosse stata assegnata una mansione riconducibile ad un livello di inquadramento inferiore rispetto alla propria qualifica, in violazione dell’art. 2103 del Codice civile.
In particolare, i fatti di causa hanno visto un lavoratore che, da capoturno di pattuglie di guardie giurate, veniva licenziato a seguito della perdita di un appalto.
I motivi su cui si è basata la decisione della Suprema Corte si rinvengono nella “manifesta insussistenza” del fatto che ha originato il licenziamento, il quale – a seguito dell’istruttoria svolta nei diversi gradi di giudizio – non è risultato legato da un nesso causale alla soppressione del posto di lavoro cui il lavoratore è stato assegnato in forza di un atto nullo. A fronte di ciò, ha trovato applicazione la tutela
reintegratoria, come previsto dal comma 7 dell’art. 18 della Legge n. 300/1970 e l’azienda è stata condannata, inoltre, al pagamento delle spese della lite.
Il datore di lavoro ha presentato ricorso articolato per sei motivazioni, le quali hanno riguardato principalmente la “manifesta insussistenza” del fatto e l’eccessiva onerosità della reintegrazione, prevista dal menzionato articolo 18.
In particolare, l’azienda ha denunciato la violazione, da parte della Corte distrettuale, del principio di diritto espresso dalla Cassazione in sede di annullamento con riguardo alla ricostruzione ermeneutica del concetto di “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento (ai sensi dell’art. 18, comma 7 della Legge n. 300 del 1970), la quale sarebbe stata effettuata “senza l’indagine sia sulla “evidente e facilmente verificabile” carenza del nesso di causalità tra assegnazione (nulla) alla postazione e successiva soppressione del posto sia sulla eccessiva onerosità della reintegrazione”.
La ricorrente, inoltre, ha dedotto omesso esame di un fatto decisivo discusso tra le parti, avendo la Corte distrettuale trascurato – ai fini della valutazione della “eccessiva onerosità della reintegrazione” – che presso la centrale operativa cui il lavoratore era addetto non vi erano posizioni di capoturno disponibili
e che in base alla declaratoria del 3° livello di cui al Ccnl Vigilanza non potevano essere più assegnate mansioni di capoturno.
Tanto rappresentato dall’azienda ricorrente, la Suprema Corte ha comunque ritenuto infondati i diversi motivi di ricorso. In particolare, questa ha illustrato come l’art. 18, comma 7, della Legge n. 300/1970 – che regola l’apparato sanzionatorio da applicare in caso di accertamento della illegittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo – sia stato “inciso da due recenti sentenze della Corte costituzionale, successive alla pronuncia rescindente, proprio con riguardo ai requisiti per l’applicazione
della tutela reintegratoria”.
In particolare, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 59 del 1° aprile 2019, ha dichiarato l’illegittimità del comma 7 dell’art. 18 della Legge n. 300/1970, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma; la sentenza n. 125 del 2022, altresì, ha dichiarato l’illegittimità del medesimo comma ove si prevede l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, limitatamente al termine “manifesta”.
In virtù di quanto espresso dalla Corte costituzionale, la Cassazione ha evidenziato che laddove il giudice accerti l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, debba essere sentenziato l’annullamento del licenziamento e ordinata la reintegrazione del lavoratore,
“senza alcuna facoltà di scelta tra tutela ripristinatoria e tutela economica”. Pertanto, l’apprezzamento
della sussistenza dei vizi denunciati con il ricorso dev’essere fatto con riferimento alla situazione normativa determinata dalla pronuncia di incostituzionalità.
Sul punto, la Suprema Corte ha evidenziato che la valutazione della fondatezza o meno del ricorso per cassazione deve farsi con riferimento “alla situazione normativa determinata dalla pronuncia di incostituzionalità, essendo irrilevante che la decisione impugnata o la stessa proposizione del ricorso siano anteriori alla pronuncia del giudice delle leggi, atteso che gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità di una norma retroagiscono alla data di introduzione nell’ordinamento del testo di legge dichiarato costituzionalmente illegittimo”.
Posto che i primi cinque motivi di ricorso vertono tutti sulla ricorrenza di due requisiti attinenti al regime sanzionatorio del licenziamento per giustificato motivo oggettivo non sono più vigenti, i suddetti motivi sono stati rigettati.
La Corte distrettuale ha, inoltre, rilevato che l’accertamento circa la illiceità del fatto posto a fondamento con il recesso era da ritenersi definitivo, in quanto deve ritenersi totalmente insussistente il fatto materiale che ha determinato il licenziamento dipendente, posto come non vi sia stata una lecita adibizione dello stesso all’appalto, non potendo perciò un fatto illecito essere posto a fondamento,
in un vincolo di causalità, con il recesso per giustificato motivo oggettivo.
In altre parole, il fatto “perdita dell’appalto” – a dire della Suprema Corte – non può giustificare il licenziamento del lavoratore che non poteva esservi assegnato. Da questo è conseguita la piena integrazione dell’unico requisito richiesto dall’art. 18, comma 7, della Legge n. 300/1970 (nel testo a seguito dei due interventi della Corte costituzionale) per l’applicazione della tutela reintegratoria.
Il datore di lavoro è stato dunque condannato a pagare a favore del lavoratore indennità e contributi dovuti per il periodo intercorso tra la risoluzione del rapporto e la reintegrazione effettiva, fino a un massimo di dodici mensilità.