Cass., sez. Lavoro, Ord. 7 settembre 2022, n. 26399
Premesso che la società L.P.M. Srl cede un ramo di azienda alla società L.P.G.M. LTD di cui fa parte la lavoratrice M.M., davanti al Tribunale di Bologna la stessa ricorre contro le due società per i seguenti motivi:
• far dichiarare nulla e/o inopponibile la clausola che la estromette dalla cessione facendola rimanere in capo alla cedente;
• far dichiarare nullo il licenziamento disposto dalla cedente determinato da motivi discriminatori e ritorsivi.
In prima istanza e successivamente in Appello viene respinto il ricorso della lavoratrice; le motivazioni sono legate all’assenza della prova di un intento ritorsivo che reggesse il licenziamento impugnato in quanto gli elementi allegati non consentono di ritenere comprovata, anche presuntivamente, la rimarcata ritorsività e/o discriminatorietà.
Ricorre in Cassazione la lavoratrice, basando la sua impugnazione su sei motivi di cui cinque (1°, 2°, 3°, 4° e 6°) sono stati dichiarati inammissibili.
Secondo gli Ermellini, è inammissibile un ricorso che non consenta – come nella specie – di individuare in che modo e come le numerose norme invocate sarebbero state violate nella sentenza impugnata.
Il rispetto del principio di specificità dei motivi, del ricorso per cassazione, deve comportare infatti l’esposizione di argomentazioni chiare ed esaurienti, illustrative delle dedotte inosservanze di norme o principi di diritto, che precisino come abbia avuto luogo la violazione ascritta alla pronuncia di merito, in quanto è solo la esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura.
Dichiara invece fondato il quinto motivo con il quale si denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, co. 2, n. 4, c.p.c., in quanto sorretta da motivazione apparente e perplessa, e dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c., dal momento che la Corte d’Appello non si sarebbe pronunciata sulla domanda della ricorrente avente ad oggetto la declaratoria di nullità della clausola contrattuale che aveva estromesso la lavoratrice dalla cessione. Pertanto, la Corte accoglie il quinto motivo di ricorso, respinge tutti gli altri e rinvia alla Corte di Appello di Bologna, che si uniformerà a quanto statuito pronunciando sulla questione della nullità e/o inopponibilità alla ricorrente della clausola del contratto su menzionato.
Cass., Sez. Penale, 7 ottobre 2022, n. 29329
Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano
La Corte d’Appello di Firenze ha dichiarato la nullità delle dimissioni a firma del lavoratore datate 08/11/2007 e l’inefficacia del licenziamento orale intimato dalla società il 12/11/2007, e condannato detta Società a risarcire il lavoratore del danno conseguente al recesso, oltre accessori, ed alla rifusione delle spese dell’intero giudizio e della CTU svolta in primo grado.
Il lavoratore aveva convenuto in giudizio la società innanzi al Tribunale di Rimini per sentir accertare l’inefficacia del licenziamento orale intimatogli mediante l’utilizzazione, in data 8/11/2007, di un atto di dimissioni sottoscritto al momento dell’assunzione e con data in bianco.
Il Tribunale, con sentenza parziale, aveva dichiarato l’inefficacia del recesso con condanna della società al ripristino del rapporto ed al risarcimento del danno.
La Corte d’Appello di Bologna, in accoglimento del gravame della società, aveva, invece, respinto l’azionata domanda, ritenendo che il lavoratore non avesse adempiuto alla prova relativa alle deduzioni circa la sottoscrizione in bianco delle dimissioni all’atto dell’assunzione e che le modalità di trasmissione previste dalla contrattazione collettiva non fossero prescritte a pena di nullità.
La Corte enunciava così il seguente principio di diritto: l’atto di dimissioni, dichiarazione di volontà unilaterale e recettizia con cui il lavoratore recede dal contratto di lavoro, è soggetto al principio della libertà di forma, a meno che le parti non abbiano espressamente previsto nel contratto, collettivo o individuale, una diversa forma convenzionale, quale la forma scritta; in tal caso, la forma convenzionale si presume voluta per la validità delle dimissioni, ex art. 1352 c.c., applicabile anche agli atti unilaterali, e si estende alle modalità di comunicazione di tale volontà, quando per essa le parti abbiano previsto un mezzo particolare al fine di evitare, nell’ interesse del lavoratore, manifestazioni di volontà non adeguatamente ponderate. Conseguentemente la sentenza della Corte d’Appello di Bologna inter partes veniva cassata con invio alla Corte d’Appello di Firenze, la quale statuiva nei termini di cui sopra, procedendo a rivalutare il merito alla luce del ridetto principio di diritto.
Avverso tale sentenza la Società propone ricorso per cassazione, cui resiste con controricorso il lavoratore. La questione della prova della firma di dimissioni “in bianco” in epoca antecedente la data di risoluzione del rapporto è, nel caso di specie, irrilevante, perché nella sentenza rescindente si è chiarito che, nella specifica materia, il contratto collettivo prevede una determinata forma delle dimissioni del lavoratore ad substantiam,con conseguente nullità della lettera di dimissioni in atti nel caso concreto, pacificamente non rispondente ai requisiti di cui alla contrattazione collettiva (come chiarito nella sentenza rescindente e ribadito nella sentenza qui impugnata).
Si respinge il ricorso e si condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio.
Cass., Ord. , sez. Lavoro,11 agosto 2022, n. 24722
Andrea Di Nino, Consulente del Lavoro in Milano
Con l’ordinanza n. 24722 dell’11 agosto 2022, la Suprema Corte di Cassazione
ha rigettato il ricorso contro una sentenza della Corte d’Appello di Roma che ha dichiarato inefficace il licenziamento disciplinare intimato ad un lavoratore senza la previa affissione del codice disciplinare.
I fatti contestati riguardano il licenziamento di un lavoratore, il quale aveva lavorato alle dipendenze di un datore di lavoro sin dal 1993. Dal 2010, il dipendente era stato addetto in via esclusiva all’infilaggio di tubi di rame all’interno dei diaframmi di plastica costituenti una struttura portante denominata “castelletto”.
Negli anni dal 2011 al 2013, il lavoratore aveva ricevuto varie contestazioni disciplinari per scarso rendimento e provvedimenti disciplinari di sospensione dal servizio e dalla retribuzione. In data 7 novembre 2013, lo stesso era stato licenziato con preavviso a seguito di una contestazione disciplinare con cui gli si addebitava “una voluta lentezza nello svolgere la mansione affidata”, unitamente alla recidiva specifica.
Il tribunale, sia in fase sommaria che nella successiva fase di opposizione, aveva rigettato la domanda, avendo accertato rendimenti del lavoratore (invalido civile al 50% ma giudicato idoneo alla mansione assegnatagli) pari o inferiori al 50% rispetto alla media produttiva del reparto dove questi era assegnato.
I giudici di appello, pertanto, hanno rilevato come “la contestazione disciplinare avesse ad oggetto la violazione, non di doveri fondamentali del lavoratore o del c.d. minimo etico”, che devono presumersi conosciuti da tutti, “bensì di una specifica regola tecnica di produttività”, legata ad un determinato standard medio fissato dall’azienda in base alla propria organizzazione produttiva e alla media raggiunta dagli altri dipendenti con identiche mansioni. In ragione di tali caratteristiche, dunque, il datore di lavoro avrebbe dovuto preliminarmente informare i lavoratori della rilevanza disciplinare della violazione della citata regola di produttività, mediante affissione del codice disciplinare in luogo accessibile a tutti.
La società, in sua difesa, avendo ricevuto nei precedenti gradi di giudizio tale contestazione ai sensi dell’art. 7, comma 1, della Legge n. 300/1970, ovverosia di non aver affisso il regolamento aziendale, ha richiesto l’ammissione della prova testimoniale, a integrazione del contradittorio, ma in entrambi i giudizi non è stata accolta l’eccezione della parte convenuta. I giudici di ultima istanza, con l’ordinanza, hanno ritenuto legittimo il giudizio del giudice precedente e condannato la parte ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Cass., sez. Lavoro, 28 luglio 2022, n. 23674
Luciana Mari, Consulente del Lavoro in Milano
La Corte di Cassazione ha ribadito che è nullo il licenziamento intimato nei confronti del lavoratore assente per motivi di salute e avvenuto nell’ultimo giorno del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva. Nel caso in esame la Cassazione, non concorde con quanto inizialmente stabilito dalla Corte d’Appello, ha considerato tale licenziamento illegittimo in quanto irrogato l’ultimo giorno del comporto. Secondo tale sentenza, l’interpretazione dell’art. 2110, comma 2, c.c. non consente soluzioni diverse, trattandosi di norma imperativa volta a tutelare il diritto al lavoro ed alla salute. Infatti, per la sentenza, la salute non può essere protetta nel modo adeguato se non all’interno di tempi sicuri entro i quali il lavoratore, ammalatosi o infortunatisi, possa avvalersi delle opportune terapie senza
il timore di perdere il posto di lavoro.
Sulla base delle suddette motivazioni, la Suprema Corte ha quindi accolto il ricorso della lavoratrice dichiarando nullo il licenziamento.
Cass., sez. Penale, 20 settembre 2022, n. 34600
Angela Lavazza, Consulente del lavoro in Milano
Avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame di Pavia, l’Amministratore di una società ricorre contro il sequestro preventivo e, in mancanza di capienza della società, alla confisca diretta della somma qualificata come profitto del reato di caporalato. Il procedimento aveva preso avvio inizialmente dalle presunte irregolarità (turbata libertà degli incanti e frode nelle pubbliche
amministrazioni) della gara di appalto deliberata dall’ASST di Pavia, la cui aggiudicazione aveva condotto all’assunzione di servizi di trasporto sanitario presso vari presidi ospedalieri, disseminati su tutto il territorio nazionale.
Nel proseguo delle indagini, vennero altresì raccolti elementi deponenti per l’attività di caporalato, nell’esecuzione dei servizi di trasporti sanitari, nei confronti del personale impiegato in detti servizi.
Il ricorrente, tra i motivi del ricorso, contesta, sotto il profilo della violazione della legge penale, il fumus del reato di caporalato (art.603-biscod. pen.) lamentando che il Tribunale del riesame aveva confuso l’elemento dell’indice di sfruttamento con l’altro distinto elemento, dell’approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori sfruttati.
Il Collegio pavese, secondo il ricorrente, avrebbe omesso di considerare la nozione di “stato di bisogno”, non derubricabile a qualunque situazione di “bisogno di lavorare per vivere” ma, necessariamente connessa a condizioni di oggettiva indigena materiale, tale da rendere la vittima oggettivamente e particolarmente vulnerabile. Secondo l’interpretazione del ricorrente, la gravità delle sanzioni previste per il reato di caporalato dovrebbe rendere evidente la necessità di non estendere il perimetro della norma oltre la lettera e lo spirito della norma stessa.
La Suprema Corte però evidenzia come nell’ordinanza impugnata sono presenti numerose dichiarazioni di lavoratori dipendenti che depongono sia per una condizione di oggettivo sfruttamento, soprattutto sul piano dell’orario di lavoro a fronte del salario corrisposto e a quello previsto dal Ccnl, delle poche giornate libere e dell’assenza di retribuzione per lavoro straordinario oltre a marcati scostamenti rispetto alle condizioni pattuite, sia per la sussistenza di condizioni di oggettivo bisogno dei lavoratori.
La Suprema Corte configura il fumus commissi delicti,la probabilità di effettività del reato e pertanto conferma quanto disposto nell’istanza impugnata ai fini cautelari.
Conferma inoltre che, ai fini dell’integrazione del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, lo stato di bisogno non va inteso come uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, bensì come una situazione di grave difficoltà, anche temporanea,
tale da limitare la volontà della vittima e da indurla ad accettare condizioni di lavoro particolarmente svantaggiose. Il ricorso è rigettato.
Cass., sez. Lavoro,21 settembre 2022, n. 34968
Elena Pellegatta, Consulente del lavoro in Milano
È comunque condannabile il datore di lavoro che, nell’infortunio del proprio dipendente, non si è adoperato a prevenire prassi contra legem, causa dell’infortunio, pur essendone a conoscenza.
A tale assunto arrivano gli Ermellini della suprema corte di Aosta nel valutare l’evento occorso al dipendente della ditta s.n.c. che si sarebbe procurato le lesioni, dalle quali conseguiva una malattia di durata stimata in 133 giorni, cadendo da una scala ove era salito per prelevare un profilato in PVC lungo 650 cm. e del peso di circa 9,5 kg. L’addebito mosso al datore di lavoro é di avere agito con negligenza, imprudenza, imperizia nonché con violazione dell’art. 37 del D.lgs. n. 81/2008, non avendo fornito al dipendente un’adeguata informazione sull’utilizzo corretto della scala. Il Tribunale aostano di appello aveva escluso, in realtà, che potessero imputarsi al datore di lavoro condotte omissive in punto di informazione sull’impiego della scala in quanto il lavoratore era caduto dalla scala nell’espletamento di mansioni esulanti dai suoi compiti e si era posizionato in modo scorretto sulla scala su indicazioni di altro soggetto.
Nel giudizio d’appello, instauratosi a seguito di impugnazione del Procuratore generale territoriale, si affermava la penale responsabilità dell’azienda datrice di lavoro, valorizzando il fatto che per il lavoratore salire sulla scala era una consuetudine, pur al di fuori delle sue mansioni; e che tale consuetudine era certamente conosciuta dal datore di lavoro che non aveva mai interdetto al lavoratore l’uso della scala.
Contro la sentenza impugna il datore di lavoro adducendo tre motivi in valutazione ai giudici. Con il primo motivo, la ricorrente ditta denuncia il fatto che al dipendente era occorso un precedente infortunio in occasione di attività sportiva, praticato in passato, con conseguenze lesive sullo stesso ginocchio del lavoratore, che aveva comportato un prolungamento dello stato di malattia. Tale motivo viene giudicato infondato, in quanto già trattato dalla
Corte di merito, con argomentare logico e coerente, e la presunta influenza aggravante sul ginocchio leso viene definita come puramente congetturale e non dimostrata.
Con il secondo motivo la deducente lamenta vizio di motivazione con riguardo all’assunto secondo il quale la stessa avrebbe mostrato disinteresse verso le procedure operative seguite dai suoi dipendenti. Anche questo motivo viene considerato infondato, in quanto in tema di prevenzione di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro deve vigilare per impedire l’instaurazione di prassi contra legem foriere di pericoli per i lavoratori e che il formarsi di tali prassi, conosciute o conoscibili da parte dello stesso datore di lavoro, determina la responsabilità dello stesso per gli incidenti eventualmente occorsi ai lavoratori in dipendenza di esse.
Con in terzo motivo, nuovo, la ricorrente lamenta violazione di legge per la mancata concessione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, deducendo che vi erano tutte le condizioni per il riconoscimento dell’istituto. Anche questo motivo è inammissibile, proprio in quanto nuovo. Infatti i motivi dell’impugnazione davanti agli Ermellini devono consistere nei capi o nei punti della decisione impugnata già investiti dall’atto di impugnazione originario, ed il requisito della novità deve essere attinente ai motivi (vale a dire alle ragioni che illustrano ed argomentano il gravame, in relazione ai singoli capi o punti della sentenza impugnata, già censurati nel ricorso) e non deve servire ad introdurre nuovi capi o punti di impugnazione,
in spregio al termine temporale previsto per la presentazione del ricorso.
Pertanto, viene confermata la condanna del datore di lavoro al pagamento di un’ammenda e delle spese processuali.