Sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale: facciamo un po’ di chiarezza

di Chiara Julia Favaloro e Riccardo Vannocci, Avvocato e Consulente del Lavoro in Milano, Consulente del Lavoro in Milano

 

Con sentenza n.194 emessa in data 26.09.2018 la Corte Costituzionale ha sovvertito il metodo di calcolo dell’indennità per licenziamento illegittimo, dichiarando l’illegittimità dell’art. 3, co. 1, del D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 nella parte in cui determina tale indennità in un «importo pari a due mensilità dellultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio». Al fine di comprendere le ragioni che hanno condotto a tale decisione, occorre, tuttavia, fare un po’ di chiarezza e premettere i fatti di causa, nonché riepilogare i punti salienti della sentenza, alla luce delle motivazioni pubblicate in data 8.11.2018.

La sig.ra F. S., assunta in data 11.5.2015, è stata licenziata per giustificato motivo oggettivo in data 15.12.2015 a seguito di problematiche di carattere economico-produttivo che non hanno consentito il proseguimento del suo rapporto di lavoro.

La lavoratrice ha impugnato il licenziamento intimatole avanti il Tribunale di Roma. Il Giudice del Lavoro, con ordinanza 26 luglio 2017, n. 195 ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, co. 7, lett. c), della L. 10 dicembre 2014, n.183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro) e degli artt. 2, 3 e 4 del D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della L. 183/2014), in riferimento agli artt. 3, 4, co. 1, 35, co. 1, 76 e 117, co. 1, Cost. – questi ultimi due articoli in relazione all’art. 30 CDFUE (Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea), alla Convenzione sul licenziamento n. 158 del 1982 (Convenzione sulla cessazione della relazione di lavoro ad iniziativa del datore di lavoro), adottata a Ginevra dalla Conferenza generale dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) il 22 giugno 1982 (e non ratificata dall’Italia) e all’art. 24 della Carta sociale europea.

Il Giudice rimettente ha ritenuto dedurre quattro diverse questioni, di cui solo l’ultima – e più significativa – è stata dichiarata fondata ed ammissibile.

In primo luogo, con riferimento all’art. 3, co. 1, del D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, il Giudice rimettente ha dedotto la violazione del principio di eguaglianza in ragione della disparità di trattamento tra i lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015, sostenendo che la predetta norma tuteli questi ultimi in modo “ingiustificatamente deteriore rispetto a coloro che, nella medesima azienda, siano stati assunti in data anteriore.

La Corte Costituzionale ha ritenuto infondato tale motivo, sulla base del fatto che il Giudice rimettente non ha censurato la disciplina sostanziale dei regimi, bensì il criterio di applicazione temporale della norma stessa. In tal senso, dunque, la Corte ha ritenuto non sussistente alcun deterioramento ai danni dei lavoratori in ragione della loro data di assunzione, posto che “il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche e che lo scopo del Legislatore all’epoca dell’introduzione del Jobs Act era proprio quello di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro.

In secondo luogo, con riferimento alla medesima norma, il Giudice rimettente ha nuovamente dedotto la violazione del principio di eguaglianza in ragione della disparità di trattamento tra i lavoratori privi di qualifica dirigenziale ed i dirigenti assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, sostenendo che quest’ultimi, in ragione dell’inapplicabilità della nuova disciplina al loro rapporto di lavoro, continueranno a godere di indennizzi di importo minimo e massimo ben più consistenti.

La Corte ha ritenuto anche tale motivo infondato in quanto il dirigente, pur rientrando, per espressa previsione dell’art. 2095, co. 1 c.c., tra i lavoratori subordinati, si caratterizza per alcune significative diversità rispetto alle altre categorie contrattuali e, pertanto, non sussiste alcun contrasto con l’art. 3, co. 1 del D.lgs. 4 marzo 2015, n.23.

Con la terza questione il Giudice rimettente ha dedotto la violazione delle disposizioni costituzionali di cui agli artt. 76 e 117, co. 1, per il tramite del parametro interposto dell’art. 30 della CDFUE, secondo cui Ogni lavoratore ha diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto dellUnione Europea e alle legislazioni e prassi nazionali”.

La Corte Costituzionale ha dichiarato infondata anche tale questione, specificando che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sia invocabile in un giudizio di legittimità costituzionale qualora la fattispecie oggetto di legislazione interna sia disciplinata dal diritto europeo – in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione – e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto.

Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto, tra l’altro, che nessun elemento consentisse di ritenere che la censurata disciplina dell’art. 3, co. 1, del D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 fosse stata adottata in attuazione del diritto dell’Unione Europea, in particolare, per attuare disposizioni nella materia dei licenziamenti individuali, né che fosse stata adottata in attuazione della Direttiva n. 98/59/CE (Direttiva del Consiglio concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi). La quarta ed ultima questione, in conclusione, è l’unica che la Corte Costituzionale ha ritenuto fondata.

Il Giudice rimettente ha dedotto che l’art. 3, co. 1,del D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, prevedendo una tutela rigida e inadeguata contro i licenziamenti ingiustificati, violasse gli artt. 3, 4, co. 1, 35, co. 1, e 76 e 117, co. 1, Cost. (questi ultimi due articoli in relazione all’art. 24 della Carta sociale Europea, secondo cui “Tutti i lavoratori hanno diritto ad una tutela in caso di licenziamento”).

La Corte Costituzionale ha dichiarato che l’art. 3, co. 1, del D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, nella parte in cui determina l’indennità in un importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio “non realizza un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell’ impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dallaltro”.

 

La Corte, in conclusione, ha ritenuto che la previsione di una tutela economica, calcolata sulla base di un principio matematico, potrebbe non costituire adeguato ristoro del danno prodotto dall’illegittimo licenziamento, né tantomeno un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente.

È quindi rimessa al Giudice la quantificazione dell’indennità, che seppur nel rispetto dei limiti minimo e massimo individuati dal Jobs Act (come modificati dalla L. 9 agosto 2018, n. 96), dovrà tenere conto dell’anzianità di servizio, nonché di altri criteri individuabili nel numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti.

Ferma, dunque, l’infondatezza delle prime tre questioni, seppur afferenti alla medesima norma, la sentenza della Corte Costituzionale ha comportato la caduta di uno dei pilastri fondamentali del Jobs Act, finalizzato, tra l’altro, a garantire ex ante al datore di lavoro la puntuale determinazione dell’indennità spettante al proprio dipendente in caso di licenziamento.

Assistiamo, dunque, ad un ritorno alla discrezionalità – seppur limitata nel minimo e nel massimo – del Giudice nella determinazione dell’indennità.

In attesa di conoscere le future (e, speriamo, tempestive) “mosse” del Legislatore, i datori di lavoro saranno chiamati nuovamente a consultarsi con giuslavoristi ed esperti in materia al fine di limitare la corsa al contenzioso da parte dei lavoratori licenziati.