Il tema della contrattazione è un tema centrale se non il tema chiave nella questione del salario minimo. Tema, quello del salario minimo, che non viene certamente affrontato in questi tempi per la prima volta e, anzi, è un tema del lavoro tra i più dibattuti.
Un tentativo di introdurlo nel nostro ordinamento vi era già stato, col Jobs act (la Legge delega n. 183/2014), ma nessuno dei conseguenti decreti legislativi vi ha poi dato seguito. L’argomento ha trovato nuovo vigore a seguito dell’approvazione della Direttiva UE del 19 ottobre 2022, la numero 2041. E partendo da questa Direttiva si può dare una lettura molto interessante.
Quando si legge o si sente della Direttiva europea, sembra che questa abbia come scopo esclusivo l’introduzione presso gli Stati membri di un salario minimo legale, seppure volontariamente.
In realtà, l’obiettivo posto dall’Europa non è esclusivamente questo.
C’è una parte della Direttiva di cui si parla poco, probabilmente perché non “rende” come slogan e giornalisticamente.
Parlo dell’articolato del Capo I e anche di alcuni “considerando”, in particolare i numeri 22, 23 e 25, da cui si evince che lo scopo della Direttiva è quello – sì – di fissare un quadro di procedure per quegli Stati che decidono facoltativamente di prevedere dei salari minimi, ma, ancor meglio, di valorizzare al massimo e rendere esigibili e applicabili i contratti collettivi, facilitandone lo sviluppo e il rafforzamento.
L’obiettivo europeo è quello di far sì che in ciascuno Stato membro almeno l’80% dei lavoratori sia coperto da Contratto Collettivo e, quindi, lo scopo reale è quello di valorizzare e promuovere la contrattazione collettiva.
Questo obiettivo è abbondantemente raggiunto dal nostro Paese e ciò rende il nostro sistema già conforme alla Direttiva.
In particolare, poi, vengono svolte alcune considerazioni di rilievo che possono così riassumersi: i salari medi negli Stati membri in cui non è previsto un salario minimo legale e che sono coperti da una diffusa contrattazione collettiva sono tra i più alti dell’UE. Questo conferma che la risposta più efficace alla questione del salario minimo sta proprio nella contrattazione collettiva e nella valorizzazione erga omnes dei trattamenti economici e degli istituti di welfare contrattuale previsti dai Ccnl stipulati da chi rappresenta realmente il mondo del lavoro e il mondo delle imprese.
L’individuazione di un salario minimo orario per legge, infatti, andrebbe a discapito della più diffusa applicazione dei contratti collettivi leader, che già svolgono il loro ruolo di “autorità salariale” e rappresentano il reale valore economico (tra l’altro, un inciso: quale Ccnl prevede la retribuzione come valore orario? Tutti i Ccnl prevedono la retribuzione mensilizzata, quindi il dato orario è comunque fuorviante). Peraltro, diventerebbe concreto il rischio che un numero importante di imprese (probabilmente quelle più in difficoltà e con comportamenti già al limite) possano sentirsi legittimate da un salario minimo legale a non applicare più la contrattazione collettiva e magari ridurre i salari per i neoassunti. Il rischio concreto è quello di una fuga dai contratti e dai sistemi più rappresentativi, ➤ che porterebbe allo sfarinamento delle regole applicate e, di conseguenza, paradossalmente, costituirebbe un danno per gli stessi lavoratori, anche con differenze nella regolamentazione dei rapporti di lavoro sia all’interno dei medesimi settori economici, ma anche, addirittura, tra i diversi territori. Vi è il rischio di un appiattimento delle retribuzioni con una conseguente perdita del potere d’acquisto dei lavoratori e dunque un abbassamento dei consumi, che inciderebbe negativamente sulla tenuta economica delle imprese dando vita ad una sorta di “spirale” – negativa – viziosa.
È una narrazione troppo semplicistica quella offerta dai fautori del salario minimo, buona per titoli di giornale o slogan ad effetto.
Si è giustamente sostenuto che la contrattazione collettiva sia un’ampia istituzione economica e politica che si è assunta il compito di costruire e far funzionare i moderni mercati del lavoro, coniugando le ragioni della produzione con quelle della redistribuzione del valore.
Le relazioni sindacali costituiscono veri e propri sistemi capaci di tutelare e promuovere la crescita e lo sviluppo dei settori rappresentati: indebolire la contrattazione collettiva significa mettere in crisi questi sistemi, a danno dei lavoratori e delle imprese. La contrattazione collettiva non è solo salario, ma anche tutta una serie di istituti contrattuali che le conferiscono qualità e valore: sanità integrativa, previdenza complementare, servizi e sussidi della bilateralità territoriale che colmano il vuoto lasciato dalle istituzioni, formazione, mensilità supplementari oltre la 13^, permessi retribuiti ecc.
Ridurla al solo salario significa renderne una visione miope e parcellizzata, salvo non coltivare l’obiettivo di una sostanziale disintermediazione dei corpi intermedi (già tentata in passato).
Anche il CNEL sottolinea che occorre favorire il pieno sviluppo della contrattazione per rispondere in maniera strutturale e con soluzioni di medio e lungo periodo alle criticità del tema del salario.
Peraltro, occorre fare chiarezza su un punto importante, proprio partendo dai dati del CNEL.
Si parla spesso di “contratti collettivi pirata” e questo fenomeno va certamente contrastato, ma è bene analizzare i dati Inps e CNEL elaborati sulla base dei flussi Uniemens, dai quali emerge che nonostante i quasi 1.000 contratti depositati al CNEL, dei quali solo la minoranza sono firmati dalle federazioni di CGIL, CISL e UIL, al 97% dei lavoratori del settore privato vengono applicati proprio questi ultimi e tutti questi prevedono retribuzioni superiori, ai livelli più bassi, di 9 euro/ora.
Il punto focale della questione – lo ribadisco – è proprio rafforzare il ruolo di questa contrattazione: quella esercitata dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative!
Soltanto una serie di misure volte a valorizzare la rappresentanza potrebbe risolvere la questione del lavoro povero e la piaga del dumping contrattuale.
Da dove partire?
Si potrebbe immaginare una soluzione articolata, partendo dagli accordi interconfederali e dalle norme di legge già esistenti:
E non dimentichiamo che sul tema c’è già qualche precedente legislativo:
Individuate pertanto le organizzazioni comparativamente più rappresentative si individuerebbero di conseguenza i c.d. Ccnl leader ai quali andrebbe riconosciuta efficacia erga omnes.
Non mi nascondo le difficoltà insite in questo percorso, soprattutto il tema della perimetrazione settoriale dei Ccnl in quei settori dove si sovrappongono Ccnl che insistono sul medesimo campo di applicazione e sottoscritti da federazioni sindacali afferenti alle medesime confederazioni. Ma – per quanto spinoso – questo è un tema che bisogna avere il coraggio di affrontare.
Ancora alcune ultime considerazioni. Tra i firmatari di alcune proposte di legge in materia di salario minimo, alcuni ritengono che la previsione di un salario minimo per legge serva a contrastare il lavoro povero e i contratti pirata.
L’obiettivo in sé è condivisibile. Ma, oltre a quanto già detto riguardo ai contratti pirata, per quanto riguarda il tema del “lavoro povero” le azioni di contrasto, in realtà, andrebbero indirizzate altrove, ossia principalmente nelle aree di lavoro irregolare, laddove si registra una significativa quantità di lavoratori poveri: il lavoro nero, i falsi lavoratori autonomi, i falsi tirocini, le esternalizzazioni illecite (distacchi o somministrazione fraudolenta).
Queste pratiche sono quelle che realmente creano la “questione salariale”, ma anche in questo caso l’introduzione di un salario minimo non garantirebbe una reale maggiore effettività: chi viola già oggi la normativa (non applicando i salari contrattuali) non si vede perché dovrebbe applicarla domani.
La vera azione di contrasto dovrebbe realizzarsi, sotto questo profilo, attraverso il rafforzamento di controlli più mirati e di ispezioni sul territorio: occorre applicare (e far applicare) le regole, intensificare i controlli, rafforzare i meccanismi di contrasto all’uso irregolare dei contratti nonché provvedere all’allineamento del sistema informatico COB col sistema della Banca dati CNEL – Inps per quanto riguarda i codici contratto.
Legato al tema del salario minimo resta in qualche modo anche il tema della riduzione del costo del lavoro.
La crescita dei salari – che dipende anzitutto dal rafforzamento della dinamica della produttività – potrebbe certamente trarre giovamento da incisive misure strutturali di riduzione del cuneo fiscale e contributivo gravante sui redditi da lavoro e da interventi di detassazione degli aumenti contrattuali. In questa direzione occorre sostenere le proposte
Da ultimo, noi esprimiamo forte contrarietà relativamente alla proposta contenuta in vari disegni di legge riguardante l’adeguamento automatico all’inflazione della retribuzione minima legale e/o della retribuzione prevista dai contratti collettivi scaduti.
Questo per due motivi:
innanzitutto, perché riporterebbe la contrattazione all’utilizzo del sistema della “scala mobile” da cui scaturì (anni ’70/’80) una spirale prezzi-salari che alimentò fortemente l’inflazione
e, inoltre,
gli indici dei prezzi individuati sono diversi rispetto a quello che tutte le parti sociali hanno convenuto in fase di rinnovo del Ccnl, a partire dal 2009, ovvero l’IPCA, al netto dei beni energetici importati.