La Corte di Cassazione torna sul rapporto tra demansionamento e risarcimento dei danni con la sentenza n. 330 pubblicata il 10 gennaio 2018, ribadendo che il lavoratore, qualora venga assegnato a mansioni inferiori, abbia diritto al risarcimento dei danni sia sul piano patrimoniale sia su quello non patrimoniale.
La sentenza in commento si inserisce principalmente nel solco della più significativa produzione nomofilattica ad opera della Sezioni Unite che, attraverso quattro significative pronunce (Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972; Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26973; Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26974; Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26975) ha delineato la complessa e dibattuta materia relativa alla risarcibilità del danno non patrimoniale nel caso di intervenuto demansionamento.
In particolare, la Corte ha affrontato il caso di un dirigente che, collocato in una stanza senza alcuna possibilità di utilizzare un computer, dopo un periodo di tre anni, ha rassegnato le dimissioni per giusta causa rivendicando la dequalificazione professionale.
Il datore di lavoro, ricorrendo avverso la sentenza dei giudici di merito, si affidava a sei motivi di impugnazione, fra i quali si annoverano la denuncia della violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., in punto di asserito danno derivante da demansionamento, nonché sull’omessa motivazione in merito alla prova della sussistenza della gravità dell’inadempimento datoriale, da cui hanno tratto fondamento le dimissioni per giusta causa del dipendente.
Il motivo di impugnazione in ordine alla risarcibilità del danno non patrimoniale, così come formulato, ha obiettato la decisione dei giudici di merito nella parte in cui avrebbero ritenuto il danno alla professionalità, insito al fatto stesso della dequalificazione.
Per quanto riguarda la risarcibilità dei danni non patrimoniali, la sentenza n. 330/2018 ha ribadito che il danno non patrimoniale è risarcibile laddove l’inadempimento contrattuale (nel presente caso di un contratto di lavoro) abbia determinato, oltre alla lesione di beni patrimoniali, anche un pregiudizio a beni di natura immateriale.
Con un esplicito richiamo alle Sezioni Unite, la Corte ha attribuito adeguato rilievo alla dignità personale del lavoratore – quale diritto inviolabile – con particolare riferimento agli artt. 2, 4 e 32 della Costituzione. Proprio da una interpretazione dei predetti articoli, infatti, deriva la lesione di tale dignità e professionalità da parte di comportamenti datoriali dequalificanti, che si risolvono nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall’impresa.
La sentenza ha inoltre sottolineato come l’esigenza di accertare se, in concreto, il contratto che si assume violato, tenda anche a realizzare interessi non patrimoniali “viene meno nel caso in cui l’inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge, come appunto nel caso del contratto di lavoro, da considerare ipotesi di risarcimento dei danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista”.
Pertanto, fermi gli oneri di allegazione e prova gravanti su chi assume aver subìto un pregiudizio, la liquidazione del danno non patrimoniale, per la sua peculiarità, è definita secondo criteri equitativi. Per cui, stante l’approssimazione del “quantum”, la Corte ritiene che la quantificazione del danno, così operata, sia immune da censura, se non in presenza di “mancanza di motivazione che ne sorregga la statuizione o di macroscopico discostamento da dati comuni di esperienza o radicale contraddittorietà di motivazione”.
Ebbene, proprio la durata pluriennale della dequalificazione, consistita nella collocazione del dipendente in una stanza priva di computer ed in assenza di compiti da poter espletare, ha fondato il convincimento espresso dai giudici di merito circa “l’esistenza di un danno inferto alla professionalità del lavoratore, atteso che la duratura a mansioni non equivalenti ha impedito allo stesso di esercitare il quotidiano diritto di professionalizzarsi lavorando, cagionando, secondo un criterio eziologico di normalità sociale, il progressivo impoverimento del suoi bagaglio di conoscenze e di esperienze”.
La motivazione ha, peraltro, giustificato anche le dimissioni per giusta causa rese dal lavoratore, in considerazione del principio già espresso dalla Corte con una richiamata sentenza (Cass. n. 18121/2014) secondo cui, la durata della dequalificazione ed il conseguente inadempimento contrattuale, siano elementi idonei a giustificare le dimissioni del dipendente. La Corte, anzi, si spinge oltre, affermando che il protrarsi nel tempo di una determinato comportamento datoriale, non può comunque essere inteso quale mera acquiescenza del lavoratore. In conclusione, la dequalificazione professionale appartiene all’alveo della responsabilità contrattuale, trattandosi di un inadempimento da parte del datore di lavoro, tale da generare danni patrimoniali e, per la Suprema corte, non patrimoniali da perdita della professionalità, la cui quantificazione, a differenza di quello che riguarda i danni patrimoniali, non può mai essere oggetto di esatta commisurazione, ma di prudente approssimazione ad opera del giudice.