REINTEGRA O INDENNITÀ RISARCITORIA NEL REPÊCHAGE: SCONTRO FRA TITANI

Emilia Scalise, Consulente del lavoro in Milano

“Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita” (cit. Dante Alighieri – La Divina Commedia. L’inferno).

E’ proprio così. Per noi professionisti e operatori del diritto è diventato sempre più difficile supportare le aziende e i lavoratori a causa di mutamenti legislativi (e non solo) sempre più frequenti, poco chiari e contrastanti fra loro. Qui l’attenzione di chi scrive si pone su un tema ostico e che abbraccia l’area del licenziamento per giustificato motivo oggettivo: parliamo dell’obbligo di repêchage. Già un anno fa (Rivista Sintesi numero aprile 2023 e maggio 2023) abbiamo provato a far chiarezza ripercorrendo quella che è stata l’evoluzione di questo pilastro giurisprudenziale. Tuttavia, oggi ci ritroviamo a dover riprendere in mano la questione, alla luce della recente sentenza della Corte Costituzionale (n. 128 del 16 luglio 2024), in quanto i giudici costituzionali non si sono limitati a giudicare sulla legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2 del D.lgs. n. 23/2015, nella parte in cui non è prevista la reintegra per il giustificato motivo oggettivo di licenziamento in presenza di “insussistenza del fatto materiale”, ma sono intervenuti anche sul repêchage, mescolando nuovamente le carte in tema di tutela applicabile in caso di violazione di tale obbligo.

OBBLIGO DI REPÊCHAGE – DEFINIZIONE E AMBITO DI APPLICAZIONE

Con obbligo di repêchage si intende l’onere, in capo al datore di lavoro che intende procedere con un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, di verificare la possibilità di adibire il prestatore di lavoro a diverse mansioni, senza che ciò comporti alterazioni della struttura organizzativa. Sul datore di lavoro, quindi, non incombe solo l’obbligo di dimostrare il nesso causale tra il licenziamento individuale e le effettive esigenze di carattere produttivo e organizzativo, ma soggiace anche quello di provare l’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre posizioni lavorative presenti nell’organizzazione aziendale. Essendo un’invenzione di matrice puramente giurisprudenziale, i giudici di legittimità nel tempo ne hanno delineato il perimetro, con particolare riferimento all’ambito di applicazione. Ad esempio, il datore di lavoro non è tenuto ad alcuna variazione della propria struttura organizzativa al fine di ricollocare il dipendente licenziato: la verifica dell’avvenuto adempimento dell’obbligo di repêchage si svolge avendo riguardo all’organizzazione datoriale come articolata al tempo stesso del licenziamento1. Inoltre, il tentativo di repêchage deve avvenire nell’ambito dell’intero complesso aziendale e non soltanto nell’unità produttiva dove il lavoratore è impiegato, dando anche rilievo al fenomeno dei gruppi o del collegamento societario, laddove si dimostri la sussistenza di un unico centro di imputazione dei rapporti giuridici2 . Con riferimento alle potenziali mansioni a cui adibire il lavoratore interessato dal licenziamento, per adempiere all’obbligo di repêchage, inizialmente la giurisprudenza aveva circoscritto il raggio d’azione alle c.d. mansioni equivalenti. Con le modifiche apportate dal Jobs Act all’art. 2103 del Codice civile, l’ambito applicativo è stato prima esteso alle mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria di inquadramento delle ultime effettivamente svolte, per poi includere anche le mansioni inferiori, in assenza di quelle equivalenti, al fine di preservare il posto di lavoro3. L’obbligo di repêchage non si limita solo alle posizioni già presenti in azienda: infatti la Cassazione ha ritenuto legittimo estendere l’ambito di applicazione anche con riferimento alle posizioni prossime vacanti4 . Nello specifico, i giudici hanno stabilito che se nel breve periodo successivo al licenziamento l’azienda procede a nuove assunzioni per ricoprire mansioni equivalenti a quelle svolte dal dipendente licenziato, opera una presunzione di illegittimità del licenziamento stesso. Inoltre, la possibilità di ricollocazione del lavoratore, prima di procedere al suo licenziamento, deve prendere in esame anche quelle posizioni lavorative che, pur ancora coperte, si renderanno disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso5.

VIOLAZIONE DELL’OBBLIGO DI REPÊCHAGE E REGIME SANZIONATORIO PRIMA DELL’ULTIMO INTERVENTO COSTITUZIONALE

Già nel 2022 la Corte Costituzionale era intervenuta indirettamente sull’obbligo di repêchage esprimendosi sull’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Nello specifico, con la sentenza del 25 maggio 2022, n. 125, la Corte Costituzionale, con riferimento all’art. 18 della Legge n. 300/1970, al punto 5.1 del considerato in diritto, richiamava all’attenzione un’altra sentenza della stessa illustrissima Corte (sentenza n. 59/2021), la quale affermava che “Quanto al licenziamento per giustificato motivo oggettivo connesso a ragioni economiche, produttive e organizzative […], il ripristino del rapporto di lavoro, con un risarcimento fino a un massimo di dodici mensilità, è circoscritto all’ipotesi della manifesta insussistenza del fatto […]. Tale requisito […] si correla strettamente ai presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo […]. Tali sono da intendersi le ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento, il nesso causale che lega il recesso alle scelte organizzative del datore di lavoro e, infine, l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore”. Pertanto, riconducendo l’obbligo di repêchage come un elemento costitutivo circa la valutazione della sussistenza del fatto alla base del licenziamento, la Corte Costituzionale aveva esteso la tutela reale alla violazione di tale obbligo.

IL NUOVO ORIENTAMENTO COSTITUZIONALE

Proprio ora che sembrava tutto un po’ più chiaro, la Corte Costituzionale è intervenuta nuovamente sul tema del repêchage, questa volta chiamata a esprimersi sulla legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2 del D.lgs. n. 23/2015, nella parte in cui non è prevista la reintegra per il giustificato motivo oggettivo di licenziamento in presenza di “insussistenza del fatto materiale”. La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dal Tribunale di Ravenna a seguito dell’impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo da parte di un lavoratore assunto presso un’agenzia di somministrazione. Il licenziamento era stato giustificato dall’assenza di ulteriori prospettive di reimpiego, all’esito dell’infruttuoso esperimento della procedura di messa in disponibilità per mancanza di occasioni di lavoro (MOL), di cui all’art. 25 del Ccnl per la categoria delle agenzie di somministrazione di lavoro del 15 ottobre 2019. Il rimettente osservava che la presenza di plurime offerte di potenziale e concreto interesse per il ricorrente, poi effettivamente trasformate in contratti di somministrazione, stipulati con aziende del territorio realmente interessate ad utilizzare un lavoratore, senza che ad alcuna di esse venisse proposto il suo nominativo, integrava una fattispecie idonea a configurare “l’insussistenza del fatto” posto a giustificazione del licenziamento. Trovando applicazione l’art. 3 del D.lgs. n. 23 del 2015, nell’insussistenza dei motivi fondanti il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il Tribunale di Ravenna dubitava della legittimità costituzionale di tale disposizione nella parte in cui esclude la reintegrazione nel posto di lavoro in presenza di accertata insussistenza del fatto, con conseguente applicazione della tutela indennitaria. I giudici costituzionali si sono espressi favorevolmente, sostenendo l’illegittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 2 del D.lgs. n. 23/2015, nella parte in cui non prevede la tutela reale per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, laddove in giudizio fosse accertata l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro. Quindi, in linea di massima, la Corte ha allineato il suo orientamento attuale con quello iniziale (sentenza n. 125/2022), con riferimento alla medesima fattispecie, ma alla tutela posta dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Nello specifico, al punto 5.1 del considerato in diritto della sentenza n. 125/2022, la Corte aveva stabilito che “Quando sia manifesta l’insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento, opera la tutela reintegratoria, oggi non più facoltativa in seguito all’intervento correttivo di questa Corte”. A differenza, però, della sentenza n. 125/2022, dove la Corte aveva ritenuto che la reintegrazione fosse quale conseguenza necessaria della violazione dell’obbligo di repêchage, con la sentenza in esame i giudici costituzionali cambiano drasticamente direzione, ritenendo quale unica tutela applicabile in caso di violazione di tale obbligo quella indennitaria. In particolare, al punto 16 del considerato in diritto, la Corte ha stabilito che “la giustificatezza del licenziamento per giustificato motivo oggettivo richiede […] che il lavoratore non sia utilmente ricollocabile in azienda in altra posizione lavorativa (obbligo di repêchage). Il licenziamento è pur sempre un’extrema ratio, sì che, quando c’è la possibilità di ricollocamento, ciò è rilevante al fine della valutazione di illegittimità del licenziamento nel senso che la realizzazione della ragione d’impresa, allegata dal datore di lavoro, pur se fondata su un “fatto materiale sussistente”, non avrebbe richiesto, però, necessariamente, nel caso concreto, l’espulsione del lavoratore licenziato. In tale evenienza, il fatto materiale, allegato come ragione d’impresa, sussiste ma non giustifica il licenziamento perché risulta che il lavoratore potrebbe essere utilmente ricollocato in azienda. Però – in ragione di una scelta di politica del lavoro fatta dal legislatore con il cosiddetto Jobs Act (legge n. 183 del 2014), che ha ridotto la portata della tutela reale – si fuoriesce dall’area della tutela reintegratoria attenuata del comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, il cui perimetro applicativo, come nell’ipotesi del licenziamento disciplinare, è segnato dall’“insussistenza del fatto materiale”. Né si riproduce il vizio di illegittimità costituzionale, del quale si è finora argomentato, proprio perché il licenziamento è comunque fondato su un “fatto sussistente”, ancorché il recesso datoriale sia poi illegittimo sotto un profilo diverso (quello della verificata ricollocabilità del lavoratore). La tutela allora è quella solo indennitaria di cui al comma 1 dello stesso art. 3”. Con tale pronuncia, dopo aver messo in discussione quanto previsto dal Jobs Act, la Corte conclude chiarendo che la violazione dell’obbligo di repêchage va sanzionata con la tutela indennitaria.

CONCLUSIONI

Quali saranno gli effetti derivanti da questa nuova posizione interpretativa? In che modo i giuristi e gli operatori del diritto dovranno affrontare i casi specifici in assenza di un quadro di riferimento chiaro e oggettivo? Non ci resta che aspettare, chi vivrà vedrà.


Scarica l'articolo