La giurisprudenza di legittimità ha sempre messo in guardia dall’indiscriminato esercizio, da parte datoriale, del potere di recedere dal rapporto di lavoro durante il periodo di prova: se infatti è vero che il recesso in tale periodo ha natura discrezionale e dispensa il datore di lavoro dall’onere di specificare e provare la giustificazione ad esso sottesa, è altrettanto vero che il provvedimento espulsivo non può non essere coerente con la causa del patto di prova, che consiste nell’interesse – comune ad entrambe le parti – di verificare la reciproca convenienza alla prosecuzione del contratto. Il periodo di prova consente infatti al datore di lavoro di testare le capacità del lavoratore di assolvere le attività affidategli e di inserirsi efficacemente nel contesto lavorativo; per il lavoratore, invece, il patto è funzionale per valutare l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto[1]. Se questa è la finalità del patto, il corretto esercizio del potere di recesso durante tale periodo presuppone necessariamente (i) la valida stipulazione del patto di prova e quindi l’assenza di vizi per così dire “genetici” dello stesso e (ii) la corretta esecuzione della prova, quindi l’assenza di vizi “funzionali”, legati cioè alle concrete modalità di svolgimento dell’esperimento. Su queste due diverse tipologie di vizio (genetico e funzionale) si è soffermata la Suprema Corte nella recente sentenza pubblicata il 3 dicembre 2018, n. 31159, evidenziando come, al ricorrere dell’uno o dell’altro vizio, il recesso datoriale – parimenti illegittimo – porti a conseguenze sanzionatorie diverse a carico del datore di lavoro.
Prima di esaminare le conclusioni alle quali sono pervenuti i giudici di legittimità con la pronuncia in esame, è opportuno ricordare quando in concreto ricorra un vizio genetico e quando invece un vizio funzionale.
Si parla di vizio genetico quando il patto di prova è carente di uno dei requisiti essenziali per la sua stessa validità, vale a dire:
Ricorrendo un vizio genetico, il patto di prova è radicalmente nullo, come se non fosse mai stato apposto al contratto di lavoro.
Il vizio funzionale invece ricorre quando il patto, pur perfettamente valido dal punto di vista formale e quindi efficace, non venga di fatto adempiuto, come nel caso in cui:
Del resto, la norma di legge che disciplina il patto di prova, ossia l’art. 2096 c.c., pone in capo al datore di lavoro un preciso obbligo: consentire al lavoratore l’esperimento che forma oggetto del patto.
Dunque, solo nell’ipotesi in cui il patto sia validamente stipulato e sia stato correttamente adempiuto, il recesso – tanto datoriale quanto del prestatore di lavoro – potrà essere esercitato liberamente, senza alcun obbligo di preavviso per la parte recedente. In caso contrario, il recesso non sarà né libero, né valido.
Da quanto sin qui esposto ben si comprende che, anche nel corso di tale periodo di instabilità del rapporto, il lavoratore non è del tutto sfornito di tutela: l’esercizio abusivo del potere di recesso da parte datoriale potrà essere eccepito in giudizio e sanzionato.
Ma qual è la sanzione riservata al datore di lavoro in tali casi?
A questa domanda rispondono i giudici di legittimità con la sentenza sopra richiamata, nella quale viene ricordato come il recesso datoriale per mancato superamento della prova conduca a conseguenze sanzionatorie diverse al ricorrere di un vizio genetico o di un vizio funzionale del patto.
In caso di vizio genetico, il mancato superamento della prova posto a fondamento del recesso non integra una giusta causa o giustificato motivo di licenziamento; dunque, in quanto privo di giustificazione, il recesso non potrà che soggiacere alla disciplina ordinaria limitativa dei licenziamenti individuali, con conseguente applicazione – a seconda delle dimensioni occupazionali del datore di lavoro e dalla data di assunzione del dipendente (ante o post tutele crescenti) – dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori o dell’art. 8 della Legge n. 604/66, o – per i rapporti di lavoro instaurati dal 7 marzo 2015 – degli artt. 3 o 8 del D.lgs. n. 23/2015[3].
Diversamente, ove ricorra un vizio funzionale del patto, la parte datoriale si sarà resa inadempiente ad una obbligazione contrattualmente assunta (per l’appunto, al patto di prova), con conseguente diritto del lavoratore di ottenere il risarcimento del danno secondo la disciplina comune di diritto civile. In tale ultimo caso, il lavoratore potrà quindi richiedere al giudice, ove possibile, di proseguire la prova per il periodo residuo mancante al raggiungimento del termine massimo fissato per la prova (risarcimento in forma specifica); ove ciò non sia possibile, perché concluso il periodo di prova, il prestatore di lavoro potrà ottenere il solo risarcimento del danno per equivalente in denaro, spesso parametrato al periodo medio di disoccupazione di un lavoratore operante nel medesimo settore merceologico e della stessa fascia di età, oltre all’eventuale perdita di altre occasioni di lavoro concretamente rifiutate all’epoca dell’assunzione (danno da perdita di chance).
Occorre tuttavia precisare che alle stesse conseguenze sanzionatorie previste in caso di vizio genetico del patto, soggiace il datore di lavoro nel caso in cui il dipendente dimostri il positivo superamento del patto di prova e, quindi, che il recesso si fondi su un motivo illecito, estraneo alla prova, nonché in caso di apposizione del patto di prova ad un contratto di lavoro concluso con un dipendente che abbia già lavorato presso la stessa azienda e sia già stato provato nelle stesse mansioni.
La sentenza in commento infine ribadisce un principio di diritto assolutamente consolidato in materia, ossia che incombe integralmente in capo al lavoratore l’onere di provare in giudizio il vizio che inficia il recesso per mancato superamento del periodo di prova. Sarà dunque il prestatore di lavoro a dover offrire al giudice tutti gli elementi, anche indiziari, per provare l’invalidità del recesso e la sussistenza del vizio che eventualmente inficia il patto.
Raccogliendo l’insegnamento della Suprema Corte possiamo dunque concludere che il licenziamento per mancato superamento del periodo di prova è sì rimesso alla discrezionalità datoriale, ma deve sempre essere ricollegato al patto di prova e alle finalità proprie dello stesso, non potendo essere lo strumento per disfarsi di un rapporto di lavoro non gradito per ragioni diverse, estranee al patto, quali ad esempio un’intervenuta gravidanza o l’insorgenza di una malattia.
[1] Si veda a titolo esemplificativo Cass. Civ., sez. Lavoro, 5 maggio 2015, n. 8934; Cass. Civ., sez. Lavoro,, 13 agosto 2008, n. 21586.
[2] Cass. Civ., sez. Lavoro, 22 febbraio 2018, n. 4341; Cass. Civ., sez. Lavoro, 21 luglio 2015, n. 15229; Cass. Civ., sez. Lavoro, 23 maggio 2014, n. 11582
[3] Si legga, oltre alla sentenza in commento, Cass. Civ., sez. Lavoro, 3 agosto 2016, n. 16214, Cass. Civ., sez. Lavoro, 12 settembre 2016, n. 17921.