“De hoc satis!”: potrebbe essere questa una possibile reazione all’ennesima esposizione di criticità ed abusi nel mondo delle cooperative. E a dire il vero, l’utilizzo dello schermo cooperativo per mascherare fenomeni di caporalato è fenomeno antico, se già nel 1911, con il R.D. 12 febbraio 1911, n. 278[1], il Legislatore si era posto il problema di stabilire paletti e vincoli in ordine tanto alla parità di trattamento tra soci ed ausiliari (non solo relativamente all’obbligo di corrispondere retribuzioni non inferiori ai “salari correnti”, ma anche alla partecipazione ai risultati dello scambio mutualistico), quanto all’impiego di tecnici, impiegati e dirigenti (onde non veder snaturate le modalità di resa della prestazione da parte dei soci). E che questo fenomeno continuasse è dimostrato da come, poco tempo dopo l’entrata in vigore della Legge Basevi[2], il Comitato della Commissione Centrale per la Cooperazione, con pronuncia del 16 settembre 1953[3], si sia preoccupato di ricostruire il fenomeno dell’appalto di manodopera (prima della Legge 23 ottobre 1960, n. 1369), bollandolo con lo stigma dell’illiceità dello scopo sociale[4]. Il resto, ripercorribile lungo una sorta di “cingulum diaboli”, ci porta alla cronaca di questi giorni, con l’ennesimo intervento della giurisprudenza (questa volta amministrativa: Consiglio di Stato – III sez. – sentenza n. 1571 del 12 marzo 2018) a sanzionare l’appalto a cooperative di servizi quando mascheri, in realtà, la somministrazione irregolare, e con la storia, riportata da La Stampa del 3 dicembre 2018[5], di lavoratori “svenduti al minor offerente” nel campo dei servizi a privati, sempre sfruttando “il veicolo” della cooperativa di lavoro.
L’analisi odierna, tuttavia, vuole soffermarsi sulle criticità specifiche (e quindi sugli abusi che da queste possono sorgere) relative ad una tipologia particolare di cooperativa, quale la cosiddetta Cooperativa Sociale. Si tratta di un genere di cooperativa che si affianca a quelle storiche di lavoro e di consumo (o di servizi per i soci), caratterizzate dall’eterodestinazione dei fini: laddove tradizionalmente lo scopo mutualistico era rivolto ai soci (in termini di lavoro, piuttosto che di acquisto di beni e servizi), in queste l’attività si rivolge alla comunità in termini di promozione sociale, culturale e di servizi sociali, sanitari ed assistenziali, oppure a soggetti in condizione di svantaggio fisico e sociale (che non devono necessariamente essere soci) per promuoverne l’inserimento lavorativo, ovvero ad entrambi. È quindi un genus autonomo – e in un certo qual modo “ibrido” come, per chi le ricorda, le cooperative culturali (da cui qualche autore del settore le fa discendere) – rispetto alle tipologie classiche di cooperativa, che il Legislatore vede meritevole di una legislazione speciale che ne fissa tipi, scopi, limiti e controlli, ma anche misure agevolative.
Per onestà intellettuale e chiarezza metodologica è bene sgombrare il campo da ogni equivoco: l’istituto della cooperazione, ed in questo ambito quello specifico della cooperativa sociale, svolge un compito – per modalità e finalità – meritevole di riconoscimento normativo e, in quest’ambito, anche di vedersi riconosciute (quale naturale conseguenza!) misure di tutela ed agevolazioni specifiche. Lo scrivente, d’altronde lo confessa: per trascorsi personali e professionali è sostenitore e fautore del fenomeno cooperativo e, in quanto tale, anche del riconoscimento di misure specifiche per la sua crescita e promozione. Non può tuttavia negarsi che, ove qualcuno guardi a queste misure con “occhio rapace” e con un “animo disinvolto” (per usare un eufemismo) si possa far leva su eventuali criticità e dar luogo ad abusi anche gravi.
L’analisi che segue riguarda in particolare il disposto degli articoli 4 e 5 della Legge 8 ottobre 1991, n. 381, recante la Disciplina delle Cooperative Sociali.
L’ultimo articolo, in particolare, che va letto in coordinamento con il precedente, prevede una deroga importante alla normativa in materia di contratti pubblici per le cooperative sociali di tipo b) – quelle, cioè, che si occupano dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate (di cui proprio all’art. 4 della L. n. 381/1991) – che possono essere destinatarie di affidamenti diretti per la fornitura di beni e servizi.
Statuisce infatti la norma che “gli enti pubblici […], anche in deroga alla disciplina in materia di contratti della pubblica amministrazione, possono stipulare convenzioni con le cooperative che svolgono attività di cui all’articolo 1, comma 1, lettera b) […], per fornitura di beni e servizi diversi da quelli socio-sanitari ed educativi il cui importo stimato al netto dell’IVA sia inferiore agli importi stabiliti dalle direttive comunitarie in materia di appalti pubblici, purché tali convenzioni siano finalizzate a creare opportunità di lavoro per le persone svantaggiate di cui all’articolo 4, comma 1 […]”.
Se si tiene conto di come nel tempo e per lo stratificarsi di norme sullo svantaggio sociale e lavorativo (di derivazione tanto europea quanto nazionale[6] e regionale[7]), la categoria delle “persone svantaggiate” abbia visto un progressivo ampliamento, da ultimo comprendendo anche i migranti a cui sia stata riconosciuta la protezione internazionale[8], e le donne vittime di violenza di genere[9] con misure “ad hoc” quantitativamente analoghe a quelle riguardanti i lavoratori detenuti (che rientrano tra i soggetti di cui all’art. 4 della L. n. 381/1991, pur godendo di agevolazioni contributive diverse da quelle di cui al comma 3 di detto articolo), non è difficile rendersi conto di come l’operatore si trovi davanti ad un tema di particolare complessità laddove debba valutare se sia ancora rinvenibile una cesura tra i soggetti di cui all’articolo 4, comma 1, della L. n. 381/1991 e gli altri portatori di svantaggio, ovvero se il Legislatore, pur adoperando strumenti diversi da quello del D.P.C.M. di cui all’ultima parte del comma 1 del citato articolo 4, non abbia inteso ampliare tacitamente la categoria dei soggetti svantaggiati di cui all’anzidetto articolo.
Né aiuta in questo la giurisprudenza della Suprema Corte che con le sentenze n. 10506/2012 e n. 5472/2005 ha ammesso la possibilità che la cooperativa sociale si avvalga, ai fini della fruizione delle agevolazioni previdenziali, dell’ampliamento della platea delle persone svantaggiate, operata dalla Legislazione regionale, purche’ questa enumeri dettagliatamente le casistiche.
La questione è viepiù resa complessa dalla prassi amministrativa, ed in particolare dalla risposta all’interpello del 20 luglio 2015, n. 17, che in ordine alle modalità di computo dei lavoratori svantaggiati, ex articolo 4, comma 2, pur con il fine lodevole di non penalizzare l’attività delle cooperative, riduce queste al calcolo “per testa”, sorvolando bellamente, sia sulle eventuali specificità e caratterizzazione della prestazione da questi resa rispetto all’attività della cooperativa (che invece il R.D. n. 278/1911 quanto meno implicitamente richiedeva), sia sull’incidenza quantitativa (ovvero sul numero delle ore da questi svolte) rispetto al monte ore di lavoro complessivo richiesto dall’attività svolta.
È superfluo osservare come un “imprenditore di riferimento” particolarmente “disinvolto” non avrebbe – partendo da queste premesse – particolari problemi a costituire una cooperativa di tipo b), mettendoci dentro un po’ di tutto (tanto dall’inizio della crisi sembra che il Legislatore non neghi la qualifica di svantaggiato a nessuno), e comunque – in termini prudenziali – rispettando il limite del trenta per cento per i soggetti ex articolo 4, comma 1, requisito che si perfeziona e si conserva anche a fronte di una prestazione irrisoria in termini di incidenza qualitativa e quantitativa sul lavoro complessivamente prestato tra soci ed ausiliari, e che potrebbe addirittura venir meno, purché per periodi limitati[10]. E – sempre su queste premesse – a pretendere di usufruire non solo di sgravi contributivi (che possono arrivare anche all’azzeramento dell’intera obbligazione contributiva), ma anche di poter partecipare alle procedure di affidamento diretto di forniture di beni e servizi.
Dall’altra parte, non è difficile immaginare un amministratore locale, che, preso dall’emergenza sociale e dall’esigenza “di far rimanere le risorse sul territorio” (altro “slogan” che dimostra come le vie dell’inferno siano lastricate di buone intenzioni), presti orecchio a quelle sirene che gli prospettano la possibilità di affidare lavoro a soggetti che, grazie a questo escamotage, occuperebbero più di qualche “disoccupato storico” locale.
Come certe cose vadano poi a finire, in sede amministrativa e talvolta anche penale, è cronaca.
Il quesito che ci poniamo, come operatori del diritto, è se, al di là delle valutazioni metagiuridiche, esista una spada in grado di tagliare “il nodo gordiano” sopra descritto.
Un aiuto ci viene dai criteri ermeneutici di cui alle Disposizioni Preliminari sulla Legge in Generale. Da un’analisi storico–sistematica, infatti, non è difficile verificare come gli articoli 4 e 5 della L. n. 381/1991 siano non solo “norma speciale”, ma anche di “diritto eccezionale” (in quanto individuano non solo una disciplina specifica, ma prevedono espressamente eccezioni rispetto ai principi generali dell’ordinamento): come tali non sono suscettibili né di taciti ampliamenti (salvo quelli espressamente previsti), né di applicazione o interpretazione estensiva o analogica. D’altra parte, riandando alla citata sentenza della Cassazione 25 giugno 2012, n. 10506 (che richiama la sentenza n. 5472/2005), non si può fare a meno di osservare come la stessa prenda in esame un ampliamento dei soggetti di cui all’articolo 4, comma 1, operato da una norma emanata da una regione a statuto speciale, ed in quanto tale avente potestà propria sulla materia (anche in ragione del criterio di “maggior favore” conseguente alla riforma del Titolo V della Costituzione operata nel 2001); non solo: il criterio che la Suprema Corte porta a giustificazione del riconoscimento della validità dell’estensione della platea dei soggetti svantaggiati è la “dettagliata indicazione”, da cui discende la tassatività, elemento tipico della legislazione eccezionale.
Da ciò consegue che i lavoratori svantaggiati sono – per le finalità di inserimento sociale e lavorativo di cui all’articolo 1, lettera b) della L. n. 381/1991 – esclusivamente quelli di cui all’articolo 4, comma 1, e che, in assenza di apposito D.P.C.M., o di legislazione regionale assunta ex articolo 9, la loro elencazione non possa che considerarsi “numerus clausus”. Non solo: discende anche che – ove rispettati i requisiti numerici – le agevolazioni contributive di cui all’ultimo comma dell’articolo 4 sono riferibili solo a costoro e non ad altre tipologie di lavoratori in condizioni di svantaggio. Interpretazione, questa, suffragata a contrariis dalle misure per le donne ed i migranti che sono riferite alle cooperative sociali in virtù di norma speciale (segno che, in assenza di questa, la loro prestazione non sarebbe destinataria di alcuna agevolazione). Discende inoltre, con riferimento all’articolo 5, che la possibilità di dar luogo ad affidamenti diretti sia possibile esclusivamente per la fornitura di beni o servizi, ma riferibile anche all’esecuzione di opere pubbliche o alla concessione di servizi, per le quali deve procedersi ad indizione di gara (Consiglio di Stato – sez. IV – sentenza n. 2342/2013). Orientamento confermato dal Consiglio di Stato – sez. V – con sentenza n. 5149/2014. E che, comunque, l’affidamento deve sempre avvenire secondo criteri di trasparenza, meritevolezza e nell’ambito di una procedura comparativa, come stabilito sempre all’articolo 5 dall’ultimo periodo del comma 1, così come introdotto dall’articolo 1, comma 610 della Legge 29 dicembre 2014, n. 190: “…le convenzioni di cui al presente comma sono stipulate previo svolgimento di procedure di selezione idonee ad assicurare il rispetto dei principi di trasparenza, di non discriminazione e di efficienza”.
Conseguentemente, aggiunge chi scrive, per non tradire lo spirito della norma andrebbe anche verificato, in sede di revisione annuale di cui al D.lgs. n. 220/2002, che l’inserimento o l’accompagnamento al lavoro delle persone svantaggiate avvenga secondo un progetto di inserimento e sia coerente con questo, venendo altrimenti messa in dubbio la stessa meritevolezza della misura di favore.
Non a caso, l’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici, aveva dato indicazioni ben prima dell’inserimento dell’inciso di cui sopra, con determinazione del 1° agosto 2012 n. 3[i], oltre al suggerimento dell’adozione di procedure comparative negoziate, che nell’ambito di queste, il merito della cooperativa all’affidamento diretto dovesse essere valutato sulla base del progetto di inserimento delle persone svantaggiate, che doveva trovare esposizione nella proposta di quest’ultima. Orientamento, questo, che trova conferma nelle rinnovellate “Linee Guida per l’affidamento di servizi a Enti del Terzo Settore e alle Cooperative Sociali”, di cui alla determinazione n. 32 del 20 gennaio 2016 dell’ANAC in cui, anzi, si ribadiscono – pur con le opportune deroghe al “principio di rotazione” di cui all’articolo 36 del Codice degli appalti – i criteri della “durata ragionevole della convenzione” (al fine di garantire la parità di accesso a tutti gli operatori del settore) e della “adeguatezza”, che impone la definizione ex ante delle finalità di ordine sociale che si vogliono raggiungere, e che il perseguimento delle stesse sia oggetto di appositi controlli in sede di esecuzione della convenzione.
[1] Regolamento relativo alla concessione di appalti a società cooperative di produzione e lavoro e alla costituzione dei consorzi di cooperative per appalti di lavori pubblici.
[2] D.lgs.C.P.S. 14 dicembre 1947, n. 1577.
[3] E successive pronunce del 27 luglio e 6 ottobre 1955, del 23 gennaio 1957 e del 24 luglio 1959.
[4] “E’ da ritenere contrastante con lo scopo mutualistico delle società cooperative l’attività di quelle cooperative di lavoro, le quali, prive di propria gestione sociale, si limitano ad avviare i soci ad aziende industriali nel cui normale ciclo produttivo i soci stessi si inseriscono accanto alla rimanente maestranza. L’attività delle cooperative in questione è anzi illecita qualora lo scopo dei dirigenti sia quello di eludere le norme sul collocamento o evadere gli obblighi assicurativi e previdenziali, ovvero quelli derivanti dai contratti collettivi. Le cooperative di cui si tratta non possono essere iscritte nel registro prefettizio”.
[5] “Il caporalato in giacca e cravatta. Messi all’asta 10 mila lavoratori” di Nicola Pinna.
[6] Da ultimo il D.M. del M.L.P.S. del 17 ottobre 2017 adottato in applicazione dell’art. 31, co.2, del D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, in conformità al Reg. UE n. 651/2014, di esecuzione degli art. 107 e 108 del TFUE.
[7] L.R. n. 7/1992 della Regione Friuli Venezia Giulia e L.R. n. 16/1997 della Regione Sardegna adottate in applicazione dell’art. 9 della L. n. 381/1991.
[8] L. 27 dicembre 2017, n. 205.
[9] D. I. 11 maggio 2018.
[10] Si veda l’interpello M.L.P.S. n. 4/2008.
[i] “Linee guida per gli affidamenti a cooperative sociali ai sensi dell’art. 5, co. 1, della L. n. 381/1991” in G.U. del 9 agosto 2012, n. 185.