Rotondi e Speziale analizzano le fasi finali del procedimento disciplinare
Il provvedimento disciplinare si sostanzia in una decisione assunta dal datore di lavoro nei confronti del proprio dipendente, qualora quest’ultimo si sia reso inadempiente riguardo ai propri doveri contenuti all’interno del Ccnl e del Codice disciplinare presente in azienda. La finalità è quella di garantire all’azienda di agire secondo il rispetto delle normative legali e delle politiche interne, nonché proteggere i diritti dei lavoratori. Per tali ragioni, il provvedimento disciplinare è uno strumento che riveste particolare importanza all’interno di ogni impresa. Gli Autori ne analizzano tutte le fasi.
IRROGAZIONE DELLA SANZIONE DISCIPLINARE
Lo Statuto dei Lavoratori disciplina la procedura da seguire per irrogare le sanzioni disciplinari nei confronti dei dipendenti che violano la legge, il regolamento aziendale, il contratto collettivo o quello individuale di lavoro. Tali sanzioni, stabilisce la norma, non possono essere adottate se prima non si comunica per iscritto all’interessato l’avvio del procedimento interno, rivolto all’acquisizione degli elementi necessari a decidere l’eventuale colpevolezza. Da tale comunicazione decorrono cinque giorni entro cui il dipendente può presentare difese per iscritto o chiedere di essere ascoltato personalmente. Solo il rimprovero verbale può avvenire senza bisogno di alcuna comunicazione preventiva. La giurisprudenza ha precisato che la contestazione disciplinare deve essere: – scritta; – specifica: bisogna individuare con precisione il comportamento illecito e l’occasione di luogo e tempo in cui è stato commesso onde dare la possibilità all’interessato di difendersi; – immediata: la comunicazione deve essere tempestiva rispetto all’illecito commesso1 ; – immutabile: non è possibile cambiare, in un secondo momento, l’addebito mosso al dipendente. Rispetto al principio di immediatezza che regola il momento della contestazione disciplinare – anche al fine di tutelare i diritti di difesa del lavoratore -, nel caso dell’irrogazione della sanzione l’art. 7 St. Lav. non prevede alcun termine entro il quale procedere ad emettere un provvedimento sanzionatorio. Il limite però è di norma fissato dalla contrattazione collettiva, che può prevedere un termine finale per l’adozione del provvedimento disciplinare, attribuendo un significato di acquiescenza all’inerzia del datore di lavoro nell’irrogare la sanzione dopo che il lavoratore abbia provveduto a presentare le proprie giustificazioni2 . In questo contesto, la giurisprudenza ha inoltre chiarito che l’eventuale termine finale previsto dalla contrattazione collettiva dovrà essere rispettato dal datore di lavoro anche nell’ipotesi in cui il lavoratore non presenti alcuna forma di giustificazione rispetto al fatto o ai fatti oggetto della contestazione, ciò poiché le giustificazini rappresentano una facoltà del lavoratore 3 . La Suprema Corte ha infine vagliato l’ipotesi in cui il lavoratore abbia reso le proprie giustificazioni oltre il temine previsto nel qual caso è stato ritenuto che “in tema di potere disciplinare del datore di lavoro, qualora il lavoratore incolpato presenti le sue difese oltre il termine impostogli dalla legge o dal contratto, il successivo termine finale, previsto dal contratto collettivo per l’adozione della sanzione, decorre dal giorno di presentazione delle difese” 4 . Dal punto di vista contenutistico, nell’ambito del procedimento disciplinare il principale elemento di garanzia del lavoratore è la contestazione dell’addebito, mentre l’eventuale successiva applicazione della sanzione disciplinare può limitarsi a un sintetico riferimento a quanto già contestato5 .
QUALI SANZIONI
Ogni provvedimento disciplinare deve essere sempre proporzionale alla gravità del comportamento tenuto dal dipendente. Per tale ragione, la legge ha previsto una serie di sanzioni disciplinari diversificate in relazione alla portata afflittiva, distinte in sanzioni conservative e sanzioni estintive. Partendo dalla sanzione più tenue fino ad arrivare a quella più grave, individuiamo: – rimprovero verbale: il datore di lavoro richiama verbalmente il dipendente; – rimprovero scritto: il datore di lavoro comunica per iscritto al lavoratore un rimprovero; – multa: l’azienda trattiene dalla busta paga del dipendente una somma di denaro corrispondente alla retribuzione percepita dal lavoratore fino a un massimo di cinque ore; – sospensione dal lavoro: il dipendente viene sospeso dal suo incarico per un determinato numero di giorni (massimo dieci) durante i quali non percepisce alcun tipo di retribuzione; – licenziamento per giustificato motivo soggettivo: la lesione del vincolo di fiducia è grave ma non al punto da interrompere immediatamente il rapporto di lavoro. In questa ipotesi, il dipendente ha diritto a un periodo di preavviso o a un’indennità sostitutiva in mancanza di preavviso; – licenziamento per giusta causa: il licenziamento è conseguenza del compimento di un’infrazione particolarmente gravosa commessa dal lavoratore, il quale non avrà diritto né al preavviso né all’indennità sostitutiva.
DOPPIO LICENZIAMENTO
La Corte di Cassazione con una recente sentenza6 ha confermato che un datore di lavoro, dopo aver intimato al lavoratore un primo licenziamento – e benché questi si sia opposto a tale decisione – può procedere con un secondo licenziamento basandosi su motivi differenti da quello precedente. In ipotesi del genere il secondo licenziamento è considerato completamente indipendente dal primo. Ciò significa che se anche il dipendente dovesse fare ricorso contro la prima lettera di risoluzione del rapporto di lavoro, la seconda – se legittima – potrebbe ugualmente sortire gli stessi effetti. La Corte Suprema ha stabilito che ciascuno dei due licenziamenti è potenzialmente valido per terminare il rapporto di lavoro, ma il secondo licenziamento avrà effetto soltanto se il primo viene giudicato dal giudice non valido o non efficace. Questo significa che è permesso al datore di lavoro emettere un secondo licenziamento, che inizialmente non avrebbe effetto se il primo viene considerato valido o non contestato. Al contrario, se il primo licenziamento viene revocato (anche se temporaneamente e in attesa di appello), il secondo licenziamento diventa efficace nel terminare il rapporto di lavoro (a condizione che, in caso di secondo ricorso del dipendente, il giudice ne verifichi la legittimità). È evidente che la definizione stabile dell’assetto sostanziale non può che dipendere dal formarsi del giudicato sull’assetto del primo licenziamento: ne deriva un tratto di autonomia tra i due licenziamenti, tale per cui l’inefficacia del secondo non può essere giudizialmente dichiarata sulla base di un dato provvisorio, quale derivante dalla pronuncia ancora impugnabile resa sul primo licenziamento.
IMPUGNAZIONE
Di fronte all’irrogazione di una sanzione, il lavoratore ha la possibilità di impugnare il relativo provvedimento, ogni qual volta ritenga che sia affetto da vizi formali o sostanziali. Egli può per esempio contestare vizi procedurali, come la mancata affissione del codice disciplinare, oppure dichiararsi estraneo ai fatti o esporre una diversa ricostruzione dell’evento contestato. In base all’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, il dipendente può scegliere tra due diverse procedure di impugnazione, ognuna con le sue caratteristiche: – il ricorso presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro – il ricorso all’autorità giudiziaria. Entro venti giorni dall’irrogazione della sanzione, il lavoratore può presentare ricorso presso gli uffici dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro, anche tramite un rappresentante dell’associazione sindacale a cui appartiene o a cui abbia conferito apposito mandato. Le sanzioni impugnabili con il ricorso all’arbitrato sono il rimprovero verbale, il richiamo scritto, la multa e la sospensione dal lavoro o dalla retribuzione, mentre si ritiene che non possa essere oggetto di lodo arbitrale il licenziamento. L’Ispettorato provvede a nominare un collegio di conciliazione composto da tre membri, di cui uno viene scelto dal lavoratore, uno dalla parte datoriale e uno di comune accordo o, in mancanza di accordo, dal direttore dell’ufficio. Il datore di lavoro ha dieci giorni di tempo per nominare il suo rappresentante in seno al collegio. In mancanza di nomina, la sanzione decade e non ha più alcun effetto. In alternativa, in pendenza di tale termine, il datore di lavoro ha la possibilità di adire l’autorità giudiziaria.7 In quest’ultimo caso, la sanzione resta sospesa fino al termine del giudizio . Anche il lavoratore rimane libero di rivolgersi a un giudice, dopo essersi rivolto all’Ispettorato Territoriale, ma solo fin quando non sia stato nominato il collegio. La decisione del collegio, che può confermare, modificare o revocare il provvedimento sanzionatorio, ha valore di lodo arbitrale irrituale e può essere impugnata davanti all’autorità giudiziaria solo per i motivi indicati dall’art. 808- ter c.p.c., e cioè per invalidità della convenzione arbitrale o delle nomine degli arbitri, violazione delle regole previste dalle parti e violazione del principio del contraddittorio. Durante l’intero svolgimento della procedura arbitrale, la sanzione è sospesa. Tale effetto, insieme alla celerità del procedimento, è uno degli aspetti che il legislatore ha previsto per incentivare l’utilizzo di tale mezzo di impugnazione, in un’ottica deflattiva del contenzioso giudiziario. Infatti, l’instaurazione di un giudizio in Tribunale da parte del dipendente non produce analogo effetto sospensivo. In ogni caso, spesso risulta più apprezzata la possibilità di ottenere giustizia dai giudici dei Tribunali, con la non trascurabile facoltà di impugnare l’eventuale sentenza sfavorevole nei successivi gradi di giudizio. Infine, va segnalato che, a norma dell’ultimo comma dell’art. 7 dello Statuto, trascorsi due anni dall’applicazione della sanzione, la stessa non dispiega più alcun effetto, anche ai fini di un’eventuale recidiva. TRASFERIMENTO DISCIPLINARE Un caso particolare è costituito dall’ipotesi di trasferimento del dipendente per incompatibilità ambientale. Si tratta di un provvedimento che deve essere ricondotto a esigenze tecniche, organizzative e produttive (ex art. 2103 c.c.) o a ragioni punitive e disciplinari? Dottrina e giurisprudenza escludevano, in un primo momento, la legittimità del trasferimento motivato da ragioni punitive e disciplinari in quanto l’art. 7, comma 4 della L. n. 300/70 limita la gamma delle sanzioni disciplinari, vietando quelle che comportino “mutamenti definitivi del rapporto di lavoro” tra le quali rientrerebbe senz’altro il trasferimento che, infatti, incide definitivamente sul luogo della prestazione 8 . La giurisprudenza, tuttavia, ha da tempo superato la predetta impostazione restrittiva a favore di uno strumento che consentisse, per quanto attraverso una modifica definitiva di uno degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, la conservazione del posto di lavoro. È riconosciuta la possibilità di procedere allo spostamento del dipendente motivato dalla necessità di porre rimedio a uno stato di disorganizzazione e disfunzione dell’unità produttiva cui il lavoratore è addetto9 . Ciò che il datore deve dimostrare, in caso di impugnazione del trasferimento, è la corrispondenza tra il provvedimento datoriale e le finalità tipiche dell’impresa: la ragione che giustifica la modifica del luogo di lavoro (soluzione alternativa al licenziamento) deve essere l’incompatibilità ambientale10 che ricorre in presenza di tensione nei rapporti personali o di contrasti nell’ambiente di lavoro che causano disorganizzazione e disfunzione nell’unità produttiva. Anche per questo tipo di trasferimento vale il principio dell’insindacabilità della scelta datoriale (ex art. 41 Cost. che sancisce la libertà dell’iniziativa economica privata), potendo il giudice solo verificare l’effettività delle ragioni poste alla base del provvedimento senza scendere nel merito della scelta imprenditoriale; in altre parole, la decisione del datore non deve “presentare necessariamente i caratteri della inevitabilità, essendo sufficiente che il trasferimento concreti una tra le scelte ragionevoli che il datore di lavoro possa adottare sul piano tecnico, organizzativo o produttivo” 11.
BREVI CONCLUSIONI
Il potere gestionale riconosciuto al datore di lavoro ha lo scopo di tutelare l’organizzazione aziendale e il rispetto degli obblighi previsti dal contratto. È per tale ragione che al fine di migliorare la gestione delle violazioni e prevenire comportamenti inappropriati, lo Statuto dei lavoratori riconosce al datore di lavoro il diritto di adottare provvedimenti disciplinari in caso di condotte tenute dal dipendente che costituiscano un’adempienza degli obblighi contrattuali. Di contro, però, rappresentando il provvedimento disciplinare l’atto di avvio di un procedimento vero e proprio, impone al datore di lavoro il rispetto di una serie di vincoli, elaborati dalla giurisprudenza, a tutela del dipendente.
* Sintesi dell’articolo pubblicato in D&PL, 8/2024 dal titolo Sanzioni disciplinari e mezzi di impugnazione.
1. Trib. Bari 25 febbraio 2019, n. 810.
2. Cass. Civ., sez. Lav., 8 aprile 1998, n. 3608, in Mass. Giust. civ., 1998, pag. 759.
3. Trib. Milano, 23 luglio 2002, in Lav. giur., 2003, II, pag. 493.
4. Cass. Civ., sez. Lav., 12 aprile 2012 n. 5800 in Giust. civ. Mass., 2012, 4, pag. 485.
5. Cass. Civ., sez. Lav., 21 gennaio 2015, n. 1026, in One Lavoro, Wolters Kluwer; Cass. Civ., sez. Lav., 13 novembre 2000, n. 14680, in Mass. Giust. civ., 2000, pag. 2308; Cass. Civ., sez. Lav., 9 febbraio 2006, n. 2851, in Mass. Giust. civ., 2006, 2.
6. Cass. Civ. 23 gennaio 2024, n. 2274, in One Lavoro, Wolters Kluwer; conf. Cass. Civ. 20 gennaio 2011, n. 1244; Cass. Civ. 4 gennaio 2013, n. 106.
7. Cass. Civ. 23 luglio 1985, n. 4336, in Foro it., 1986, I, pag. 2864.
8. In senso contrario in dottrina A. Levi, Il trasferimento disciplinare del prestatore di lavoro, Torino, 2000, pagg. 187- 284; In giurisprudenza sulla circostanza per cui il comportamento del lavoratore possa giustificare il trasferimento sia come provvedimento disciplinare, sia come provvedimento necessario per motivi organizzativi, Cass. 27 giugno 1998, n. 6383, in Ridl, 1999, II, pag. 356.
9. Cass. Civ. 24 ottobre 2019, n. 27345; Cass. Civ. 11 maggio 2017, n. 11568.
10. Cass. Civ. 26 ottobre 1982, n. 5606, in Mass. Giust. civ., 1982, fasc. 9; Cass. Civ. 12 gennaio 1984, n. 266, in Riv. giur. lav., 1984, II, pag. 123; Cass. Civ. 7 aprile 1986, n. 1536, in Mass. Giust. civ. 1986, fasc. 3.
11. Cass. Civ. 27 gennaio 2017, n. 2143.