PRIMI COMMENTI sul disegno di legge c.d. “Ddl Lavoro”

Andrea Asnaghi, Bruno Olivieri, Barbara Garbelli, Consulenti del lavoro

È stato diffuso il c.d. “bollinato” del disegno di legge in materia di lavoro, approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 1° maggio 2023 e presentato alla Camera dei deputati lo scorso 6 novembre 2023. Quelle che seguono sono prime riflessioni emerse nell’ambito del Centro Studi della Fondazione Consulenti del lavoro di Milano, confidando che possano essere utili ad un confronto de iure condendo.

IL PATTO DI PROVA NEL DDL LAVORO1

L’art. 6 del ddl Lavoro si occupa di una modifica piccola ma di non poca rilevanza nell’ambito della determinazione del patto di prova nel contratto a termine. Già la direttiva UE 2019/1152 prevedeva la definizione di una proporzionalità della prova commisurata alla durata del contratto e alla natura dell’impiego. Il D.lgs. n. 104/2022, in applicazione della Direttiva, si era limitato a trasporre, più o meno con le medesime espressioni, quanto previsto dalla direttiva, stabilendo, all’art. 7, comma 2, primo periodo, che “nel rapporto di lavoro a tempo determinato, il periodo di prova è stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego”. Il problema era già stato affrontato dalla giurisprudenza italiana, arrivando alla conclusione (ex multis Cass., n. 6441/1982) che il patto di prova è perfettamente compatibile con il contratto a tempo determinato, ma deve tuttavia avere una durata inferiore a quella del contratto a termine, in caso contrario rendendo incerto il rapporto per tutta la sua durata2 . Da subito si evidenziava il problema della genericità della disposizione, che a ben vedere nemmeno era risolto dall’indirizzo giurisprudenziale citato, che al più si era limitato ad ipotizzare come congrua una prova non superiore alla metà della durata del rapporto a termine; ma il fatto che il principio (in vero, a lungo dibattuto) fosse ora trasposto in un articolato normativo, lo rendeva non più oggetto di discussione sull’an ma sicuramente sul quantum, ponendo il tema sulla determinazione quantitativa. L’art. 6 del ddl in commento interviene esattamente a questo punto (lo si evince anche dalla relazione illustrativa del disegno), con l’intenzione di stabilire precisi ed inequivocabili termini quantitativi, prevedendo di aggiungere alla disposizione del D.lgs. n. 104/2022 il seguente periodo: «Fatte salve le disposizioni più favorevoli della contrattazione collettiva, la durata del periodo di prova è stabilita in un giorno di effettiva prestazione per ogni quindici giorni di calendario a partire dalla data di inizio del rapporto di lavoro. In ogni caso la durata del periodo di prova non può essere inferiore a due giorni né superiore a quindici giorni, per i rapporti di lavoro aventi durata non superiore a sei mesi, e a trenta giorni, per quelli aventi durata superiore a sei mesi e inferiore a dodici mesi». Analizzando il periodo in questione, notiamo tre passaggi significativi: a) una precedenza della contrattazione collettiva (con aspetti problematici che esamineremo infra); b) una quantificazione matematica (la durata della prova nel tempo determinato si costruisce in stretta parametrazione con la durata del tempo determinato, in ragione di un giorno di prestazione ogni quindici giorni di calendario, a partire dalla data di inizio del rapporto); c) una norma tranchant di chiusura, apparentemente anche rispetto alle determinazioni dei contratti collettivi3 (“in ogni caso”) che determina due differenti misure limite per la prova: da due (minimo) a quindici (massimo) giorni per i rapporti a termine fino a sei mesi e di trenta giorni (limite unico) per i tempi determinati di durata compresa superiore entro i dodici mesi. Dobbiamo chiederci in fase critica se l’obiettivo che sul punto si è posto il legislatore sia stato rispettato. In prima battuta si direbbe di sì, la matematica non è un’opinione, tuttavia, come recita un vecchio adagio, il diavolo si nasconde nei dettagli. Facciamo qualche esempio. Supponendo il silenzio della contrattazione collettiva al riguardo, quanti giorni di prova potranno essere applicati a un contratto a termine di 85 giorni di calendario? Dividendolo per 15 il risultato è 5,66: avremo la possibilità di 5 giorni di prova oppure, con il metodo dell’arrotondamento superiore, di 6 giorni? Ovviamente non vale rimandare ad una successiva circolare interpretativa, primo perchè non è un bel metodo, secondariamente perchè l’eventuale giudice chiamato a valutare la cosa ha ben chiara, come tutti noi, la valenza di una circolare ministeriale Pensiamo poi ad un contratto a tempo determinato part-time in cui un dipendente lavori per tre giorni a settimana, per una durata di 150 giorni di calendario: egli avrà (qui è facile), un periodo di prova di 10 giorni) tuttavia esattamente come quello che avrà il medesimo collega che invece lavora full time per 6 giorni alla settimana (se il Ccnl lo consente). Quindi per un periodo lavorativo sostanzialmente doppio, due lavoratori hanno lo stesso periodo di prova. Siamo sicuri che in tema di proporzionalità la questione sia ben posta? Un terzo problema riguarda poi un tempo determinato di durata superiore a dodici mesi, (pensiamo alla sostituzione di un lavoratore in aspettativa) che è e resta un tempo determinato (sul quale quindi il legislatore europeo e, in coda supina, quello italiano si aspetterebbero – si lasci dire, irragionevolmente – un riproporzionamento della prova): che si fa (la proposta normativa a questo punto si bloccherebbe, sul calcolo). Oppure, superati i dodici mesi (come sembrerebbe più logico) si ritorna semplicemente alla determinazione del periodo di prova stabilito dalla contrattazione collettiva per il livello e la mansione corrispondente in un tempo indeterminato? Come è evidente, il criterio di calcolo sembra da affinare, in relazione alle varie criticità in cui un operatore potrebbe incappare, proprio per rispettare lo spirito (condivisibile, anzi encomiabile) di dare certezze al mondo del lavoro. Tuttavia lo scarno dettato normativo si presta ad altre osservazioni critiche. In effetti, a ben vedere, la disposizione in commento si pone in contraddizione sia con la direttiva europea che con lo stesso periodo che la precede (e a cui si aggiunge), il quale prevede che la proporzione sia fatta sì in base alla durata del contratto ma pure “alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego”. Ma qui il riferimento è solo temporale, e in questo si fa torto al buon senso. Un piccolo esempio può anche qui aiutare. Poniamo di assumere per dodici mesi una persona qualificata per un ruolo di responsabilità e coordinamento, magari un quadro o un impiegato di livello elevato: siamo sicuri che trenta giorni siano sufficienti per valutarne appieno la professionalità, laddove il Ccnl applicato (ma anche la semplice ragione) prevede – giustamente – un periodo di sei mesi o almeno di tre? Attenzione, perché superato quel risicato periodo di prova il rapporto non potrà che essere risolto anticipatamente (ce lo ricorda bene la sentenza di nota 2) per giusta causa. Potremmo allora pensare, è una considerazione che avrebbe molteplici applicazioni, che le norme che intendono limitare la precarietà, laddove siano troppo – e soprattutto, a parere di chi scrive, insensatamente – stringenti, non facciano altro che moltiplicare la precarietà come involontario effetto perverso. Nel panorama italiano, limitare così il periodo di prova non potrebbe portare alla brutta conseguenza, ad esempio, della tentazione datoriale di spezzettare il tempo determinato (poniamo di un anno) con tre proroghe trimestrali, ciascuna una specie di piccolo patto di prova a se stante (o di prolungamento de facto di esso)? Sembra più corretto lasciare ampio spazio alla contrattazione collettiva e fissare dei paletti massimi meno stringenti (non sembrava insensato chi suggeriva un riproporzionamento basato sull’anno, sostenendo di mantenere il periodo di prova uguale a quello del contratto collettivo applicato per periodi uguali o superiori all’anno, e riproporzionarlo negli altri casi in funzione della durata, con un periodo minimo ed un massimo) correlati però alla mansione come individuata dai Ccnl. Ma anche qui la norma affronta la cosa con eccessiva facilità, a parere di chi scrive. Anzitutto, quale contrattazione collettiva? Messa com’è nel disegno di legge, parrebbe qualsiasi contrattazione collettiva, indipendentemente dal livello (nazionale, territoriale, aziendale), ma l’ambito che sembra più probabile sembrerebbe quello nazionale. Inoltre. Con quale rappresentatività? Proprio in tema di rapporto a termine il medesimo legislatore si è appena scontrato con questo problema nella riscrittura dell’art. 19 del D.lgs. n. 81/2015, con una successiva interpretazione ministeriale messa a pezza di un articolato normativo ambiguo; qui il problema pare riproporsi tale e quale. Ma soprattutto è difficile comprendere quell’inciso per cui la contrattazione collettiva può prevedere solo disposizioni “più favorevoli”. Ma che significa esattamente più favorevoli? Vuol dire periodi di prova più brevi? Siamo sicuri che il periodo di prova sia solo uno svantaggio per il lavoratore? La costante riflessione giurisprudenziale, finanche Costituzionale4 , nel tracciare i limiti della libertà di recesso del datore di lavoro ha ben evidenziato che lo scopo del patto di prova, nel consentire al lavoratore di dare contezza della propria professionalità, rappresenta anche una garanzia per il lavoratore, che quindi deve correttamente poter dimostrare le proprie capacità entro una durata apprezzabile. Ancora una volta, estremizzare temporalmente la decisione del dentro/fuori di un lavoratore rappresenta davvero un favor nei suoi confronti? Sembrerebbe davvero opportuno espungere quel “più favorevoli” dal testo di legge e lasciare un più semplice e meno ambiguo, “salvo diversa previsione dei contratti collettivi (maggiormente rappresentativi vogliamo aggiungerlo?)”, che dovrebbe essere la linea guida della maggior parte egli interventi normativi di dettaglio, se il legislatore vuole fare il semplificatore e non il dirigista. Per completezza di informazione, è da ritenersi che nel D.lgs. n. 104/2022, relativamente al periodo di prova vi siano altri aspetti sui quali il Decreto ha lasciato aperte criticità. In ogni caso, proponiamo al riguardo l’estratto (inerente appunto la disciplina del periodo di prova) della proposta di riforma complessiva del D.lgs. n. 104/2022 che il nostro Centro Studi della fondazione Consulenti del lavoro di Milano ha elaborato nei primi mesi del 2023 (il testo completo è disponibile sulla Rivista Sintesi del marzo 2023).

Articolo 9

Durata massima del periodo di prova

1. Nei casi in cui è previsto il periodo di prova, questo non può essere superiore a sei mesi, salva la durata inferiore prevista dalle disposizioni dei contratti collettivi.

2. In caso di assunzione con contratto a termine di durata non superiore a 9 mesi, il periodo di prova deve essere proporzionato alla durata del contratto, e non può superare i 2/3 del contratto a tempo determinato fatto salvo il diverso disposto dei contratti collettivi.

3. In caso di riassunzione, anche a seguito di un contratto di somministrazione presso il medesimo datore di lavoro per lo svolgimento delle stesse mansioni, qualora il rapporto di lavoro precedente sia cessato da meno di 5 anni, il nuovo rapporto non può essere soggetto ad un ulteriore periodo di prova.

4. In caso di sopravvenienza di eventi sospensivi della prestazione lavorativa, che comportano il diritto al mantenimento del posto di lavoro, il periodo di prova è prolungato in misura non superiore alla durata della sospensione. In ogni caso il periodo di prova non potrà superare i sei mesi complessivi compresi i periodi di sospensione di cui al periodo precedente.

5. Per le pubbliche amministrazioni continua ad applicarsi l’articolo 17 del d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487.

DIMISSIONI PER FATTI CONCLUDENTI NELLA PROSPETTIVA DI UNA NUOVA CAUSA DI RESCINDIBILITÀ DAL RAPPORTO DI LAVORO 5

Nelle maglie del dilagante fenomeno della great resignation si è ulteriormente insinuato quello di uno strumentale e premeditato assenteismo di taluni lavoratori finalizzato a precostituire, con la comminazione di un licenziamento disciplinare, l’involontarietà dello stato di disoccupazione quale preminente requisito per l’accesso al trattamento di disoccupazione NASpI. Una paradossale circostanza in cui il datore di lavoro si trova da un lato a subire il danno organizzativo dell’indisponibilità improvvisa della prestazione del lavoratore e dall’altro la beffa di dover pagare il ticket di licenziamento per un recesso involontariamente indottogli. Il fenomeno è stato già da tempo oggetto di numerose pronunce giudiziali che hanno portato al consolidamento della fattispecie di matrice giurisprudenziale delle dimissioni per fatti concludenti, quale recesso del lavoratore la cui volontarietà, indipendentemente dalla forma, venisse desunta da un suo comportamento che manifestasse o facesse presumere la volontà di recedere dal rapporto di lavoro, ad esempio nel caso in cui si fosse ingiustificatamente allontanato dal posto di lavoro e non si (fosse) più presentato per diversi giorni (Cassazione n. 25583 del 10 ottobre 2019). La fattispecie delle dimissioni per fatti concludenti si radica nella prassi giurisprudenziale sul principio secondo cui la sostanza, l’assenza prolungata e ingiustificata del lavoratore, prevale sulla forma, la procedura prevista dall’art. 26, co. 1 del D.lgs. n. 151/2015, stante che nella circostanza di assenza ingiustificata protratta oltre i limiti previsti dalla contrattazione collettiva la comunicazione datoriale delle dimissioni possa essere considerata come consequenziale presa d’atto di un recesso unilaterale già posto in essere dal lavoratore per facta concludentia (Cassazione n. 5454 dell’8 marzo 2011). Ciò che si desume dall’analisi delle suddette pronunce è quindi il superamento della valenza formale della procedura delle dimissioni telematiche, seppur prevista a pena di inefficacia, a favore di una sostanziale presunzione che la volontà del lavoratore di dimettersi possa (e debba) oggettivamente desumersi anche dal suo comportamento concludente. Una tesi che, come ribadito dalla recentissima sentenza n. 20 del 27 maggio 2022 del Tribunale di Udine, si giustifica nel fatto che

1. l’art. 2118 c.c. non prevede alcuna forma specifica con cui il lavoratore debba comunicare la volontà di recedere dal rapporto di lavoro e che l’art. 26 del D.lgs. n. 151/2015 non prescrive alcuna “forma” ma solo una procedura peculiarmente finalizzata a confermare l’autenticità della volontà del lavoratore;

2. non sia affatto riconducibile all’ambito applicativo dell’art. 26 il diverso caso in cui la volontà risolutiva del lavoratore dipendente si sia sostanziata (…) in un contegno protrattosi nel tempo e palesatosi in una serie di comportamenti -anche omissivi- idonei ad assicurare un’agevole verifica della sua genuinità;

3. la Legge delega n. 183/2014, nella previsione di istituire modalità semplificate per garantire data certa nonché l’autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, prescrive che le suddette devono in ogni caso tener conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore. La crescente rilevanza del fenomeno dei “dimissionari di fatto” e il fatto che le dimissioni per fatti concludenti fossero rimaste confinate nell’operatività della sola dottrina giurisprudenziale, porta il Legislatore alla previsione di una specifica disciplina che permettesse di confinarne gli effetti, contenuta nella formulazione dell’art. 9 della bozza del disegno di legge in materia lavoro approvato dal Consiglio dei ministri nella seduta del 1° maggio 2023 e presentato alla Camera dei deputati lo scorso 6 novembre 2023 “All’articolo 26 del decreto legislativo 14 settembre 2015 n. 151, dopo il comma 7, è inserito il seguente comma: «7-bis. In caso di assenza ingiustificata protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a cinque giorni, il rapporto si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina di cui al presente articolo.” Dalla lettura del contenuto della disposizione si evince che l’interessamento del Legislatore si concentra nel disciplinare una deroga alla complementarità dell’efficacia delle dimissioni con la comunicazione telematica ex art. 26, c.1 del D.lgs. n. 151/2015, consentendo al datore di lavoro di qualificare l’assenza prolungata e ingiustificata come manifestazione di volontà recessiva del lavoratore.

Sostanzialmente il Legislatore, sulla scia della consolidata prassi giurisprudenziale, sembra proprio voler sottolineare che per quanto la disciplina della comunicazione delle dimissioni ex art. 26, c.1 del D.lgs. n. 151/2015 sia finalizzata a “garantire (…) l’autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro”, la “sostanziale” manifestazione di volontà del lavoratore di recedere dal rapporto di lavoro non deve leggersi nel mero assolvimento di una procedura amministrativa quanto dal suo effettivo comportamento concludente, in ragione di quell’ulteriore finalità della procedura prescritta nella L. n. 183/2014 di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore. Stante a quanto previsto dal nuovo comma 7 bis dell’art. 26 del D.lgs. n. 151/2015, è possibile desumerne che

1. l’oggettiva e contestata assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a cinque giorni rappresenta la manifesta volontà di voler recedere dal rapporto, valevole ai fini dell’efficacia della comunicazione obbligatoria UNILAV presentata dal datore di lavoro;

2. non muta la rilevanza disciplinare dell’infrazione a titolo di assenza ingiustificata che, come tale, rimane una violazione dell’obbligo di diligenza del lavoratore ex art. 2104 c.c.;

3. la contestazione dell’assenza ingiustificata sarà, quindi, soggetta al procedimento disciplinare ex art. 7 della L. n. 300/1970 e alle specifiche previsioni normative del Ccnl applicato al rapporto di lavoro;

4. l’assenza ingiustificata del lavoratore, sostituendosi alla formalità amministrativa ex art. 26, c.1, deve in ogni caso garantirne la medesima oggettività e certezza attraverso il rispetto della procedura disciplinare, di dirimente importanza soprattutto per l’individuazione della data di decorrenza delle dimissioni di fatto;

5. l’efficacia delle dimissioni volontarie senza l’assolvimento della procedura di convalida costituirebbe, di fatto, una nuova causa di estinzione del rapporto, specificamente circoscritta all’assenza ingiustificata.

Se appare del tutto condivisibile l’intento del Legislatore, la principale criticità della sintetica formulazione dell’art. 9 della bozza del disegno di legge in materia lavoro si rileverebbe, a parere dello scrivente, nel fatto che il Legislatore si interessi preminentemente all’aspetto procedurale, trascurando, forse troppo superficialmente, gli effetti che produrrebbe l’attuazione della procedura del nuovo comma 7 bis dell’art. 26 del D.lgs. n. 151/2015, stante che la legittimazione delle “dimissioni di fatto” integrerebbe di fatto una nuova causa di estinzione del rapporto, richiedendo pertanto (se si volesse procedere in questo senso) una più attenta definizione. L’assoluta discrezione datoriale nel qualificare “volontario” il recesso del lavoratore assentatosi ingiustificatamente per un periodo prolungato, allo stato attuale delle norme, potrebbe infatti risultare contrastante – ad esempio in qualche esito giudiziale – con il carattere inderogabile della disciplina legislativa limitativa del recesso dal rapporto di lavoro (art. 2118 e 2119 c.c.), con l’ipotizzabile conseguenza che l’assenza ingiustificata finirebbe col tradursi in quella che la Cassazione n. 16507 del 2 luglio 2013 definì la convenzionale attribuzione di un effetto giuridico tipizzato ad un determinato comportamento. Qualora infatti non vengano bene distinte le due fattispecie, introducendo la nozione di dimissioni di fatto (ma questo andrebbe fatto agendo primariamente sulla norma civilistica, non solo sull’aspetto meramente procedurale), il datore di lavoro si troverebbe nella possibilità di scegliere, a sua esclusiva discrezione, se considerare il dipendente lungo-assente dimissionario o licenziabile disciplinarmente. Anche nella contrattazione collettiva poi, alla quale il legislatore sembra voler attribuire ampia priorità di intervento, la disciplina delle dimissioni di fatto dovrebbe pertanto essere tenuta ben distinta – anche quantitativamente – da quella dell’assenza ingiustificata intesa come violazione del 2104 c.c., con una previsione specifica ad hoc. Anche perché potrebbe porsi un problema laddove un determinato contratto prevedesse di giustificare un licenziamento per un’assenza, poniamo, di 10 giorni. Avremmo così il paradosso di un intervento normativo, quello attuale, che punisce (in termini di conseguenze, il lavoratore perde la Naspi) in maniera peggiorativa una violazione minore. Sotto questo profilo, anche un confronto con le previsioni dei principali Ccnl sarebbe stato utile prima di individuare un qualsiasi numero. Un ulteriore aspetto, molto tecnico, riguarda inoltre il computo dei giorni in questione (quale che sia il numero finale): volendo proseguire su questo indirizzo, forse non sarebbe male precisare che trattasi di giorni continuativi e di calendario. Pare a chi scrive che queste precisazioni sarebbero più idonee ad identificare un comportamento che, per la sua estensione e mantenimento nel tempo, si consideri configurare una volontà di fatto, inespressa e non formalizzata, ma inequivocabile (a questo punto sembra tuttavia evidente che cinque giorni sarebbero un minimum davvero risicato). Un’ultima annotazione riguarda le conseguenze di un eventuale contenzioso sul merito. È stato osservato infatti che la norma eviterebbe al datore di lavoro anche il rischio contenzioso legato al licenziamento ma a ben vedere ciò non è del tutto vero, anzi potrebbe registrarsi il paradosso che nelle aziende minori un eventuale annullamento delle dimissioni di fatto in sede giudiziale porterebbe alla ricostituzione del rapporto senza soluzione di continuità, una conseguenza ben peggiore della sola sanzione indennitaria. Una ragione in più per disciplinare in modo più attento ed inequivocabile, anche sotto il profilo costituzionale, la norma in questione e soprattutto una grande attenzione procedurale da parte delle aziende nella documentazione dell’assenza, nelle comunicazioni al lavoratore e nella scelta di quale azione possa risultare più conveniente e meno rischiosa (fatti tutti i debiti conti). Si pensi, per fare un esempio, al rifiuto prolungato di un lavoratore alla prestazione per asserite ragioni di mancata sicurezza o per il rifiuto ad un trasferimento ritenuto illegittimo; andare a dedurre, dall’eventuale assenza ritenuta ingiustificata, una volontà di dimettersi potrebbe essere un azzardo da considerare attentamente. Forse tale impasse, da non sottovalutare, potrebbe essere risolta in modo più lineare, pur mantenendo gli effetti desiderati dal legislatore, stabilendo che in caso di licenziamento per giusta causa dovuto a prolungata (da quantificarsi sulla base dei criteri predetti) assenza ingiustificata il datore sia esonerato dal versamento del “ticket licenziamento” e al lavoratore non spetti la Naspi. Basterebbe a tal fine individuare un codice identificativo per la comunicazione sul modello Unilav e/o sull’E/mens.

IL DDL LAVORO COMPLETA L’EVOLUZIONE DELLA SORVEGLIANZA SANITARIA IN AMBIENTE DI LAVORO? 6

Caro medico competente..ancora tu? A quanto pare sì! La nuova versione del ddl Lavoro, infatti, all’art. 2, affrontando il tema della salute e sicurezza in ambiente di lavoro (dopo diversi recenti interventi normativi del periodo post pandemico7), apporta nuove modifiche all’art. 41 del D.lgs. n. 81/2008.

Le misure, in linea con i precedenti interventi normativi, conferiscono nuova ed ulteriore importanza strategica non solo alla figura del medico competente, ma all’intero complesso del sistema della sorveglianza sanitaria, non senza tentare di semplificare procedure operative che impattano nella quotidianità di ogni datore di lavoro. Vista la convinzione con cui il Legislatore interviene su questo aspetto del cosiddetto “sistema sicurezza aziendale”, è doveroso contestualizzare tale scelta in funzione nello scenario attuale del mercato del lavoro. Perché è così importante intervenire in tema di safety? Sicuramente la prima risposta, spontanea e altrettanto efficace, riguarda il grado di impreparazione con cui i datori di lavoro si sono trovati ad affrontare la sorveglianza sanitaria in epoca pandemica: la fotografia del tempo, che ha rilevato datori di lavoro inadempienti, datori di lavoro adempienti ma privi del giusto supporto medico, lavoratori spaesati e rischi completamente rivoluzionati, ha posto una doverosa riflessione in relazione alla scarsa efficacia normativa sul tema salute in ambiente di lavoro. Al netto degli interventi di natura emergenziale, gli interventi normativi successivi, fra cui il più recente operato dalla L. n. 85/2023, si sono posti l’obiettivo di non vincolare la sorveglianza sanitaria ad un elenco preciso di attività (dettato dalla normativa ordinaria o dalle norme speciali), ma di estenderne la portata e valutare la singola realtà, in funzione dell’organizzazione che ogni datore di lavoro ha inteso conferire al proprio sistema azienda. Ma, come era possibile comprendere anche dalla premessa, questa motivazione non è la sola che ha portato il Legislatore ad attenzionare il buono stato di salute dei lavoratori in ambiente di lavoro: una forte motivazione viene fornita dagli open data Inail, pubblicati con cadenza trimestrale sul portale dell’Istituto. Quando affrontiamo il concetto di cultura della prevenzione, la nostra attenzione si focalizza tendenzialmente sugli eventi di infortunio, sui quasi infortuni (near miss) e, quindi, sulle malattie professionali. La risonanza mediatica dei fenomeni di infortunio più gravi porta a concentrare la nostra attenzione sugli eventi incidentali ed alle loro conseguenze; il fenomeno della malattia professionale, che si palesa soltanto nel tempo in modo non improvviso e violento, è meno enfatizzato e quindi meno considerato. Tuttavia, per poter avere una visione concreta e completa delle condizioni di sicurezza caratterizzanti l’attuale mercato del lavoro, è necessario non tralasciare alcun aspetto collegato anche alla salute e non soltanto alla sicurezza; lo ricorda Inail, che ha recentemente pubblicato gli open data relativi a infortuni e malattie professionali del 2022. Analizzando brevemente i dati messi a disposizione dall’Istituto, rileviamo:

a) un deciso aumento delle denunce di infortunio, dovuto in parte al più elevato numero di denunce di infortunio da Covid-19 e in parte alla crescita degli infortuni “tradizionali”, sia in occasione di lavoro che in itinere, per una percentuale pari al 25.70%,

b) un calo di quelle mortali per il notevole minor peso delle morti da contagio, a cui si contrappone però il contestuale incremento dei decessi in itinere,

c) una crescita delle malattie professionali, per una percentuale pari a 9.90%. Cosa comunica nello specifico la recente pubblicazione Inail? Che il nostro mondo del lavoro sta invecchiando, ma contemporaneamente sta avanzando tecnologicamente; questo comporta la comparsa di nuovi rischi, collegati sia alla sicurezza che alla salute del lavoratore, spesso correlati a nuovi rischi psico sociali, strettamente connessi all’evoluzione soggettiva e oggettiva del mondo del lavoro. Per poter incentivare la diffusione della cultura della prevenzione è pertanto fondamentale guardare gli adempimenti in materia di salute e sicurezza con occhi nuovi e soprattutto attenti all’evoluzione darwiniana a cui quotidianamente assistiamo. Dopo questo esame, che voleva essere il più completo e oggettivo possibile, è sicuramente più semplice comprendere gli interventi normativi proposti dal ddl Lavoro e, al contempo, comprenderne anche eventuali limiti. Analizzando in maniera ordinata le modifiche apportare all’art. 41 del TUSL (Testo Unico Sicurezza sul Lavoro), possiamo schematizzare gli interventi mediante il seguente elenco:

1. Attivazione della sorveglianza sanitaria: in piena applicazione del principio di estensione (perlomeno potenziale) della sorveglianza sanitaria a ogni ambiente di lavoro -e a conferma di quanto già previsto dalle disposizioni della L. n. 85/2023-, sarà possibile attivare tale processo “qualora la valutazione dei rischi di cui all’articolo 28, svolta in collaborazione con il medico competente, ne evidenzi la necessità”. L’intervento è apprezzabile? Sicuramente sì, ma probabilmente non sarà sufficiente; dal punto di vista operativo non è infatti regolamentato il passaggio che prevede la necessità (e quindi sarebbe auspicabile la prescrizione) di confronto fra datore di lavoro e medico del lavoro, definendo un iter standard di valutazione e riconoscimento (o meno) del sistema di sorveglianza sanitaria in azienda. Dal lato pratico, la mancanza di un iter stabilito dalla norma, potrebbe comportare l’interpretazione distorta di valutazione indipendente da parte del datore di lavoro in tema di sorveglianza sanitaria, o ancora il rifiuto da parte di un medico del lavoro di esprimersi su una realtà aziendale a lui sconosciuta e che potrebbe anche in futuro rimanere tale.

2. Idoneità al lavoro: viene chiaramente prevista la possibilità di sottoporre il lavoratore a visita medica preventiva in fase preassuntiva, senza che questo passaggio costituisca una deroga espressa, ma una condizione ordinaria, modificando la lettera a del comma 2 e abrogando la lettera e-bis; si prevede inoltre che la visita medica al rientro da assenze di oltre sessanta giorni continuativi debba essere valutata dal medico competente, senza che questa diventi una conseguenza diretta prevista dalla norma. Sotto questo aspetto l’intento del legislatore è stato quello di razionalizzare un adempimento tanto importante, quanto -fino ad oggiproblematico: la visita medica in fase preventiva (ma non preassuntiva) ad oggi infatti ha originato problematiche di non poco conto, sia in termini di disponibilità del medico (con il rischio di dover sospendere l’assunzione o, ancora peggio, di impiegare nella mansione un lavoratore senza la conferma della relativa idoneità), che di eventuale ricollocazione del lavoratore, qualora non idoneo a tale mansione; è necessario ricordare che il lavoratore non idoneo alla mansione ad oggi non può essere oggetto di licenziamento sic et simpliciter, la collocazione della visita medica in uno spazio temporale antecedente rispetto all’assunzione potrebbe prevenire importanti contenziosi. In relazione invece alla visita medica al rientro dalle assenze prolungate, seppur il passaggio sia importante e di buon senso, sarà necessario comprendere come standardizzare questo percorso di riconoscimento, o prevedere un passaggio comunicativo con il medico che ad oggi mal funziona (per scarsa conoscenza dell’adempimento).

3. Sempre in ottica di razionalizzazione degli adempimenti, una nuova previsione dispone la possibilità, in capo al medico, di fruire degli esami già in precedenza svolti dal lavoratore in contesti lavorativi precedenti, senza prevedere obbligatoriamente la necessità di prescrivere nuovi esami. Questo passaggio risulta essere l’evoluzione naturale delle disposizioni contenute nella L. n. 85/2023, che ha previsto la necessità -in capo al lavoratore- di consegnare le cartelle cliniche relative ai precedenti rapporti di lavoro al nuovo medico competente, che ne terrà conto nella formulazione del giudizio di idoneità. A parere di chi scrive, questo aspetto del dettato normativo è una vera e propria misura di buon senso che, a fronte della razionalizzazione degli adempimenti e -quindi- dei costi da sostenere, potrebbe avvicinare con maggiore semplicità il datore di lavoro agli adempimenti (obbligatori) previsti dal TUSL.

4.Da ultimo, il testo del ddl apporta una modifica al passaggio relativo alla possibilità di impugnazione dei pareri di idoneità al lavoro, specificando che è necessario rivolgersi alla commissione ASL locale, eliminando il rimando generico agli organismi di vigilanza competenti.

A conclusione, una riflessione è d’obbligo: perché l’art. 2 del ddl Lavoro nulla prevede in termini di formazione? Nonostante la riconosciuta importanza strategica delle attività di formazione, informazione e addestramento, nulla in questa fase viene previsto e tutto tace anche dal fronte accordo Stato Regioni, che attendiamo dal giugno 2022. Nonostante le modifiche all’art. 41 non siano le uniche contenute all’interno dell’art. 2 in commento nel presente contributo, sicuramente -ancora una volta- l’attività di sorveglianza sanitaria la fa da padrone, con una consapevolezza più o meno presente da parte dei medici di medicina del lavoro.

1. A cura di Andrea Asnaghi, Consulente del Lavoro in Paderno Dugnano (Mi).

2. Vedi anche emblematico Trib. Pistoia 11/01/2008: “Un patto di prova di durata coincidente con quella del contratto a tempo determinato… appare piuttosto idoneo a svincolare il datore di lavoro dal regime di temporanea stabilità del rapporto, che può venire meno solo nell’ipotesi di sussistenza di giusta causa ex. art. 2119 cc”. Il problema, come è evidente, si poneva e si pone in tutti quei casi ove la contrattazione collettiva prevede un determinato periodo di prova in corrispondenza di una certa mansione o livello, ma la durata del contratto è inferiore o uguale (o solo leggermente superiore) a quella della prova.

3. Anzi, per come è scritta, la norma si pone proprio come chiusura rispetto alle determinazioni della contrattazione collettiva: avendo fissato prima un preciso metodo di calcolo, la differente misura che ora si presenta non può che precludere in senso assoluto qualsiasi diversa disposizione.

4. Cfr Corte Cost. n. 204/1976 e n. 189/1980.

5. A cura di Bruno Olivieri, Consulente del Lavoro in Pescara.

6. A cura di Barbara Garbelli, Consulente del Lavoro in Castel San Giovanni (Pc).

7. D.l. n.146/2021, convertito in L. n.215/2021, D.l. n.48/2023, convertito in L. n. 85/2023.


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