Ha fatto molto discutere il tema della certifcazione fiscale prevista per il rilascio della patente a crediti. Qui offriamo di seguito due letture che offrono sfumature diverse sull’argomento.
PER POCHI E NON PER TUTTI
di Alberto Borella
Sulla patente a crediti si è scritto, si sta scrivendo e, ne sono più che certo, si scriverà ancora tantissimo. Questo articolo vuole dedicarsi al Regolamento relativo all’individuazione delle modalità di presentazione della domanda per il conseguimento della patente per le imprese e i lavoratori autonomi operanti nei cantieri temporanei o mobili previsto dall’art. 1 del Decreto n. 132 del 18.09.2024 che così dispone:
.Ai fini del rilascio della patente in formato digitale i soggetti di cui all’articolo 27, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, presentano domanda attraverso il portale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, dalla quale risulta il possesso dei seguenti requisiti:
a. iscrizione alla camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura;
b. adempimento, da parte dei datori di lavoro, dei dirigenti, dei preposti, dei lavoratori autonomi e dei prestatori di lavoro, degli obblighi formativi previsti dal decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81;
c. possesso del documento unico di regolarità contributiva in corso di validità;
d. possesso del documento di valutazione dei rischi, nei casi previsti dalla normativa vigente;
e. possesso della certificazione di regolarità fiscale, di cui all’articolo 17-bis, commi 5 e 6, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, nei casi previsti dalla normativa vigente;
f. avvenuta designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, nei casi previsti dalla normativa vigente.
In particolare ci soffermeremo sul requisito individuato dalla lettera e) ovvero il possesso del cosiddetto DURF. Va da subito sottolineata una cosa. La norma non si limita a richiedere il possesso della certificazione di regolarità fiscale, di cui all’articolo 17-bis, commi 5 e 6, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241 ma precisa nei casi previsti dalla normativa vigente.
E cosa recita l’art. 17-bis ai commi 5 e 6? 5.
Gli obblighi previsti dal presente articolo non trovano applicazione qualora le imprese appaltatrici o affidatarie o subappaltatrici di cui al comma 1 comunichino al committente, allegando la relativa certificazione, la sussistenza, nell’ultimo giorno del mese precedente a quello della scadenza prevista dal comma 2, dei seguenti requisiti: a) risultino in attività da almeno tre anni, siano in regola con gli obblighi dichiarativi e abbiano eseguito nel corso dei periodi d’imposta cui si riferiscono le dichiarazioni dei redditi presentate nell’ultimo triennio complessivi versamenti registrati nel conto fiscale per un importo non inferiore al 10 per cento dell’ammontare dei ricavi o compensi risultanti dalle dichiarazioni medesime; b) non abbiano iscrizioni a ruolo o accertamenti esecutivi o avvisi di addebito affidati agli agenti della riscossione relativi alle imposte sui redditi, all’imposta regionale sulle attività produttive, alle ritenute e ai contributi previdenziali per importi superiori ad euro 50.000, per i quali i termini di pagamento siano scaduti e siano ancora dovuti pagamenti o non siano in essere provvedimenti di sospensione. Le disposizioni di cui al periodo precedente non si applicano per le somme oggetto di piani di rateazione per i quali non sia intervenuta decadenza. 6. A decorrere dalla data di applicazione della presente disposizione, la certificazione di cui al comma 5 è messa a disposizione delle singole imprese dall’Agenzia delle entrate e ha validità di quattro mesi dalla data del rilascio.
Una cosa che vari commentatori hanno evidenziato è che non esiste alcuna norma che impone il “possesso” del cosiddetto DURF, documento invece previsto all’interno del D.lgs. n. 241/1997 quale alternativa, una semplificazione, consentendo ai soggetti individuati dal comma 1 dell’art. 17-bis, di bypassare quanto previsto a loro carico dal comma 2.
Fatta questa premessa torniamo ad analizzare il requisito di cui alla lettera e). Se il legislatore si fosse limitato a dire che è richiesto il possesso della certificazione di regolarità fiscale, di cui all’articolo 17-bis, commi 5 e 6 ” avremmo concluso per la introduzione di un obbligo, in capo all’esecutore dei lavori, di ottenere il DURF sulla base della disciplina prevista per il suo rilascio al comma 5, lettere a) e b), restando irrilevante l’intero contesto normativo, l’art. 17-bis, ove la stessa è stata prevista (peraltro a tutt’altro fine). Ciò avrebbe comportato che potevano chiedere ed ottenere la certificazione dall’Agenzia Entrate solo le aziende che: – risultino in attività da almeno tre anni; – siano in regola con gli obblighi dichiarativi; – abbiano eseguito nel corso dei periodi d’imposta cui si riferiscono le dichiarazioni dei redditi presentate nell’ultimo triennio complessivi versamenti registrati nel conto fiscale per un importo non inferiore al 10 per cento dell’ammontare dei ricavi o compensi risultanti dalle dichiarazioni medesime; – non abbiano iscrizioni a ruolo o accertamenti esecutivi o avvisi di addebito affidati agli agenti della riscossione relativi alle imposte sui redditi, all’imposta regionale sulle attività produttive, alle ritenute e ai contributi previdenziali per importi superiori ad euro 50.000, per i quali i termini di pagamento siano scaduti e siano ancora dovuti pagamenti o non siano in essere provvedimenti di sospensione (salvo si tratti somme oggetto di piani di rateazione per i quali non sia intervenuta decadenza). Ove così fosse va stabilito cosa succede a coloro che, per le limitazioni imposte dalla richiamata disciplina, non sono in grado di richiederlo.
Due le possibilità:
1. Considerarli esonerati ex lege dal possesso del DURF (dato che, a causa delle regole stabilite per la presentazione dell’istanza, costoro non lo potrebbero mai richiedere) e pertanto tutti autorizzati ad operare sui cantieri, compresi coloro che risultano avere iscrizioni a ruolo … per importi superiori ad euro 50.000.
2. Considerarli impossibilitati ex lege ad ottenere il DURF (nonostante che la presentazione dell’istanza venga a costoro inibita senza una loro specifica responsabilità) vietando a tutti costoro l’operatività nei cantieri, anche a quelli che risultino in attività da almeno tre anni. Che sia l’una o l’altra risposta direi che si fa fatica a capirne la logica.
Ma il legislatore ha voluto pure aggiungere nei casi previsti dalla normativa vigente.
Ecco che allora la disciplina rimane quella prevista al comma 5 ma, la norma vigente che prevede in capo all’esecutore di un’opera il possesso del DURF (o meglio, di poter optare per presentare al committente questo specifico documento quale alternativa ad un adempimento molto più complesso quale è quello previsto dal comma 2), è stabilita dall’intero art. 17-bis e più precisamente al comma 1: 1. In deroga alla disposizione di cui all’articolo 17, comma 1, i soggetti di cui all’articolo 23, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, residenti ai fini delle imposte dirette nello Stato … che affidano il compimento di una o più opere o di uno o più servizi di importo complessivo annuo superiore a euro 200.000 a un’impresa, tramite contratti di appalto, subappalto, affidamento a soggetti consorziati o rapporti negoziali comunque denominati caratterizzati da prevalente utilizzo di manodopera presso le sedi di attività del committente con l’utilizzo di beni strumentali di proprietà di quest’ultimo o ad esso riconducibili in qualunque forma, sono tenuti a richiedere all’impresa appaltatrice o affidataria e alle imprese subappaltatrici, obbligate a rilasciarle, copia delle deleghe di pagamento relative al versamento delle ritenute … trattenute dall’impresa appaltatrice o affidataria e dalle imprese subappaltatrici ai lavoratori direttamente impiegati nell’esecuzione dell’opera o del servizio.
Qui i commentatori, unanimi, hanno individuato una serie di requisiti, previsti appunto dalla normativa vigente, al verificarsi dei quali è imposto al committente (non all’esecutore) la verifica prevista dal comma 2, alla quale l’esecutore, volendo, può dare riscontro tramite il DURF.
Questi presupposti sono, e ce lo precisa correttamente anche la circolare Agenzia Entrate n. 1 del 12 febbraio 2020:
a) l’affidamento a un’impresa del compimento di un’opera o più opere o di uno o più servizi di importo complessivo annuo superiore ad euro 200.000;
b) l’affidamento di cui al punto sub a) deve avvenire tramite contratti di appalto, subappalto, affidamento a soggetti consorziati o rapporti negoziali comunque denominati;
c) i contratti di cui al punto sub b) devono essere caratterizzati da: c1) prevalente utilizzo di manodopera; c2) prestazione svolta presso le sedi di attività del committente; c3) utilizzo di beni strumentali di proprietà del committente o ad esso riconducibili in qualunque forma.
Quello che invece non è stato evidenziato è un ulteriore requisito previsto dalla norma e che compare proprio nell’incipit del comma 1. Rileggiamolo insieme:
In deroga alla disposizione di cui all’articolo 17, comma 1, i soggetti di cui all’articolo 23, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 …
Eh sì, il comma 1 dell’art. 17-bis si riferisce esclusivamente ai committenti che rivestono la qualifica di sostituti d’imposta sui redditi di lavoro dipendente e assimilati. Questo significa che, qualora alla data di presentazione della richiesta della patente a crediti, le imprese e i lavoratori autonomi (operanti nei cantieri temporanei o mobili) avessero ricevuto l’appalto da un committente privato, ergo non sostituto di imposta, non soggiacciono ad alcun obbligo di attestare al predetto committente la loro regolarità fiscale, DURF compreso. Questo perché il loro committente privato non ha l’obbligo di tale verifica. Un’esenzione peraltro confermata dalla sopra richiamata circolare della Agenzia Entrate dove possiamo leggere:
Sono poi esclusi dall’ambito di applicazione del comma 1 dell’articolo 17-bis i soggetti residenti che non esercitano attività d’impresa o non esercitano imprese agricole o non esercitano arti o professioni, perché non rientrano tra i soggetti di cui all’articolo 23, comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973. Si pensi alle persone fisiche e alle società semplici che non esercitano attività d’impresa o agricola o arti o professioni. Anche i condomìni sono da escludersi dall’ambito di applicazione del comma 1 dell’articolo 17-bis perché, pur rientrando tra i soggetti di cui al comma 1 dell’articolo 23 del d.P.R. n. 600 del 1973 … non detengono in qualunque forma beni strumentali, in quanto non possono esercitare alcuna attività d’impresa o agricola o attività professionale.
Se così fosse anche con questa lettura risulterebbero esonerate dal dichiarare il possesso della certificazione di regolarità fiscale moltissime imprese, non solo quelle che non hanno in corso appalti per importi superiori ai 200.000 euro, ma anche chi, al momento della richiesta della patente, un simile appalto lo stesse ricevendo direttamente da un privato. Anche così si fa fatica a trovare una logica in un requisito che dovrebbe essere di garanzia – e parliamo di sicurezza sul lavoro – ma che poi è richiesto a macchia di leopardo. Infatti è vero che verrebbe esonerato l’appaltatore che ha ricevuto l’affidamento dei lavori da un privato, ma non lo sarebbe l’impresa che nel medesimo cantiere (sopra i 200.000 euro e nel quale il committente principale è un privato1 ) opererebbe come subappaltatore. Costui infatti, aspirante patentato, avendo quale proprio committente un sostituto di imposta, ricadrebbe nell’obbligo di attestare il “possesso” della certificazione di regolarità fiscale. Qualche risposta sul tema è auspicabile.
PER UNO, NESSUNO E CENTOMILA.
di Andrea Asnaghi
Sfruttando il riepilogo normativo che l’amico e collega Borella ha già effettuato e che quindi non replicheremo, sia qui concesso offrire deduzioni parzialmente differenti, non senza valorizzare l’osservazione finale sull’aspetto dell’esclusione soggettiva, con cui concordo in pieno. Cominciamo con l’osservare che il testo originario del D.l. n. 19/2024, così come ci è stato consegnato dalla G.U. aveva previsto fra i requisiti per l’ottenimento della patente a crediti “il Documento di Regolarità Fiscale (DURF)”.
Il testo è stato opportunamente corretto in sede di conversione del Decreto, in funzione del fatto che DURF (a differenza di DURC) è solo il soprannome affibbiato per semplificazione ed assonanza (con il DURC) alla certificazione di cui ai commi 5 e 6 dell’art. 17 del D.lgs. n. 241/97. Ora, citare un soprannome in un documento ufficiale (quale è la G.U.) appare un po’ come se sulla propria carta d’identità l’indimenticabile e mitica signora Anna Maria Mazzini fosse stata identificata dal Comune semplicemente come Mina, se non addirittura come “La tigre di Cremona”. Evidentemente, l’intenzione iniziale del legislatore era quello di affiancare alla regolarità contributiva (DURC) un accertamento del medesimo o similare spessore relativamente alla parte fiscale. Se non ci credete, provate a leggere la circolare INL n. 4/2024, che sul punto ha aggiunto ulteriore incertezza: “Con particolare riferimento alla regolarità contributiva e fiscale, di cui alle lettere c) ed e), la dichiarazione attiene alla circostanza di essere in regola con gli adempimenti richiesti dalla relativa disciplina normativa vigente”. Il legislatore, accortosi di aver previsto inizialmente l’ottenimento di un documento formalmente inesistente (il DURF, appunto, che non ha alcun riscontro in realtà) ha giustamente rettificato il testo normativo specificando i termini della certificazione in oggetto. Ovviamente va accolta con pregio l’osservazione del precedente contributo, per cui il legislatore non si è soffermato ai commi 5 e 6, aggiungendo “nei casi previsti dalla normativa vigente”. Tuttavia, la frase è indubbiamente ambigua per due ordini di motivi: a) la previsione di una normativa è di solito correlata ad un obbligo, ad un precetto; ma qui nessun precetto impone di ottenere tale certificazione, la quale – come giustamente osservato dal collega che qui mi ha preceduto – è solo una facoltà facilitativa, a libera opzione dell’appaltatore; anzi, a ben vedere, a libera opzione del committente, il quale potrebbe anche decidere di fidarsi dell’appaltatore (o di acquisire altra documentazione da lui ritenuta idonea all’uopo) senza infilarsi nel ginepraio burocratico2 previsto dal D.lgs. n. 241/97. b) ma ben più problematico è individuare quali siano “i casi previsti dalla normativa vigente.”. Oltre all’amico Borella, altri illustri ed autorevoli commentatori (fra cui la Fondazione Studi dei Consulenti del lavoro) hanno convenuto sull’interpretazione per cui i casi sono quelli delle già ricordate 4 caratteristiche (appalti o affidamenti superiori a 200.000 euro, etc.). Ma se tale fosse l’interpretazione esatta della norma, a questo punto l’appaltatore a cui difettasse uno dei requisiti per richiedere la certificazione (es. attività inferiore a tre anni) sarebbe escluso dall’operare in cantiere. Ipotesi possibile ma ingiusta: l’art. 17/bis prevedeva in questo caso un adempimento tortuoso ma non un’impossibilità tout court. Allora potremmo ricorrere al considerare che i casi previsti dalla norma siano invece quelli solo delle tre caratteristiche per ottenere la certificazione. Questa a me sembra l’interpretazione invero più assonante alla lettera normativa, ed anche in parte aderente alla ratio della disposizione, quantomeno nella sua aspirazione di individuare una caratteristica di regolarità il più possibile universale3 . Queta tesi è ciò che ha portato moltissimi soggetti ad inoltrare la richiesta. In tal caso, tuttavia, chi non ha, incolpevolmente, i requisiti soggettivi per richiedere la certificazione non resterebbe escluso dall’operare in cantiere, in forza del noto principio per il quale ad impossibilia nemo tenetur. La maggior parte dei commentatori (fra cui l’amico Borella e la Fondazione Studi) suggerisce l’unione dei due criteri (il campo di applicazione dell’art- 17/bis unito con i requisiti per ottenere la certificazione). La soluzione è indubbiamente un compromesso di assoluto buonsenso, senza esclusioni immeritate e con contemporanea deflazione della burocrazia (placare le richieste affannose ad Agenzia delle Entrate, come si riscontrano in questi giorni): se rientri nella 4 caratteristiche del campo di applicazione e contemporaneamente sei nelle 3 condizioni per poter richiedere la certificazione, allora la devi avere, altrimenti non sei tenuto. Tuttavia, a ben vedere, anche tale soluzione si incarta su un aspetto fondamentale: il legislatore ha ritenuto particolarmente a rischio proprio il soggetto che presenta insieme le due caratteristiche (un affidamento labour intensive di fatturazione elevata e con elementi rasentanti la somministrazione illecita, uniti con aspetti di fiscalità sospetta o quantomeno non rassicurante); ma quest’ultima soluzione di compromesso/buonsenso finirebbe per salvare a prescindere proprio tale situazione di (presunta) criticità, non obbligata a nessuna certificazione4 . In altre parole, ne verrebbe in buona parte vanificato lo scopo (seppur maldestramente realizzato dall’art 17/bis) di ostacolare l’attività di chi presenta situazioni particolarmente irregolari o comunque presumibilmente sospette: la circolare n. 1/2020 dell’Agenzia delle Entrate parlava esplicitamente di soggetti apri-chiudi per evitare i controlli. Insomma, si palesa una situazione kafkiana (anzi pirandelliana, per far onore al titolo), e tutto per non ammettere che la norma in questione sul cosiddetto DURF si avviluppa su se stessa in un circolo vizioso, tanto che chiunque vi metta mano rischia di entrare in contraddizione con se stesso o con le finalità della legge; ciò mi ricorda un po’ quella fattispecie che in psicologia della comunicazione si chiama doppio legame, una situazione ab origine ambigua che genera la conseguenza che qualsiasi cosa tu dica dopo sbagli. In aggiunta, con il rischio, non secondario, di introdurre un principio paradossale sicuramente non rientrante nelle intenzioni del legislatore ma teoricamente sostenibile proprio per il peccato originale dell’espressione normativa: nessuno sarebbe in realtà tenuto a tale certificazione fiscale non essendone previsto da alcuna norma l’obbligo; a ben vedere, infatti, l’art. 17/bis prevede un obbligo teorico solo del committente, tant’è che la vera sanzione, civile, riguarda proprio unicamente il committente, responsabile in solido per ritenute e sanzioni se non attua i controlli, sanzioni anch’esse peraltro teoriche perché se le ritenute fiscali sono operate correttamente, al committente nemmeno può essere imposto o contestato nulla. La norma avrebbe pertanto senso compiuto solo quando qualche passaggio legislativo intervenisse a sancire una previsione (obbligo) in tal senso (peccato che la patente sarà già belle che conseguita). Ma noi non sposeremmo mai questa tesi: non siamo sicuramente dalla parte dell’elusione5 , anzi è proprio per la voglia di legalità che sentiamo l’esigenza di una normazione più attenta alle proprie ricadute.