Una nuova sentenza della cassazione
I l datore di lavoro quale garante della sicurezza continua a collocarsi al centro dell’attenzione giurisprudenziale. Fanno scuola tre insegnamenti della Corte Suprema. Primo insegnamento. Come ha affermato la fondamentale Cass. Pen., sez. IV, 27 febbraio 2023, n. 8476, nelle imprese gestite in forma di società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni ed igiene sul lavoro, posti dalla legge a carico del datore di lavoro, gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione salvo il caso di delega gestoria, validamente conferita a norma dell’art. 2381 c.c., della posizione di garanzia ad uno o più dei suoi componenti. Secondo insegnamento. Il datore di lavoro risponde a prescindere dalla sua competenza tecnica (così, ad esempio, Cass. Pen., sez. IV, 11 gennaio 2022, n. 425), né può esimersi da ogni responsabilità trasferendo ad altri le funzioni antinfortunistiche mediante la delega di cui all’art. 16, D.lgs. n. 81/2008, e ciò per due ragioni: la prima è che, in forza dell’art. 17, comma 1, D.lgs. n. 81/2008, due obblighi del datore di lavoro sono addirittura indelegabili, a partire dall’obbligo più impegnativo in assoluto, la valutazione dei rischi. E la seconda ragione è che, in base all’art. 16, comma 3, D. lgs. n. 81/2008, il datore di lavoro delegante conserva comunque l’obbligo di vigilanza sull’adempimento da parte del delegato delle funzioni trasferite. Tanto è vero che proprio ultimamente Cass. Pen., sez. IV, 24 aprile 2024, n. 17106 ci ha ricordato che non potrebbe andare esente da responsabilità il datore di lavoro allorché le carenze nella disciplina antinfortunistica attengano a scelte di carattere generale della politica aziendale ovvero a carenze strutturali, rispetto alle quali nessuna capacità di intervento possa realisticamente attribuirsi al delegato alla sicurezza. Terzo insegnamento. Il datore di lavoro ha l’obbligo di analizzare, secondo la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all’interno dell’azienda e, all’esito, di redigere e sottoporre ad aggiornamenti periodici il documento di valutazione dei rischi previsto dall’art. 28, D.lgs. n. 81/2008, all’interno del quale è tenuto ad indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori (Cass. Pen., sez. IV, 16 aprile 2024, n. 15621). Sulla scia di questi tre insegnamenti la Corte Suprema perviene a una conclusione severa: “La redazione del documento di valutazione dei rischi e l’adozione di misure di prevenzione non escludono la responsabilità del datore di lavoro quando, per un errore nell’analisi dei rischi o nell’identificazione di misure adeguate, non sia stata adottata idonea misura di prevenzione”. Non s’illuda, insomma, il datore di lavoro di essere perdonato per un errore nella valutazione di rischi che pur possono risultare problematici. Quel datore di lavoro che si colloca al vertice dell’impresa e che risponde a prescindere dalla competenza tecnica, non può permettersi di sbagliare. Ecco perché tra le novità apportate dalla Legge n. 215/2021 e dal Decreto legge Lavoro ha finito per far sperare quella modifica dell’art. 37, comma 7, D.lgs. n. 81/2008 che impone l’obbligo di formazione, non solo di dirigenti e preposti, ma anche dello stesso datore di lavoro. Solo che questo obbligo è condizionato a un Accordo Stato-Regioni da adottare entro il 30 giugno 2022: il 30 giugno 2022 è trascorso, ma il promesso Accordo Stato-Regioni non ha ancora visto la luce, e ci dobbiamo accontentare di bozze, per giunta più o meno entusiasmanti. In questo clima tutt’altro che sereno per il datore di lavoro, non passi inosservata l’ultima novità. Cass. Pen., sez. IV, 15 aprile 2024, n. 15406 inaspettatamente socchiude una porta al datore di lavoro in un caso d’infortunio occorso a un lavoratore ustionato da schizzi di alluminio in uno stabilimento produttivo. Premette che l’imputato nega la colpevolezza in senso soggettivo, essendosi avvalso di un esperto per la individuazione del rischio e degli strumenti idonei a prevenirlo. Sostiene che, affinché possa escludersi la colpa del datore di lavoro che si sia avvalso di “saperi esperti” per la individuazione del rischio e delle modalità per prevenirlo, è necessario che l’informazione fornita dal tecnico non sia verificabile dal datore di lavoro tramite proprie competenze e la ordinaria diligenza. Nota, peraltro, che nel caso di specie guanti in pelle, alti solo sino al polso, grembiule e pantaloni della tuta in cotone, anziché indumenti “alluminizzati”, e occhiali da lavoro senza calotta che protegga il viso ed il capo, non erano, con intuitiva evidenza, idonei a riparare il corpo da pericolosi schizzi di alluminio fuso a 700 gradi. Osserva che si tratta di ragionamento non dissimile, naturalmente mutatis mutandis, da quello che consente di individuare i limiti al principio di affidamento nell’ambito della colpa professionale sanitaria: la posizione di garanzia del sanitario, anche agente in équipe, comporta la necessità che lo stesso faccia presente ai colleghi, anche se più anziani ed anche al capo-équipe, eventuali errori che possano essere colti con le proprie cognizioni tecniche e con la necessaria diligenza. Ne ricava che, allo stesso modo, il datore di lavoro ha il dovere di rilevare eventuali rischi non evidenziati dal responsabile del servizio di prevenzione e protezione ovvero la inadeguatezza della modalità di prevenzione dei rischi pur in effetti correttamente evidenziati, sempre che ciò emerga con la ordinaria diligenza sulla base di competenze tecniche di diffusa conoscenza ovvero di regole di comune esperienza. Insegna che una saggia e prudente applicazione del discrimine indicato (tramite la valorizzazione di conoscenze, anche tecniche, diffuse, ove eventualmente esistenti, e della ordinaria diligenza) può contribuire al raggiungimento di risultati in cui, esclusi automatismi decisori, l’affermazione del diritto si coniughi con la soluzione secondo giustizia del caso concreto.