Qualche mese fa su questa Rivista, nella rubrica Una proposta al mese, avevamo affrontato la problematica dei conviventi di fatto ritenendo necessario un intervento legislativo onde definire il loro inquadramento, anche e soprattutto dal punto di vista previdenziale1 . Ad oggi infatti l’Inps ritiene che – seppur la nuova normativa, introdotta dalla Legge n. 76 del 20 maggio 2016, estenda al convivente alcune tutele in materia penitenziaria, sanitaria e abitativa – non abbia introdotto alcuna equiparazione di status, né estenda al convivente, per quanto di interesse, gli stessi diritti/ obblighi di copertura previdenziale previsti per il familiare coadiutore. Nessun rilievo pratico assumerebbe quindi l’introduzione del nuovo art. 230-ter c.c. che ha previsto il diritto alla partecipazione agli utili dell’impresa in modo commisurato al lavoro stabilmente prestato all’interno dell’impresa (sempre che non sussista già un rapporto di subordinazione o di società tra le parti). Per l’Istituto infatti tale innovazione non attribuisce ai conviventi di fatto i medesimi diritti di cui godono i familiari individuati dall’art. 230-bis c.c., poiché a tal fine il legislatore avrebbe utilizzato locuzioni idonee ad includere il convivente nella formulazione del predetto articolo e non avrebbe al contrario introdotto un nuovo articolo, che disciplina separatamente i diritti del convivente che presti attività in un’impresa familiare. Conclude l’Istituto precisando come l’eventuale attribuzione di utili d’impresa al convivente di fatto, da parte del titolare, ai sensi del nuovo articolo 230-ter, non abbia alcuna conseguenza in ordine all’insorgenza dell’obbligo contributivo del convivente alle gestioni autonome, mancando i necessari requisiti soggettivi, dati dal legame di parentela o affinità rispetto al titolare. In pratica i conviventi di fatto, poiché esclusi dagli obblighi previdenziali Ivs Commercianti e Ivs Artigiani, sono inquadrabili in rapporto di subordinazione o di società tra le due parti oppure in una prestazione affectionis vel benevolentiae causa. Una recente sentenza della Cassazione, la numero 9778 dell’11 aprile 2024, ci costringe a tornare sull’argomento.
I FATTI IN CAUSA
La vicenda vedeva in esame la convivenza more uxorio di Capaldo Fabrizio e Troiani Domiziana, al termine della quale la signora otteneva l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato in funzione della attività espletata dalla Troiani nell’ambito della struttura commerciale avente ad oggetto la vendita e riparazione di articoli sportivi nella titolarità del Capaldo. La Corte distrettuale aveva infatti ritenuto provato lo stabile inserimento della Troiani nella organizzazione aziendale del compagno; in particolare era emerso che la Troiani si era quotidianamente occupata della gestione amministrativa e contabile dell’esercizio commerciale, intrattenendo rapporti con clienti e fornitori, che era presente nei giorni e negli orari di apertura al pubblico, che si era occupata dell’organizzazione e della tenuta di corsi base relativi all’attività subacquea destinati ai principianti. Interessata della questione, la Cassazione premetteva il suo costante orientamento secondo il quale ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro subordinato si presume effettuata a titolo oneroso, ma può essere ricondotta ad un rapporto diverso, istituito “affectionis vel benevolentiae causa”, caratterizzato dalla gratuità della prestazione, ove risulti dimostrata la sussistenza della finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa. A giudizio della Suprema Corte la sentenza impugnata ha ampiamente argomentato con riferimento a circostanze fattuali emerse dalla prova orale in ordine alle ragioni che escludevano la gratuità della prestazione, in particolare valorizzando la quotidiana e costante presenza della Troiani presso la struttura del compagno, il suo pieno inserimento nella relativa gestione amministrativo contabile e nella organizzazione del lavoro, anche implicante la spendita di specifiche competenze professionali.
UNA SENTENZA CHE NON CONVINCE
Ormai lo sappiamo bene: quando una norma è scritta male o non si occupa di una determinata fattispecie, lasciare che sia la magistratura a decidere sulla questione non è mai una buona idea. E infatti anche in questo caso i principi di diritto enunciati dalla Suprema Corte appaiono a chi scrive poco convincenti. Partiamo dall’analisi della condizione di convivenza more uxorio – ovvero “secondo il costume (mōre) matrimoniale (uxōrio)” – che sta a indicare la situazione di due persone che convivono stabilmente senza aver contratto matrimonio. Parliamo di due soggetti che abitano sotto lo stesso tetto, che dormono insieme, che si aiutano vicendevolmente nelle faccende di casa, che insieme pagano le bollette, vanno a fare la spesa e mangiano insieme, che programmano la vita insieme. Due che insieme allevano pure la prole. Poco importa se uno fa di più o mette di meno: la convivenza resta tale. Del resto anche nel matrimonio accade spesso che l’equilibrio sia a sfavore talvolta dell’uno e talvolta dell’altro. Ma questo non rileva. Ce le ricordiamo le battaglie sull’art. 143 del codice civile per valorizzare il lavoro “casalingo” all’interno della coppia? Insomma, marito e moglie ma senza il “bollino”, civile o religioso che sia. E proseguiamo poi con la disamina dell’altro brocardo latino affectionis vel benevolentiae causa, ossia “per motivo di affetto e benevolenza”. È questa una espressione che ricorre nel diritto privato (spesso nel campo del diritto del lavoro) per qualificare quei rapporti in cui le prestazioni rese da un soggetto nei confronti di un altro non trovano la loro ragione in un rapporto contrattuale sinallagmatico oneroso, ma sono motivate da principi di ordine morale o religioso (riconoscenza, solidarietà) o da vantaggi che si spera di trarre dall’attività e per questo caratterizzate dalla presunzione relativa di gratuità della prestazione. Parliamo di quel particolare stato d’animo che spinge qualcuno a fare qualcosa per l’altro non per un diretto tornaconto economico. Anche in questo caso non importa la quantità della “prestazione”. Lo vediamo nella varie Onlus: c’è chi fa di più e chi fa di meno. Ma questo non inficia lo spirito altruistico e solidaristico che li anima. Chiariti questi due aspetti non possiamo non sottolineare come la sentenza n. 9778/2024 fornisca delle indicazioni contrastanti con quanto sopra detto. Vediamoli questi passaggi.
Davanti ad un convivente che chiede l’accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze del proprio convivente, gli Ermellini partono da un principio di diritto ormai consolidato: ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro subordinato si presume effettuata a titolo oneroso, ma può essere ricondotta ad un rapporto diverso, istituito “affectionis vel benevolentiae causa”, caratterizzato dalla gratuità della prestazione, ove risulti dimostrata la sussistenza della finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa. Il secondo principio che viene richiamato ci ricorda che l’attività lavorativa e di assistenza svolta in favore del convivente “more uxorio” assume una siffatta connotazione quando sia espressione dei vincoli di solidarietà ed affettività di fatto esistenti, alternativi a quelli tipici di un rapporto a prestazioni corrispettive, quale il rapporto di lavoro subordinato, benché non possa escludersi che, talvolta, essa trovi giustificazione proprio in quest’ultimo, del quale deve fornirsi prova rigorosa, e la cui configurabilità costituisce valutazione, riservata al giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità ove adeguatamente motivata. E fin qui bene. Quello che non convince – quantomeno chi scrive – è il prosieguo del ragionamento fatto dagli Ermellini. Abbiamo visto come la Cassazione sostenga che non possa escludersi che “talvolta” (avverbio che indica il ripetersi saltuario di un evento) l’attività lavorativa e di assistenza svolta in favore del convivente more uxorio possa anche trovare giustificazione in un rapporto a prestazioni corrispettive, del quale – in quanto eccezione – dovrà “ fornirsi prova rigorosa”. E quale sarebbe la prova rigorosa che deve essere fornita dal convivente? Per la Suprema Corte le circostanze fattuali, idonee ad escludere la gratuità della prestazione, sono la quotidiana e costante presenza della Troiani presso la struttura del compagno, il suo pieno inserimento nella relativa gestione amministrativo contabile e nella organizzazione del lavoro, anche implicante la spendita di specifiche competenze professionali (v. in particolare per l’attività svolta quale istruttrice subacquea diplomata). La prova rigorosa deriva quindi dalla quantità della prestazione. Non dalla eterodirezione (esprimendosi questa in forma attenuata nel rapporto sentimentale e di convivenza more uxorio), non da una accertata assenza di vincoli di solidarietà e affettività, ma dalla entità dell’attività svolta. Che sarebbe come dire che se uno viene un giorno la settimana in negozio ad aiutarti lo fa gratis, se ci viene tutti i giorni di apertura ha diritto ad esser pagato. E se venisse quattro giorni la settimana? Ma non solo. Per la Corte l’affetto e la benevolenza devono essere esclusi qualora emergesse il carattere “assorbente” delle energie dedicate dalla convivente, pienamente inserita nella vita della struttura, di intensità tale da precluderle lo svolgimento di autonoma attività lavorativa, a giustificare le conclusioni attinte dai giudici di merito in punto di non gratuità dell’attività espletata. Anche qui possiamo così riassumere: se qualcuno sacrifica la propria vita professionale per il/la compagno/a allora deve essere pagato. Ma quando è che uno sacrifica la propria carriera per l’altro? Quanti giorni vanno dedicati all’azienda del convivente per precludersi lo svolgimento di autonoma attività lavorativa? Questi due passaggi non sono che il naturale corollario di quanto affermato nella stessa sentenza ove si sostiene che in punto di accertamento della natura subordinata del rapporto reso nell’ambito di convivenza more uxorio occorre muovere dalla considerazione che le unioni di fatto, quali formazioni sociali rilevanti ex art. 2 Cost., sono caratterizzate da doveri di natura morale e sociale, di ciascun convivente nei confronti dell’altro, che si esprimono anche nei rapporti di natura patrimoniale e si configurano come adempimento di un’obbligazione naturale ove siano rispettati i principi di proporzionalità ed adeguatezza. Anche qui si individuano altri due criteri: quello di proporzionalità e quello di adeguatezza. Due limiti che, ça va sans dire, non sono oggettivamente individuabili. Chi deciderà cosa è congruo e cosa non è equo? Davvero vogliamo affidare questa decisione all’arbitrio di un giudice?