Con la vigenza del Decreto Dignità (D.l. n. 87/2018) cambia, in maniera molto evidente, l’approccio dell’impresa al contratto di somministrazione di lavoro a termine, ciò in quanto tale tipologia contrattuale, dal 14 luglio 2018 (data di entrata in vigore del decreto legge) è soggetta, quasi totalmente, alla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato.
Per spiegare molto brevemente l’evoluzione (per alcuni considerata involuzione) della normativa, è il caso di fare un passo indietro, andando ad indicare ciò che prevedeva la somministrazione prima del 14 luglio.
La somministrazione di lavoro a termine riprendeva i limiti previsti dalle regole sui contratti a tempo determinato, qualora compatibili, ad esclusione degli art. 19, co. 1, 2 e 3, 21, 23 e 24. Ciò significava che non erano previste le seguenti limitazioni, presenti esclusivamente nei rapporti diretti a tempo determinato:
limite di durata dei 36 mesi per contratto;
limite di durata massima;
contratto assistito;
5 proroghe;
stop and go;
limite quantitativo dei lavoratori a termine;
diritto di precedenza.
Un appunto particolare riguarda il limite massimo di durata (punto 2) che è dato dalla commistione dei contratti a tempo determinato ordinari e dei periodi di missione nell’ambito di somministrazioni di lavoro a termine. Detto limite rappresentava un “blocco” esclusivamente alla stipulazione dei contratti a tempo determinato e non al ricorso alla somministrazione. Lo stesso Ministero del Lavoro, con la circolare n. 18/2012, era intervenuto sull’argomento specificando che una volta raggiunto tale limite (36 mesi) il datore di lavoro poteva ricorrere alla somministrazione a tempo determinato con lo stesso lavoratore, in quanto detta limitazione non era stata prevista nelle regole relative alla somministrazione di lavoro ma esclusivamente alle regole dei contratti a tempo determinato diretto.
Con detta affermazione, l’azienda era libera, raggiunti i 36 mesi, di usufruire, ancora “a tempo”, delle prestazioni del lavoratore girandolo all’agenzia di lavoro e utilizzandolo come lavoratore somministrato a termine.
Con l’introduzione del D.l. n. 87/2018, l’esclusione, prevista dal co. 2, dell’art. 34, del D.lgs. n. 81/2015, dei rapporti in somministrazione al limite dei 36 mesi, viene meno. Così come vengono meno altre esclusioni previste sempre dall’art. 34. Infatti, con la vigenza del Decreto Dignità – dal 14 luglio 2018 – vi è quasi una piena equiparazione del contratto a tempo determinato diretto con la somministrazione di lavoro a termine. Le uniche cose che sono escluse riguardano: il limite massimo di lavoratori in somministrazione impiegabili ogni anno dall’azienda utilizzatrice (sempreché detta previsione non sia stata regolamentata dalla contrattazione collettiva dell’utilizzatore) ed il diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato, previsto esclusivamente per coloro i quali hanno avuto uno o più contratti a tempo determinato presso la stessa azienda, per un periodo superiore a sei mesi, sempre relativamente alle mansioni già espletate in esecuzione dei rapporti a termine conclusi.
Ricapitolando, al contratto di somministrazione si applicano, dal 14 luglio, le seguenti regole previste per i contratti a tempo determinato diretto:
La durata massima dei contratti in somministrazione a termine non potrà superare i 24 mesi (ad esclusione delle agenzie di somministrazione che applicano contratti collettivi che hanno previsto una diversa disposizione in merito).
Il contratto di somministrazione a termine con una durata superiore a 12 mesi devono prevedere una delle seguenti causali:
a. esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività;
b. esigenze sostitutive di altri lavoratori;
c. esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.
Il primo contratto di somministrazione a termine, di durata non superiore a 12 mesi, può essere stipulato senza la specifica di una delle causali previste al punto 2;
Le proroghe, previste all’interno dei 24 mesi massimi di utilizzo, sono 4 a prescindere dal numero dei contratti (non più 6 proroghe a contratto);
Le proroghe effettuate dopo i primi 12 mesi devono prevedere una delle causali indicate al punto 2;
Tra i contratti in somministrazione o tra un contatto di somministrazione ed un contratto a tempo determinato diretto si deve applicare il cd. “stop and go”, cioè quel periodo di non lavoro che può andare da un minimo di 10 giorni (qualora il contatto scaduto sia stato di massimo 6 mesi) ad un massimo di 20 giorni (qualora il contatto scaduto sia stato superiore a 6 mesi);
Nel rispetto della durata massima, il rapporto di somministrazione potrà prevedere, al pari dei contratto a tempo determinato diretto, una cd. “prosecuzione di fatto”, cioè un ulteriore periodo di massimo 30 giorni se il contratto in scadenza è stato inferiore a 6 mesi ovvero massimo 50 giorni se il contratto in scadenza è stato pari o superiore a 6 mesi;
L’agenzia di somministrazione dovrà corrispondere una maggiorazione contributiva pari all’1,40% sui primo contratto a termine ed una maggiorazione dell’1,90% per ogni rinnovo del contratto in somministrazione a termine. Ciò sta a significare che la maggiorazione dell’1,90% si deve corrispondere esclusivamente dal secondo contratto in somministrazione a termine, mentre la maggiorazione dell’1,40% vige per tutto il primo contratto a termine, proroghe comprese;
Qualora il lavoratore ritenga illegittimo il contratto di somministrazione a tempo determinato stipulato, deve impugnare, con qualsiasi atto, anche di natura extragiudiziale, il contratto entro 180 giorni dalla cessazione del singolo contratto.
Permettetemi qualche considerazione personale sull’argomento. La Somministrazione di lavoro è una triangolazione tra una agenzia per il lavoro, un lavoratore dipendente dell’agenzia ed una impresa che utilizza il lavoratore e che non è il datore di lavoro. Da questa triangolazione sorgono alcuni dubbi sulla realizzazione di alcune regole e sull’erogazione delle relative “sanzioni” in caso di violazione.
Prendiamo l’applicazione delle causali. Sul contratto di lavoro, stipulato tra l’agenzia di somministrazione ed il lavoratore, dovrà essere precisata la motivazione dell’assunzione. Motivazione che dovrà essere fornita dall’utilizzatore. Cosa succede in caso di ricorso del lavoratore in merito al fatto che la motivazione addotta dall’impresa utilizzatrice non è reale o, meglio, non rientra tra quelle indicate dal legislatore? L’agenzia di somministrazione non credo possa ingerire nella causale e valutare la congruità rispetto ai limiti imposti dal legislatore (esempio, relativamente alle esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività). Il contratto a termine viene “convertito” in un rapporto a tempo indeterminato? Ma il datore di lavoro non è l’utilizzatore che ha errato nella motivazione, ma l’agenzia per il lavoro. A questo punto, il lavoratore può chiedere la conversione del rapporto di lavoro presso l’utilizzatore?
Le imprese – sia italiane che estere – che operano in Italia e che hanno ottenuto dallo Stato aiuti per investimenti produttivi, decadono da tali benefici qualora entro 5 anni dalla data di conclusione dell’iniziativa agevolata, decidano di trasferire, in Stati non appartenenti all’Unione Europa (esclusi gli Stati aderenti allo Spazio Economico Europeo), l’attività economica (o anche una sua parte) per la quale sono stati concessi gli aiuti di Stato; inoltre, l’impresa è sottoposta – da parte della medesima amministrazione che ha erogato l’aiuto di Stato – al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria di importo da 2 a 4 volte quello dell’aiuto fruito.
Il legislatore ha provveduto anche a definire il termine “delocalizzazione”. Per delocalizzazione si intende il trasferimento di una attività economica, o di una sua parte, dal sito produttivo incentivato ad altro sito, da parte della medesima impresa beneficiaria dell’aiuto o di altra impresa con la quale vi sia un rapporto di controllo o collegamento (ai sensi dell’art. 2359 c.c.).
Inoltre, il legislatore ha precisato (ma non poteva fare diversamente) che vengono fatti salvi i vincoli derivanti dai trattati internazionali.
Stesso discorso si realizza nel caso in cui l’impresa – italiana o straniera – abbia beneficiato di un aiuto di Stato per l’effettuazione di investimenti produttivi specificamente localizzati in una determinata area. In questo caso, l’impresa decade dal beneficio qualora l’attività economica interessata dall’aiuto di Stato (o anche una parte di essa) venga trasferita (delocalizzata), entro 5 anni dalla data di conclusione dell’iniziativa o del completamento dell’investimento agevolato, fuori dal sito incentivato, in favore di unità produttiva situata al di fuori dell’ambito territoriale del predetto sito, in ambito nazionale, dell’Unione europea e degli Stati aderenti allo Spazio economico Europeo.
In entrambi i casi, oltre alla decadenza dei benefici fruiti dalle aziende, il legislatore prevede la restituzione degli aiuti di Stato già ricevuti, maggiorati di un tasso di interesse pari al tasso ufficiale di riferimento vigente alla data di erogazione o fruizione dell’aiuto, maggiorato del 5%.
I tempi e le modalità per il controllo del rispetto dei vincoli previsti per le aziende che usufruiscono degli incentivi statali summenzionati, nonché per la restituzione dei benefici fruiti in caso di accertamento della decadenza, saranno definiti da ciascuna amministrazione con propri provvedimenti volti a disciplinare i bandi e i contratti relativi alle misure di aiuto di propria competenza.
I nuovi limiti previsti dal legislatore riguardano benefici non ancora concessi o banditi e per investimenti non ancora agevolati alla data del 13 luglio 2018. Viceversa, per i benefici già concessi o banditi, nonché per gli investimenti agevolati già avviati, prima del 14 luglio 2018 (data di decorrenza del D.l. n. 87/2018), resta ferma l’applicazione della disciplina previgente.
La norma (articolo 6 del D.l. n. 87/2018) prevede che una impresa italiana o estera, operante nel territorio nazionale, che beneficia di misure di aiuto di Stato che prevedono la valutazione dell’impatto occupazionale, decada dal beneficio qualora riduca, di oltre il 10%, i livelli occupazionali degli addetti all’unità produttiva o all’attività interessata dal beneficio nei 5 anni successivi alla data di completamento dell’investimento. Restano fuori le riduzioni di personale effettuato per giustificato motivo oggettivo.
La decadenza dal beneficio è proporzionata alla riduzione del livello occupazionale ed è totale qualora la riduzione, di detti livelli, sia superiore al 50%.
Anche in tal caso, così come per quanto riguarda la restituzione dei benefici in caso di delocalizzazione, i tempi e le modalità per il controllo del rispetto dei vincoli previsti per le aziende che usufruiscono degli incentivi statali summenzionati, nonché per la restituzione dei benefici fruiti in caso di accertamento della decadenza, saranno definiti da ciascuna amministrazione con propri provvedimenti volti a disciplinare i bandi e i contratti relativi alle misure di aiuto di propria competenza.
Le nuove norme si applicano ai benefici concessi o banditi, nonché agli investimenti agevolati avviati, successivamente all’entrata in vigore del Decreto legge.
Il Decreto Dignità ha previsto (articolo 3) una rimodulazione, al rialzo, dell’indennità risarcitoria contemplata in caso di verifica, da parte di un giudice, della illegittimità di un licenziamento comminato ad un lavoratore assunto a tempo indeterminato ed in tutele crescenti (art. 3, co. 1, del D.lgs. n. 23/2015) nelle aziende che raggiungono i limiti dimensionali previsti dall’art. 18, co. 8 e 9, dello Statuto dei Lavoratori (Legge n. 300/1970).
Le modifiche riguardano esclusivamente l’importo minimo e quello massimo e non l’importo annuale che rimane fisso alle due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, per ogni anno di servizio.
La novità, come anticipato, attiene al fatto che l’indennizzo non potrà andare al di sotto delle 6 mensilità e non potrà essere superiore alle 36. Ciò sta a significare che qualora un giudice sentenzi l’illegittimità di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, soggettivo o giusta causa, ad eccezione dei limitati casi di reintegra presenti esclusivamente nel licenziamento disciplinare (per l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore) e nei licenziamenti discriminatori e nulli (esempio, intimati in forma orale), l’ex datore di lavoro dovrà versare al lavoratore una indennità risarcitoria che non potrà andare al di sotto del 6 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr, indipendentemente dal fatto che il lavoratore abbia prestato la propria attività lavorativa per meno di 3 anni.
Per quanto riguarda i lavoratori che hanno più di tre anni di anzianità, continua ad applicarsi la regola generale e cioè l’indennità erogata, in caso di sentenza di un giudice dell’illegittimità del licenziamento, sarà di due mensilità per ogni anno di servizio. La modifica legislativa attiene al massimale di risarcimento erogabile, che passa da 24 a 36 mensilità. Ciò significa che un lavoratore che ha una anzianità di servizio di 10 anni continuerà a percepire 20 mensilità, mentre un lavoratore con una anzianità di servizio di 15 anni percepirà 30 mensilità e non più 24 (massimale previgente). In definitiva si alza l’asticella: sino a 18 anni di servizio ci sarà una crescita dell’indennizzo, oltre tale periodo il risarcimento rimarrà fermo al nuovo massimale previsto e cioè 36 mensilità.
Ricordo, infine, che l’indennità non è assoggettata a contribuzione previdenziale e che per le frazioni di anno d’anzianità di servizio, le indennità sono riproporzionate e le frazioni di mese uguali o superiori a 15 giorni si computano come mese intero. Inoltre, per le aziende al di sotto dei limiti dimensionali dell’articolo 18, l’indennità va dimezzata e non può, in ogni caso, superare il limite di sei mensilità. Ciò significa che si andrà da un minimo di 3 ad un massimo di 6 mensilità (prima era minimo 2 e massimo 6).
Infine, nulla è cambiato per quanto riguarda l’offerta conciliativa, prevista dall’art. 6 del D.lgs. n. 23/2015, che continua a prevedere un importo – non assoggettato a contribuzione previdenziale ed esente da Irpef – di una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a 18, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare.