MI DIFFAMI SU FACEBOOK? TI LICENZIO

Sabrina Pagani, Consulente del Lavoro in Milano

Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza 6 maggio 2024, n. 12142

Nel novembre 2017 la società xxx S.r.l. ha intimato ad un proprio dipendente il licenziamento per giusta causa, a seguito di un procedimento disciplinare avviato nei suoi confronti per aver pubblicato nella lista “Amici” del proprio profilo Facebook, un post “idoneo a qualificare in modo offensivo e dispregiativo l’azienda e altamente lesivo dell’immagine della stessa”1 . Avverso tale provvedimento, il lavoratore ha dapprima proposto ricorso dinanzi al Tribunale, che ha stabilito la legittimità del licenziamento, ricorrendo poi dinanzi alla Corte d’Appello di Palermo che, con sentenza 16 ottobre 2020, n. 1107/2019 ha confermato la sentenza di primo grado. Il lavoratore ha infine proposto ricorso in Cassazione, ritenendo anzitutto che il post Facebook riprodotto dallo screenshot non costituisse un documento utile ai fini probatori avendone egli disconosciuto la conformità all’originale, e che i testi escussi non rientravano nella lista degli “amici” e quindi non avrebbero potuto leggere il post né, tantomeno, fare lo screenshot. Conseguentemente lo screenshot sarebbe potuto rientrare nel processo quale copia fotografica di scrittura solo tramite l’art. 2719 c.c. Il punto centrale delle considerazioni della Corte risiede nella valutazione di non considerare la pubblicazione del post da parte del lavoratore, sul proprio profilo Facebook, espressione dell’esercizio di un diritto garantito dall’art. 15 Cost., che sancisce la inviolabilità della libertà e della segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione. Infatti la Corte, nel rigettare il ricorso contro il licenziamento disciplinare, richiama un orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di Cassazione che afferma l’“idoneità del messaggio, una volta immesso sul web, anche social ad accesso circoscritto, di sfuggire al controllo del suo autore per essere veicolato e rimbalzato verso un pubblico indeterminato, tanto che l’immissione di un post di contenuto denigratorio è stato ritenuto più volte idoneo ad integrare gli estremi della diffamazione”. La Corte riporta in seguito quanto già espresso in un’altra sentenza della Cassazione2 , che afferma che “in tema di licenziamento disciplinare, costituisce giusta causa del recesso, in quanto idonea a ledere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo, la diffusione su Facebook di un commento offensivo nei confronti della società datrice di lavoro, integrando tale condotta gli estremi della diffamazione, per la attitudine del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone”. In Cassazione civile sez. Lavoro, 22 settembre 2021, n. 25731 viene invece presa dalla Corte la decisione opposta, ovvero viene ritenuto inutilizzabile il materiale raccolto dal datore di lavoro. Infatti la Corte, in questo caso, nonostante la riconosciuta “spregevolezza della condotta” e dei contenuti delle frasi con reiterati rati insulti e contrarietà a regole del buon vivere civile messa in atto da una lavoratrice, non ha ritenuto che la condotta accertata fosse disciplinarmente rilevante e suscettibile di essere punita con un licenziamento in tronco. In questo caso il licenziamento è stato ritenuto illegittimo a causa dell’inutilizzabilità del materiale estratto dal computer della lavoratrice, sia perché mancante della adeguata informativa ai sensi dell’art. 4, comma 3 dello Statuto dei lavoratori, sia perché, secondo la Corte, “le conversazioni litigiose costituivano (in questo caso) una forma di corrispondenza privata svolta in via riservata rispetto alla quale si impone una tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni ai sensi dell’art. 15 Cost., con la conseguenza che l’accesso al contenuto delle comunicazioni è precluso agli estranei e non ne è consentita la rivelazione ed utilizzazione.” Qui la Corte ha ritenuto che “ fosse escluso un intento denigratorio ed ha ritenuto che – in ogni caso, quindi anche nell’ipotesi della loro utilizzabilità – il contenuto dei messaggio di posta elettronica e le espressioni in esse utilizzate costituissero uno sfogo della mittente, destinato ad essere letto dalla sola destinataria, privo del carattere di illiceità ed espressione della libera manifestazione del pensiero in una conversazione privata(..).3 ” In un altro caso 4 la Corte è stata chiamata a decidere, con sentenza Cass. Civile, sez. Lavoro, 13 ottobre 2021, n. 27939, sulla legittimità del licenziamento irrogato ad un dipendente per il contenuto gravemente offensivo e sprezzante delle comunicazioni del lavoratore, a mezzo di tre e-mail e del messaggio sul suo profilo Facebook (quest’ultimo legittimamente acquisibile, in quanto non assistito da segretezza per la sua conoscibilità anche da terzi), non disconosciuto. Il licenziamento per giusta causa viene dunque irrogato ritenendo il datore che tale comportamento, rivolto nei confronti delle dirette superiori e dei vertici aziendali, rappresenti grave insubordinazione e che le affermazioni diffuse, per il loro carattere plurioffensivo, siano tali da precludere la prosecuzione del rapporto, per l’elisione del legame di fiducia tra le parti. La Corte, in tale caso, afferma che, “premessa l’esigenza di tutela della libertà e segretezza dei messaggi scambiati in una chat privata, in quanto diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, pertanto da considerare come la corrispondenza privata, chiusa e inviolabile (Cass. 10 settembre 2018, n. 21965: nella specie, conversazione in chat su Facebook composta unicamente da iscritti ad uno stesso sindacato), nella fattispecie in esame non sussiste una tale esigenza di protezione (e della conseguente illegittimità dell’utilizzazione in funzione probatoria) di un commento offensivo nei confronti della società datrice di lavoro diffuso su Facebook. Il mezzo utilizzato (pubblicazione dei post sul profilo personale del detto social) è, infatti, idoneo a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone (cfr. anche Cass. 27 aprile 2018, n. 10280, che ha ritenuto tale condotta integrare gli estremi della diffamazione e costituire giusta causa di recesso, siccome idonea a ledere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo).” In un altro caso ancora la Corte, con sentenza Cass. Civile, sez. Lavoro, 10 novembre 2017, n. 26682, chiamata a decidere sull’utilizzabilità del materiale raccolto dalla datrice di lavoro nel controllo effettuato sulla posta elettronica aziendale di un dipendente accusato di aver inviato una serie di e-mail contenenti reiterate espressioni scurrili nei confronti del legale rappresentante della società e di altri collaboratori nonché apprezzamenti negativi nei confronti dell’azienda in quanto tale, confermava la legittimità del licenziamento, escludendo l’applicabilità al caso concreto dell’art. 15 Cost., dal momento che il contenuto offensivo e denigratorio era stato rilevato nella posta elettronica aziendale, e dunque fosse privo del carattere della segretezza e non rientrante nella classificazione di “conversazione privata”. Quali sono dunque, i criteri utilizzati dalla Corte di Cassazione, per decidere, caso per caso, se le offese arrecate dal lavoratore tramite l’utilizzo di mezzi di comunicazione così come individuati dall’art. 15 Cost., e di cui sia stata certificata l’attribuzione, siano idonee o meno a legittimare l’irrogazione da parte del datore di lavoro di un licenziamento disciplinare? A tal proposito la Corte richiama la sentenza Cassazione civile, sez. Lavoro, 10 settembre 2018, n. 21965, riguardante una vicenda giudiziale concernente “un messaggio pubblicato su un gruppo Facebook di un determinato sindacato, e pertanto, nell’ambito di una chat chiusa o privata, in relazione alla quale era stata specificamente accertata la volontà dei partecipanti, in numero necessariamente esiguo, di non diffusione all’esterno delle conversazioni ivi svolte”. In questa circostanza la Corte ha statuito che “i messaggi scambiati in una chat privata, seppure contenenti commenti offensivi nei confronti della società datrice di lavoro, non costituiscono giusta causa di recesso poiché, essendo diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, vanno considerati come la corrispondenza privata, chiusa ed inviolabile, e sono inidonei a realizzare una condotta diffamatoria in quanto, ove la comunicazione con più persone avvenga in un ambito riservato, non solo vi è un interesse contrario alla divulgazione, anche colposa, dei fatti e delle notizie ma si impone l’esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni stesse” 5 . Nella stessa sentenza, la Corte afferma che la segretezza presuppone, per essere tutelata giuridicamente, “oltre che la determinatezza dei destinatari e l’intento del mittente di escludere terzi dalla sfera di conoscibilità del messaggio, l’uso di uno strumento che denoti il carattere di segretezza o riservatezza della comunicazione, (..)”, che quindi l’esigenza di tutela della segretezza nelle comunicazioni si impone anche riguardo ai messaggi di posta elettronica scambiati tramite mailing list riservata agli aderenti ad un determinato gruppo di persone, alle newsgroup o alle chat private, con accesso condizionato al possesso di una password fornita a soggetti determinati; che i messaggi che circolano attraverso le nuove “forme di comunicazione”, ove inoltrati non ad una moltitudine indistinta di persone ma unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo, come appunto nelle chat private o chiuse, devono essere considerati alla stregua della corrispondenza privata, chiusa e inviolabile; che tale caratteristica è logicamente incompatibile con i requisiti propri della condotta diffamatoria, che presuppone la destinazione delle comunicazioni alla divulgazione nell’ambiente sociale; che l’esigenza di tutela della segretezza delle forme di comunicazione privata o chiusa preclude l’accesso di estranei al contenuto delle stesse, la rivelazione e l’utilizzabilità del contenuto medesimo, in qualsiasi forma, prevedendo l’ordinamento specifiche ipotesi delittuose di violazione della corrispondenza, rivelazione del contenuto della stessa e di accesso abusivo a sistemi informatici, (cfr. artt. 616 e 617 c.p.). Per concludere dunque, riprendendo la domanda di poc’anzi sui criteri decisori della Corte, la risposta è fornita proprio dall’art. 15 Cost. laddove definisce inviolabili la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione. Su questo la Corte afferma, nel medesimo precedente, che la segretezza va intesa come “espressione della più ampia libertà di comunicare liberamente con soggetti predeterminati, e quindi come pretesa che soggetti diversi dai destinatari selezionati dal mittente non prendano illegittimamente conoscenza del contenuto di una comunicazione; (..) che, come ribadito dalla Corte Cost. nella sentenza n. 20 del 2017, il diritto tutelato dall’art. 15 Cost. “comprende tanto la corrispondenza quanto le altre forme di comunicazione, incluse quelle telefoniche, elettroniche, informatiche, tra presenti o effettuate con altri mezzi resi disponibili dallo sviluppo della tecnologia” . In questi casi dunque, la condotta ascritta dal lavoratore è priva del carattere illecito ed è riconducibile piuttosto alla libertà, costituzionalmente garantita, di comunicare riservatamente, in quanto “ove la comunicazione con più persone avvenga in un ambito privato, cioè all’interno di una cerchia di persone determinate, non solo vi è un interesse contrario alla divulgazione, anche colposa, dei fatti e delle notizie oggetto di comunicazione, ma si impone l’esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni stesse” 6 .

1. Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza 6 maggio 2024, n. 12142.

2. Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza 27 aprile 2018, n. 10280.

3. Cass. Civile, sez. Lavoro, sentenza 10 novembre 2017 n. 26682.

4. Cass. Civile, sez. Lavoro, sentenza 13 ottobre 2021, n. 27939.

5. Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza 10 settembre 2018, n. 21965.

6. Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza 10 settembre 2018, n. 21965.


Scarica l'articolo