MALATTIA DURANTE IL PERIODO DI PROVA E FACOLTÀ DI RECESSO DATORIALE: una riflessione tra sospensione, tutela contrattuale e funzione del patto di prova

Andrea Ottolina, Avvocato in Milano

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Il comma 3 dell’art. 7 del D.lgs. n. 104/2022 stabilisce che, in caso di sopravvenienza di eventi, quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori, il periodo di prova è prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza. Si tratta di una previsione che recepisce un principio già consolidato nella giurisprudenza, secondo cui la prova deve svolgersi su prestazioni effettive e dunque il relativo termine viene prolungato in caso di assenza per cause non imputabili al lavoratore.

A tal proposito, la circolare del Ministero del Lavoro n. 19/2022 ha chiarito che l’elencazione contenuta nel comma 3 dell’art. 7 ha natura meramente esemplificativa e deve pertanto intendersi estesa a tutte le ipotesi di assenza già riconosciute come sospensive dall’ordinamento, tra cui, oltre ai casi espressamente indicati, rientrano anche i congedi e i permessi previsti dalla Legge n. 104/1992.

Una volta ammesso che la malattia sospenda automaticamente il decorso del periodo di prova, resta tuttavia da verificare se tale evento produca anche un effetto impeditivo della facoltà di recesso datoriale, oppure se il datore possa comunque recedere, qualora ritenga che la prova, per quanto sospesa, sia stata già, nei fatti, non superata. In altri termini: se il lavoratore si ammala, il decorso della prova si arresta e riprenderà al termine dell’assenza. Ma nel frattempo, il datore di lavoro può legittimamente esercitare il recesso, ove ritenga che, sulla base della porzione di rapporto espletata, la prova non sia stata superata?

L’interrogativo non è di agevole soluzione, anche perché il legislatore non si esprime in modo espresso sul punto, e il riferimento alla sospensione riguarda unicamente il computo del termine. È pertanto necessario ricorrere, per colmare la lacuna, al diritto contrattuale collettivo e all’elaborazione giurisprudenziale.

Sotto il primo profilo, è noto che alcuni contratti collettivi riconoscono ai lavoratori in prova una sorta di diritto alla conservazione del posto durante l’assenza per malattia, fissando un limite temporale massimo entro cui il lavoratore sarà ammesso a completare il periodo di prova stesso qualora sia in grado di riprendere il servizio. Si veda ad esempio il CCNL Metalmeccanici Industria, secondo cui il periodo massimo entro cui il lavoratore deve essere ammesso a completare il periodo di prova è pari a tre mesi, oppure il CCNL Edilizia Industria, secondo cui tale periodo equivale alla durata del periodo di prova stesso.

Altri contratti collettivi invece, come ad esempio i CCNL del Terziario e del settore Chimica Industria, prevedono espressamente che, in caso di malattia, il diritto alla conservazione del posto di lavoro riguarda esclusivamente i lavoratori “non in prova”, mentre per quanto riguarda i lavoratori in prova non è previsto alcun limite di tempo massimo entro cui il lavoratore, una volta guarito, ha diritto di essere ammesso a completare il periodo di prova.

Una tale differenziazione di disciplina collettiva non può ritenersi neutra rispetto alla questione oggetto del presente contributo. Al contrario, essa solleva un dubbio interpretativo rilevante, poiché suggerisce che le parti sociali abbiano inteso, in alcuni casi, riconoscere un diritto alla prosecuzione della prova anche in costanza di assenza, e in altri, al contrario, lasciare al datore di lavoro la facoltà di determinarsi liberamente. Da tale riflessione conseguirebbe quindi che la presenza o l’assenza, nella contrattazione collettiva, di una clausola che riconosca al lavoratore in prova un diritto alla conservazione del posto in caso di malattia, costituirebbe un elemento utile ad incidere in modo determinante sulla valutazione della legittimità del recesso eventualmente intimato durante l’assenza stessa.

Un riferimento giurisprudenziale utile al nostro ragionamento è rappresentato dalla sentenza della Cassazione n. 5856 dell’8 marzo 2017. In quella vicenda, una lavoratrice era stata assunta a tempo indeterminato come infermiera presso un’azienda ospedaliera, con un periodo di prova pari a sei mesi. Dopo circa tre mesi di servizio, la lavoratrice si assentava per malattia e, durante tale assenza, riceveva la comunicazione del recesso per mancato superamento della prova. Il CCNL applicabile (Sanità pubblica) prevedeva espressamente, all’art. 15, la sospensione del periodo di prova in caso di assenza per malattia e il diritto del lavoratore in prova alla conservazione del posto per un periodo massimo di sei mesi. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che la clausola contrattuale in parola dovesse essere interpretata quale sospensione del rapporto di lavoro in caso di malattia, che in detta fase si caratterizzava proprio per lo svolgimento della prova, e che di conseguenza il verificarsi di tale sospensione del rapporto di lavoro, con espresso diritto alla conservazione del posto per il periodo di sei mesi, escludesse la possibilità del recesso durante la malattia.

Ragionando su tale premessa, si può quindi formulare un’ipotesi interpretativa che, pur non trovando espliciti riscontri in giurisprudenza, appare coerente con l’impostazione logica del ragionamento della Corte: se l’esplicita previsione da parte del CCNL della sospensione del rapporto e del diritto alla conservazione del posto comporta, secondo la Cassazione, l’inibizione del potere di recesso durante la malattia, allora, nei casi in cui la contrattazione collettiva non preveda né la sospensione del rapporto, né soprattutto un diritto alla conservazione, è plausibile ritenere che la facoltà di recesso non incontri, in tali casi, ostacoli di ordine contrattuale.

Una diversa interpretazione condurrebbe a un esito difficilmente giustificabile: il lavoratore in prova, non essendo previsto un limite massimo al suo diritto a rientrare dalla malattia e proseguire il periodo di prova, si troverebbe a beneficiare di una stabilità potenzialmente superiore a quella garantita a un dipendente già stabilizzato, soggetto invece al limite oggettivo del periodo di comporto. Questo a meno di non voler ritenere applicabile in via analogica ai lavoratori in prova il periodo di comporto previsto per i lavoratori già confermati. Ma, se così fosse, non si comprenderebbe perché la contrattazione collettiva abbia ritenuto necessario, in molti casi, specificare espressamente che il comporto si applica solo ai lavoratori non in prova.

Tali riflessioni inducono quindi a concludere che, ove la contrattazione collettiva non preveda un periodo massimo di conservazione del posto di lavoro anche per i lavoratori in prova, il datore possa legittimamente esercitare la facoltà di recesso anche in costanza di assenza per malattia, fermo restando il rispetto dei limiti generali dell’ordinamento. Si tratta, beninteso, di un’argomentazione deduttiva e come tale non può considerarsi definitiva, ma rappresenta un possibile approccio ermeneutico fondato su coerenza sistematica e razionalità applicativa.

D’altra parte, il nostro ordinamento non esclude, in linea di principio, la possibilità che il datore di lavoro receda dal rapporto anche durante l’assenza per malattia del lavoratore. Ne costituiscono esempio, da un lato, proprio il licenziamento per superamento del periodo di comporto, previsto dall’art. 2110 c.c., che non solo è legittimo pur in costanza di malattia ove sia appunto superato il limite massimo di conservazione del posto di lavoro previsto dalla contrattazione collettiva, ma comporta anche l’obbligo del pagamento del preavviso ai sensi del rinvio all’art. 2118 c.c.; dall’altro, il licenziamento per giusta causa, che può essere intimato anche durante lo stato morboso del lavoratore, come pacificamente chiarito dalla giurisprudenza (vd. ad es. Cass., n. 12481 del 25 agosto 2003). Tali ipotesi confermano che lo stato di malattia non costituisce, di per sé, una barriera assoluta all’esercizio del potere di recesso, ma impone una verifica rigorosa dei presupposti sostanziali e delle modalità formali del licenziamento.

Tale ricostruzione non implica, tuttavia, che il recesso sia sempre legittimo. Anche nell’ambito del periodo di prova, la giurisprudenza di legittimità ha individuato limiti chiari alla libertà di recesso, ricollegandoli da un lato al divieto di licenziamento fondato su motivo illecito (come lo stato di malattia stesso, se costituente ragione esclusiva del recesso) e, dall’altro lato, alla necessità che il periodo di prova sia stato effettivamente idoneo a consentire una congrua valutazione della professionalità del lavoratore.

In più occasioni la Corte di Cassazione ha infatti affermato l’illegittimità del recesso per mancato superamento della prova qualora la durata della prova sia risultata irrisoria rispetto alla complessità dell’attività da valutare, o ancora quando il datore non abbia effettivamente posto il lavoratore in condizione di rendere la prestazione oggetto di valutazione.

In applicazione di tali principi, sembrerebbe quindi ragionevole affermare che, nei casi in cui la contrattazione collettiva esclude il diritto alla conservazione del posto per i lavoratori in prova, il recesso possa ritenersi legittimo anche in corso di malattia, a condizione che esso sia fondato su una valutazione negativa già maturata prima dell’assenza e che il periodo di servizio prestato sia stato sufficientemente lungo e significativo da consentire un’adeguata verifica delle capacità del lavoratore. In caso contrario, l’assenza per malattia, pur non inibendo formalmente il recesso, potrebbe condurre a un vizio del medesimo, laddove risultasse essere stata l’unica reale motivazione della risoluzione, o quando abbia impedito del tutto la realizzazione della funzione propria della prova.

La questione, dunque, resta aperta. La pluralità delle previsioni della contrattazione collettiva e la varietà delle concrete dinamiche aziendali impongono un’attenta valutazione caso per caso, anche alla luce della necessità di bilanciare la libertà di recesso riconosciuta al datore durante la prova con i principi di correttezza, buona fede e non discriminazione che permeano l’intera disciplina del rapporto di lavoro.

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