La Cassazione ha ravvisato nella condotta datoriale tutti gli indici di sfruttamento di manodopera previsti dalla norma di legge: la reiterata corresponsione di retribuzioni palesemente difformi da quelle previste dai contratti collettivi nazionali o territoriali maggiormente rappresentativi del settore, la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie, la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro e la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.
Tredici operai extracomunitari (provenienti da Cina e Pakistan) impiegati presso un laboratorio tessile con retribuzioni di molto al di sotto dei minimi previsti dal Ccnl di settore, orario lavorativo di circa 8/9 ore giornaliere, condizioni di alloggio degradanti e non conformi alle regole igieniche essenziali, costretti ad accettare tali condizioni di lavoro per poter provvedere alle loro elementari esigenze di vita: per le corti di merito di Mantova (primo grado) e di Brescia (secondo grado) tali elementi configurano il reato di sfruttamento della manodopera. La condanna inflitta al datore di lavoro dalle corti penali è stata la reclusione pari a un anno e quattro mesi e la multa di Euro 4.800, oltre alla confisca del profitto del reato per una somma complessiva di Euro 98.706,20, ossia l’equivalente dei contributi assistenziali omessi.
La condanna è stata confermata anche dalla Quarta Sezione penale della Cassazione1, che – applicando i principi di diritto ribaditi nei propri precedenti – ha ritenuto che nel caso di specie fossero stati provati tanto lo “sfruttamento” quanto l’“approfittamento dello stato di bisogno”, ossia i due elementi caratterizzanti il delitto di cui all’art. 603-bis c.p. Secondo i giudici di legittimità infatti le censure formulate dalla difesa del datore di lavoro erano del tutto prive di fondamento. Parte datoriale aveva eccepito che nel caso in esame difettavano i presupposti per poter ritenere integrato il reato di sfruttamento della manodopera, non essendo stata provata la reiterazione nella corresponsione di corrispettivi palesemente inferiori a quelli indicati nei contratti di lavoro, così come le contestate inosservanze in materia di sicurezza e igiene erano in realtà riducibili ad uno stato di generale disordine dell’ambiente di lavoro, certamente non punibili con una sanzione penale. Sempre secondo la prospettazione offerta dal datore di lavoro, nel corso del processo era stata provata una mera difficoltà economica datoriale che aveva impedito di ottemperare agli obblighi retributivi, ma non era emersa alcuna volontà di ledere la dignità della persona, tant’è che non era stata esercitata sui lavoratori alcuna illecita pressione nel corso della giornata lavorativa, tutti erano muniti di permesso di soggiorno ed erano stati regolarmente assunti dalla società. Eccezioni, queste ultime, che non hanno però convinto i giudici di legittimità.
Infatti, a dispetto di quanto genericamente contestato da parte datoriale, nella sentenza d’appello i giudici hanno dato motivato conto della ricorrenza di tutti i profili oggettivi del reato contestato riportando gli elementi acquisiti nel corso dell’istruttoria con riferimento alla condizione di sfruttamento dei tredici lavoratori. In particolare nel corso del processo altre soluzioni. Anche le censure in ordine al provvedimento di confisca del profitto del reato e alla sua quantificazione sono state respinte dalla Cassazione, che ha sottolineato come il provvedimento di confisca sia obbligatorio per legge (in quanto disposto dall’art. 603-bis c.p.) e la quantificazione del profitto fosse stata analitica, avendo i giudici di appello basato il calcolo sullo stipendio medio di ciascun operaio come previsto dai contratti collettivi nazionali di settore (pari a 7,02 euro per ogni ora), moltiplicato per i giorni di sfruttamento e per il numero dei dipendenti coinvolti. Anche nel caso in esame i giudici hanno condotto l’accertamento circa la sussistenza del reato di cui all’art. 603-bis c.p. verificando che vi fosse la prova di tutti gli indici di sfruttamento previsti dalla norma di legge, dunque la reiterata corresponsione di retribuzioni palesemente difformi da quelle previste dai contratti collettivi nazionali o territoriali maggiormente rappresentativi del settore, la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie, la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro e la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti. Non solo: i giudici hanno valutato anche lo stato di bisogno effettivo e concreto
era emersa la reiterazione nella violazione dei principali istituti di legge e di contrattazione collettiva, con riferimento in particolare al salario pattuito e corrisposto, alla durata dell’orario di lavoro, al regime del lavoro straordinario e festivo, alle condizioni degli alloggi e del luogo di lavoro. Era stata altresì assunta la prova circa lo stato di bisogno dei lavoratori, i quali accettavano simili condizioni per potere acquisire le risorse minime indispensabili per sopravvivere in un continente non loro. Le condizioni di sfruttamento inoltre non si erano limitate ad un periodo temporale circoscritto, ma era provato che si erano protratte per alcuni mesi, mentre prive di riscontro erano risultate le giustificazioni del ricorrente in ordine all’asserita, temporanea crisi di liquidità dell’azienda, che comunque non avrebbe dovuto gravare sulle condizioni di lavoro della manodopera, ma avrebbe dovuto portare il datore di lavoro ad altre soluzioni. Anche le censure in ordine al provvedimento di confisca del profitto del reato e alla sua quantificazione sono state respinte dalla Cassazione, che ha sottolineato come il provvedimento di confisca sia obbligatorio per legge (in quanto disposto dall’art. 603-bis c.p.) e la quantificazione del profitto fosse stata analitica, avendo i giudici di appello basato il calcolo sullo stipendio medio di ciascun operaio come previsto dai contratti collettivi nazionali di settore (pari a 7,02 euro per ogni ora), moltiplicato per i giorni di sfruttamento e per il numero dei dipendenti coinvolti. Anche nel caso in esame i giudici hanno condotto l’accertamento circa la sussistenza del reato di cui all’art. 603-bis c.p. verificando che vi fosse la prova di tutti gli indici di sfruttamento previsti dalla norma di legge, dunque la reiterata corresponsione di retribuzioni palesemente difformi da quelle previste dai contratti collettivi nazionali o territoriali maggiormente rappresentativi del settore, la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie, la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro e la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti. Non solo: i giudici hanno valutato anche lo stato di bisogno effettivo e concreto in cui i dipendenti versavano, non dando alcuna rilevanza al fatto che formalmente questi risiedessero sul nostro territorio nazionale con regolare permesso di soggiorno e fossero regolarmente assunti dall’azienda. La necessità di lavorare a condizioni non conformi a quelle previste dalla legge e dai Ccnl di settore per attendere alle minime esigenze di vita, da una parte, e l’approfittamento di tale bisogno da parte datoriale, dall’altra, hanno determinato la condanna dell’utilizzatore della prestazione.
Insomma, un’altra condanna contro un fenomeno che sta venendo sempre più alla luce grazie al riflettore acceso dal legislatore ad una pratica che da troppo veniva lasciata impunita e alle indagini più capillari svolte delle autorità ispettive e di pubblica sicurezza.