Licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un dipendente affetto da grave patologia

di Gabriele Fava , Avvocato in Milano

 

La Corte di Cassazione, sez. Lavoro, con la sentenza del 27 settembre 2018, n. 23338, pone l’attenzione sulla differenza tra il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e il licenziamento discriminatorio. In particolare, la Corte ha affrontato il caso di una lavoratrice costretta ad assentarsi dal lavoro per un lungo periodo (pari a quattordici mesi) a causa di una grave patologia. La ripresa del lavoro da parte di quest’ultima, prima differita dalla società con la motivazione di una derattizzazione in corso presso la sede, non è mai avvenuta in seguito alla comunicazione di recesso dal rapporto di lavoro con effetto immediato e il riconoscimento dell’indennità sostitutiva del preavviso da parte della società.

Secondo la società il licenziamento era stato giustificato dal considerevole calo del lavoro, con decremento degli introiti e con la conseguente impossibilità di poter ricollocare la lavoratrice in questione in altra mansione.

A detta della lavoratrice, invece, il suo licenziamento era dovuto alla sua grave patologia e stato di handicap che l’avrebbero portata necessariamente a numerose assenze dal posto di lavoro per controlli medici. Il Tribunale di Roma, chiamato a pronunciarsi in prima istanza sulla legittimità dell’intervenuto licenziamento, aveva accolto il ricorso della lavoratrice dichiarando nullo il licenziamento perché determinato da motivo illecito, unico e determinante. Il provvedimento veniva successivamente ribaltato in sede di reclamo dalla Corte d’Appello di Roma che respingeva le domande della ricorrente volte alla declaratoria di nullità del licenziamento sulla base del fatto che nel caso di specie lo stesso doveva considerarsi sorretto da un giustificato motivo oggettivo, motivato dal considerevole calo di lavoro con relativo decremento degli introiti.

A fronte di ciò la lavoratrice, ricorrendo avverso la sentenza di secondo grado, affidava il proprio ricorso in Cassazione a tre motivi di impugnazione.

Primo tra questi la presunta violazione e falsa applicazione dell’art. 161 c.p.c., art. 437 c.p.c., co. 1, art. 438 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., co. 1, n. 4, per non avere la Corte territoriale emesso il dispositivo in occasione dell’udienza di discussione ex art. 418 c.p.c., depositando la sentenza unicamente dopo alcuni giorni. Tale primo motivo di impugnazione è stato ritenuto dalla Suprema Corte infondato. Sottolineava, in proposito, la Cassazione che il procedimento in oggetto si era svolto secondo il rito speciale introdotto dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, e non secondo il rito del lavoro ordinario, a norma della quale non è prevista, al termine della discussione, la lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione.

Con il secondo motivo la lavoratrice ha dedotto violazione e falsa applicazione della L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., co. 1, n. 3, per avere la sentenza erroneamente affermato l’esistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

Come noto, ai sensi dell’art. 3 della L. 15 luglio 1966, n. 604, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo può essere intimato qualora sussistano ragioni inerenti allattività produttiva, allorganizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Ai fini della legittimità del recesso datoriale, è, inoltre, strettamente necessario che, a tali giustificazioni, si aggiunga l’impossibilità di una diversa collocazione del lavoratore. Costituiscono in particolare giustificato motivo oggettivo, la crisi dell’impresa, la cessazione dell’attività o anche solo il venir meno delle mansioni a cui è assegnato il lavoratore, senza che sia possibile il suo ricollocamento in altre mansioni esistenti in azienda e compatibili con il suo livello di inquadramento. Anche tale secondo motivo non è stato accolto da parte della Cassazione. La Suprema Corte, sulla scia della giurisprudenza di legittimità, ha sottolineato come ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo occorre che le “ragioni inerenti allattività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” determinino causalmente un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo aziendale da cui derivi la soppressione di una determinata posizione di lavoro.

Nel caso di specie la società ha dimostrato notevoli perdite economiche risultanti dai bilanci relativi agli anni 2011 e 2012, tali da rendere necessario un intervento riorganizzativo concretizzandosi nella riduzione dell’organico aziendale da due ad una unità amministrativa. È altresì stato dimostrato dalla società come nessuna assunzione fosse stata effettuata successivamente al recesso, a riprova dell’effettiva necessità di una riduzione dell’organico aziendale.  Il terzo motivo di ricorso è costituito dalla presunta violazione e falsa applicazione degli artt. 1345 e 2729 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 15 e 18 della L. 20 maggio 1970, n. 300, per avere la sentenza di Appello erroneamente affermato l’inesistenza di un motivo determinante illecito di licenziamento consistente nella discriminazione della dipendente dovuta al suo stato di handicap.

A tal proposito, la discriminazione consiste essenzialmente in una disparità di trattamento dovuta ad uno dei fattori di rischio tipici presi in considerazione dal nostro ordinamento, quali le ragioni di credo politico o di fede religiosa, l’appartenenza ad un sindacato o la partecipazione ad attività sindacali, nonché le ragioni razziali, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basate sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali del dipendente. Ove tale illegittima disparità di trattamento si verifichi, il licenziamento va ritenuto nullo, a prescindere dall’eventuale sussistenza di giusta causa o giustificato motivo oggettivo. Per quanto, invece, attiene alla dimostrazione della discriminazione, il comma quarto dell’articolo 28 del D.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, prevede l’inversione dell’onere della prova sancendo che “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l insussistenza della discriminazione”.

Anche tale ultimo motivo non è stato accolto. Dopo un’attenta analisi degli elementi fattuali forniti dalla lavoratrice (nel caso di specie, la dipendente aveva dedotto la possibilità di future assenze dal lavoro per controlli medici, cicli di terapie, ecc.; l’addestramento della collega non licenziata; il differimento del suo rientro in servizio dalla malattia motivato con una derattizzazione mai dimostrata; la sollecitazione al prolungamento dell’assenza per malattia) la Cassazione ha confermato quanto statuito dalla Corte territoriale che aveva escluso la valenza significativa degli stessi ai fini della natura discriminatoria del recesso e ha dato atto di come il datore di lavoro avesse provato circostanze idonee ad escludere l’effetto discriminatorio, provando, in particolare, la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, comportante la necessità di riduzione del personale ad una unità. Peraltro, quale ulteriore elemento utile al fine di escludere la natura discriminatoria del licenziamento, era emerso, nella precedente fase di merito, che l’altra dipendente addetta al reparto amministrativo aveva ricevuto in affidamento un bambino e che, quindi, sussisteva nei confronti della medesima un divieto di licenziamento ai sensi del D.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 54, co. 9.

In conclusione, la Corte di Cassazione ha stabilito che la soppressione del posto di lavoro causata dal calo di lavoro e dalla diminuzione degli introiti integra un licenziamento per giustificato motivo oggettivo anche in caso di dipendente gravemente malato. L’effetto discriminatorio del licenziamento è escluso se non è raggiunta la prova in ordine al nesso di causalità tra recesso e fattore di discriminazione. Il lavoratore deve, infatti, provare il trattamento meno favorevole da parte del datore di lavoro rispetto a quello riservato a soggetti non portatori del fattore di rischio, deducendo una correlazione tra tali elementi che renda plausibile la discriminazione. D’altra parte il datore di lavoro deve provare l’esistenza di circostanze idonee ad escludere la natura discriminatoria del recesso, atte a dimostrare una scelta operata con i medesimi parametri validi nei confronti di qualsiasi altro lavoratore privo del suddetto fattore di rischio.