Licenziamento individuale ad nutum e per giusta causa del dirigente: tutela legale e convenzionale

di Caterina Matacera, Consulente del lavoro in Milano

Dalla individuazione della “nozione” di dirigente fino alla cessazione del rapporto di lavoro, passando per temi anche economici (retribuzione e fondi), si chiude, con l’odierno contributo un percorso che ha toccato alcuni aspetti particolarmente rilevanti e/o critici legati alla gestione del rapporto di lavoro dirigenziale.

 

Il tema del recesso aziendale dal rapporto di lavoro ha da sempre rappresentato campo di particolare interesse da parte di tutti gli attori coinvolti, tant’è che la produzione dottrinale e giurisprudenziale sul tema è copiosa e a volte anche contraddittoria. Tanto più se ci si vuole concentrare sulla figura dei dirigenti nel settore privato che, come emerso nei precedenti contributi pubblicati su questa Rivista[1], sconta l’assenza di una nozione legislativa, limitata ai soli artt. 2094 e 2096 del codice civile e, pertanto, per individuare requisiti e caratteristiche tipiche di tale figura nonché la peculiarità della disciplina inerente il licenziamento dei dirigenti, non si può prescindere dall’analisi della contrattazione collettiva specifica per tale categoria concentrando l’attenzione sui due principali contratti collettivi, ovvero Industria e Commercio.

La cessazione del rapporto di lavoro dirigenziale può avvenire per licenziamento, dimissioni o risoluzione consensuale. Focus della presente analisi sarà il recesso per licenziamento ad nutum e il licenziamento per giusta causa.

Il codice civile (art. 2118), consente, a ciascuno dei contraenti, il recesso da un contratto a tempo indeterminato senza fornire alcuna motivazione (ad nutum) e con il solo vincolo del preavviso (fissato dai contratti collettivi). Con la L. n. 604/66 (e successive modifiche) sono state successivamente introdotte nel nostro ordinamento le c.d. “norme limitative dei licenziamenti individuali” con le quali si stabiliva che, per poter legittimamente procedere al licenziamento di un lavoratore, si dovesse ottemperare innanzitutto all’obbligo della forma scritta (art.2), si sanciva (art.4) la nullità del licenziamento qualora realizzato a scopo discriminatorio e si statuiva (art.3) la necessità della sussistenza, a sostegno del licenziamento, di un giustificato motivo (soggettivo o oggettivo). L’articolo 10 della stessa legge però limitava l’ambito di dette “tutele nei confronti dei prestatori di lavoro che rivestano la qualifica di impiegato e di operaio, ai sensi dell’articolo 2095 del Codice civile” escludendo di fatto i dirigenti. Successivamente, con le modifiche legislative introdotte dalla L. n. 108/1990, l’obbligo della forma scritta (art. 2, co. 4) e della tutela contro il licenziamento discriminatorio (art. 3) furono esplicitamente estese anche ai dirigenti.

Tuttavia, ancora oggi, permane, ed è ancora molto sentita, la questione del recesso senza motivazione; sono infatti poche e specificatamente individuate le fattispecie in cui è ancora ammesso il licenziamento ad nutum e che sfuggono al regime della L. n. 604/66: il licenziamento del dirigente rappresenta una di queste. Ad onor del vero, nel corso degli anni sono stati molteplici i tentativi di una censura di illegittimità costituzionale ai quali però la norma ha resistito[2]. In tale panorama sono intervenuti i contratti collettivi che hanno precisato che nel caso di risoluzione ad iniziativa dell’azienda, quest’ultima è tenuta a specificarne contestualmente la motivazione[3].

L’evoluzione del licenziamento ad nutum del dirigente

Al fine di individuare la disciplina applicabile nel caso della risoluzione del rapporto – c.d. licenziamento ad nutum (con un cenno del capo) del dirigente – dobbiamo far riferimento alla giurisprudenza che ha, nel tempo e nei casi concreti, provveduto a definire gli elementi qualificanti della figura del dirigente individuando le diversità di tutela nei casi di licenziamento tra tale categoria e i lavoratori sì subordinati, ma non dirigenti.

Un primo intervento della giurisprudenza diretto a definire la figura del dirigente lo ritroviamo nella sentenza 6 luglio 1972, n. 121 della Corte Costituzionale che, come detto sopra, si è pronunciata in merito alla questione di costituzionalità sollevata nei confronti dell’art. 10 della L. n. 604/1966 nella parte in cui esclude i dirigenti dalle tutele che sono previste per i licenziamenti individuali.[4]

In tale sentenza la Suprema Corte sostiene che il rapporto di lavoro del dirigente si distingue poiché caratterizzato da un rapporto di collaborazione e fiducia molto più “stretto” rispetto a quello degli altri lavoratori subordinati.

La categoria dirigenziale viene così definita dalla Corte Costituzionale: “A caratterizzare la categoria dei dirigenti concorrono la collaborazione immediata con l’imprenditore per il coordinamento aziendale nel suo complesso ed in un ramo importante di esso; il carattere fiduciario della prestazione; l’ampio potere di autonomia nell’attività direttiva; la supremazia gerarchica su tutto il personale dell’azienda o di un ramo importante di esso, anche senza poteri disciplinari, ma sempre con poteri organizzativi; la subordinazione esclusiva  all’imprenditore o ad un dirigente superiore; e l’esistenza di un potere di rappresentanza extra o infraziendale.”[5]

Potremmo quindi affermare che sono proprio le peculiari caratteristiche del rapporto di lavoro dirigenziale, ed in particolare l’attribuzione di una specifica fiducia al dirigente da parte del datore di lavoro, che in qualche modo giustificano la sottrazione dell’atto di recesso ai vincoli fondamentali del giustificato motivo, soggettivo e/o oggettivo, e sono alle base della maggiore libertà concessa all’iniziativa del datore di lavoro, rispetto alle altre categorie di lavoratori subordinati, in materia di cessazione del rapporto. Si determina in tal modo, in via teorica, una maggiore semplicità nello scioglimento del rapporto dirigenziale.

Il recesso così come disciplinato dall’articolo 2118 del codice civile è segno, a parere di chi scrive, di una concezione liberista del rapporto di lavoro, che avrebbe avuto sicuramente minor eco in dottrina e in giurisprudenza se solo fosse basato su un sostanziale equilibrio di forza delle posizione delle due parti, presupposto questo obiettivamente poco plausibile in un rapporto di subordinazione seppure di carattere speciale come quello del dirigente.

Dunque una asettica lettura dell’articolo 2118 c.c. consentirebbe al datore di lavoro di risolvere il contratto senza l’obbligo di fornire alcuna motivazione, prevedendo il solo onere procedurale di dare al lavoratore il preavviso[6]; ecco perché si definisce ad nutum: la risoluzione del rapporto di lavoro dipenderebbe esclusivamente dalla semplice volontà di interrompere il sinallagma ed il giudice sarebbe sollevato dall’onere di indagare sull’esistenza e validità di motivazioni poste alla base di tale volontà.

Questo non sta a significare che il rapporto di lavoro tra dirigente e datore di lavoro sia un rapporto privo di tutela contro il licenziamento, difatti, la contrattazione collettiva, ha provveduto a disciplinare la materia moderando il potere di recesso unilaterale del datore di lavoro, ad esempio sia nel Ccnl Dirigenti Industria che nel Ccnl Dirigenti Commercio si è introdotta la possibilità per il dirigente, ove non ritenga giustificata la motivazione addotta dall’azienda, ovvero nel caso in cui detta motivazione non sia stata fornita contestualmente alla comunicazione del recesso di ricorrere ad un Collegio Arbitrale di conciliazione, abilitato a verificare la “giustificatezza del licenziamento”, ed eventualmente disporre penalità economiche (anche molto rilevanti)[7].

Operando in tal modo, la contrattazione collettiva, non ha disapplicato l’articolo 2118 del codice civile, né ha potuto estendere ai dirigenti le tutele previste per gli altri lavoratori dipendenti (L. n. 604/66 e L. n. 300/70) ma ha decisamente modificato, nella procedura e nella sostanza, il recesso da parte del datore di lavoro, che non può più procedere senza addurre una motivazione.

Infatti, disponendo la possibilità concreta di sottoporre ad un giudizio la motivazione esposta dall’azienda, ricorrendo al Collegio arbitrale, vuol dire che la semplice espressione di volontà del datore non è più sufficiente a determinarne la legittimità. Pertanto il recesso, pur vigendo ancora l’art. 2118, non può più essere considerato ad nutum, poiché esiste un soggetto dotato del potere di intervenire nel merito della decisione del datore di lavoro.

Sul punto la giurisprudenza si è nel tempo evoluta da un primo orientamento volto al riconoscimento dell’obbligo di comunicazione scritta, ma non dell’obbligo di motivazione del licenziamento, a quello più recente e di orientamento opposto che determina un alleggerimento dei vincoli formali e procedurali, concentrandosi di più sulla sostanza che qualifica le ragioni del licenziamento e sulla possibilità di integrare le stesse anche successivamente in sede giudiziaria, durante l’istruttoria.

La Cassazione osserva che «l’art. 22, comma 2° del CCNL dirigenti settore industria, pur prevedendo che, in caso di risoluzione ad iniziativa dell’azienda, quest’ultima sia tenuta ad specificarne contestualmente la motivazione, non prevede, quale automatica e diretta conseguenza [della mancata specificazione contestuale], la spettanza dell’indennità supplementare; per contro il successivo terzo comma dispone che il dirigente, ove non ritenga giustificata la motivazione addotta ovvero nel caso che detta motivazione non sia stata fornita contestualmente alla comunicazione del recesso, possa ricorrere al collegio arbitrale di cui all’art. 19, il quale, ove riconosca che il licenziamento è ingiustificato, disporrà a carico dell’azienda un’indennità supplementare. Ne discende, ai sensi degli artt. 1362 e 1363 cc, che […]la richiesta valutazione della giustificatezza o meno del licenziamento presuppone che, pur in assenza di motivazione resa contestualmente, e a fortiori, ove la stessa sia stata insufficiente o generica, il collegio [arbitrale] possa riconoscere la sussistenza o meno delle ragioni giustificative del recesso datoriale e che quindi [….] il datore di lavoro è facoltizzato ad esplicitare la motivazione del licenziamento ovvero ad integrarla, nel rispetto del principio del contraddittorio, nell’ambito del giudizio arbitrale[8]».

In dottrina[9] però si tende a sottolineare come la richiesta successiva della motivazione sarebbe in contrasto con le previsioni della contrattazione collettiva che dispone la contestualità della stessa al momento del licenziamento (art. 22, Ccnl Dirigenti Industria). In altri termini, possiamo dire che l’orientamento dottrinale e quello giurisprudenziale hanno introdotto, per ciò che concerne il rapporto di lavoro dirigenziale, il principio della necessaria giustificazione del recesso che va ad assommarsi a quelli di tempestività, specificità e immodificabilità della stessa[10].

Nozione e ambiguità del termine “giustificatezza”

Per quanto concerne il concetto di giustificatezza[11], l’art. 22 del Ccnl Dirigenti industria ha statuito che “il dirigente, ove non ritenga giustificata la motivazione addotta dall’azienda, ovvero nel caso in cui detta motivazione non sia stata fornita contestualmente alla comunicazione del recesso, potrà ricorrere al Collegio arbitrale di cui all’art. 19” e nel caso in cui il licenziamento si riveli ingiustificato puo’ avere diritto ad una “indennità supplementare delle spettanza contrattuali di fine rapporto” determinata con un sistema di gradualità proporzionale all’anzianità di servizio.

Tuttavia la tutela adottata dalla contrattazione collettiva a salvaguardia del licenziamento ingiustificato ha carattere troppo generico e perciò si presta ad interpretazioni diverse.

Ciò ha generato molti interventi ed elaborazioni giurisprudenziali volti a dirimere le questioni più controverse tra le quali possiamo, senza dubbio, includere quella della ricognizione della nozione di “giustificatezza” con la sua peculiarità e diversità rispetto alle nozioni di giusta causa e giustificato motivo come definiti dall’articolo 2119 c.c. e dall’articolo 3 della L. n. 604/1966; senza però escludere che la giustificatezza possa comunque trovare fondamento sulle stesse circostanze su cui si basa il giustificato motivo soggettivo ed oggettivo. Deve sottolinearsi – in aderenza alla costante giurisprudenza, […]che, gli addebiti contestati al dipendente che rivesta una effettiva posizione dirigenziale, vanno valutati non tanto sotto il profilo della giusta causa, ma della sua giustificatezza, alla cui stregua può rilevare qualunque motivo purché giustificato, ossia costituente base di una decisione coerente e sorretta da ragioni apprezzabili sul piano del diritto, le quali richiedono non l’analitica verifica di specifiche condizioni (come previsto per il GMO) salvo quelle che si identifichino in quella costituita dalla proporzionalità tra sanzione e infrazione (richiesta dalla norma base contenuta nell’art. 2104 c.c.) – ma una globale valutazione che escluda l’arbitrarietà e la pretestuosità del licenziamento[12].

La nozione di giustificatezza, introdotta da norme contrattuali e che è ormai pacifico si basi sulla rilevanza attribuita al legame fiduciario del rapporto tra dirigente e datore di lavoro, si differenzia da quelle legali perché può ricomprendere e dare validità a qualsiasi motivo di recesso da parte del datore di lavoro (purché non sia di natura discriminatoria o di assoluta arbitrarietà) con i soli limiti del rispetto dei principi generali di correttezza e di buona fede. Secondo la recente giurisprudenza infatti può “rilevare qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore di lavoro[13].

Dunque la concezione di giustificatezza che emerge dagli orientamenti giurisprudenziali si discosta, o tenta di farlo, da quello di giusta causa e giustificato motivo di cui agli articoli 2118 e 2119, ma è coerente ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 e segg. del codice civile.

Inoltre, “il licenziamento del dirigente può fondarsi su ragioni oggettive concernenti esigenze di riorganizzazione aziendale, che non devono necessariamente coincidere con l’impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di crisi tale da rendere particolarmente onerosa detta continuazione, dato che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui si misura la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica, garantita dall’articolo 41 Cost. […]per altro verso, la libertà di iniziativa economica non è in grado ex se di offrire copertura a licenziamenti immotivati o pretestuosi”11.

In conclusione possiamo pacificamente affermare, sulla base delle numerose sentenze in materia, che la valutazione sulla giustificatezza del licenziamento si sviluppa da una prospettiva negativa, nel senso che è maggiormente concentrata  non ad identificare validi presupposti a sostegno del licenziamento, ma piuttosto a verificare l’assenza di ragioni discriminatorie, pretestuose o meramente arbitrarie.

La giusta causa di licenziamento

Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto […] qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto; così dispone l’articolo 2119 del codice civile rubricato “Recesso per giusta causa”. La giusta causa del licenziamento determinerebbe pertanto il recesso in tronco del contratto senza neanche un preavviso minimo. Ma cos’è la giusta causa? Qual è la causa che può determinare in modo così severo l’interruzione del rapporto lavorativo? Senza dubbio la difficoltà di inquadrare con precisione il concetto di giusta causa è alla base della copiosa produzione giurisprudenziale e delle divergenti posizioni dottrinali che nel tempo si sono via via modificate e alternate. Per lungo tempo è prevalso l’orientamento che considerava la giusta causa “qualsiasi fatto idoneo a scuotere la fiducia” del datore, permettendo di considerare anche elementi ed eventi ritenuti sufficienti a violare quella particolare fiducia che il datore ripone nel proprio dipendente e che si sostanzia nella aspettativa di operosità, di moralità, di fedeltà, criteri questi che sembrano addurre oltre che a riferimenti giuridici e contrattuali, apprezzabili oggettivamente, anche a giudizi morali, utilizzati per valutare come gravi inadempimenti circostanze riconducibili anche al contegno complessivo e alla personalità del lavoratore[14]. Il considerevole grado di fiducia che caratterizza il rapporto dirigente/datore, tende quindi ad ampliare l’esegesi dei casi in cui si configura la giusta causa, riconducendola non solo a gravi mancanze lavorative, ma anche al verificarsi di circostanze, a volte persino esterne al rapporto di lavoro, individuate come idonee a ledere l’elemento fiduciario del rapporto, riconducendo quindi la giusta causa ad elementi con valenza soggettiva. Successivamente la Cassazione ha ritenuto che “a legittimare il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo non è sufficiente la perdita di fiducia del datore di lavoro che si ricolleghi ad un suo apprezzamento meramente soggettivo, bensì occorre che il venir meno della fiducia sia motivatamente determinata dal fatto addebitato ai dipendenti e dimostrato nella sua esistenza”[15]. L’orientamento dottrinale e giurisprudenziale si sta pertanto spostando verso un criterio di fiducia ricondotto maggiormente verso quello inerente il vaglio degli adempimenti (o inadempimenti) contrattuali; anche se è ancora vivo il dibattito tra la teoria c.d. “soggettiva” che considera i fatti alla base del recesso per giusta causa come riconducibili solo a gravi inadempimenti ad obblighi contrattuali e la teoria c.d. “oggettiva” che ammette alla base della rottura fiduciaria anche situazioni e comportamenti extra-lavorativi.

La Corte di Cassazione, con una recente sentenza[16], ha fornito precisazioni importanti riguardo la peculiarità dell’elemento fiduciario nel rapporto dirigenziale: il caso posto all’attenzione della Suprema corte ha origine dall’impugnazione di un licenziamento per giusta causa di una dirigente apicale in relazione alla quale la Cassazione ha confermato l’orientamento secondo cui, sia per i dirigenti apicali che per quelli medi o minori, il rapporto fiduciario è suscettibile di essere leso anche dalla mera inadeguatezza rispetto ai compiti assegnati. Il rapporto di lavoro dirigenziale, infatti, si contraddistingue per l’importanza riconosciuta al vincolo fiduciario che lega le parti, così che anche la semplice negligenza può causare la rottura del rapporto di fiducia e, pertanto, il datore di lavoro è legittimato a intimare il licenziamento per giusta causa.

«Con riferimento al licenziamento dei dirigenti è altrettanto fermo l’indirizzo di questa Corte secondo cui sia per i dirigenti convenzionali, quelli cioè da ritenere tali alla stregua delle declaratorie del contratto collettivo applicabile, sia per i dirigenti apicali o per quelli medi o minori, il rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro è particolarmente stretto in ragione delle mansioni affidate e, quindi, è suscettibile di essere leso — specialmente per i dirigenti al vertice dell’organigramma aziendale — anche da mera inadeguatezza rispetto ad aspettative riconoscibili ex ante o da una importante deviazione dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro (ex multis Cass. 13 dicembre 2010,11. 25145). Pertanto, si è affermata l’insussistenza di una piena coincidenza tra le ragioni di licenziamento di un dirigente e di un licenziamento disciplinare, derivante dalla peculiare posizione del predetto e del relativo vincolo fiduciario, che può portare al recesso anche se il datore di lavoro gli addebiti un comportamento negligente, o colpevole in senso lato, ovvero se, a base del recesso, siano poste condotte comunque suscettibili di pregiudicare il rapporto di fiducia tra le parti (Cass. 10 febbraio 2015, n. 2553), dovendosi comunque escludere l’arbitrarietà del licenziamento, al fine di evitare .. una generalizzata legittimazione della piena libertà di recesso dei dirigenti da parte del datore di lavoro (vedi, per tutte: Cass. 15 aprile 2005, n. 7828)».

Alla luce di quanto esposto, nel caso dei dirigenti, la tipologia di licenziamento per giusta causa non poteva non risentire della specificità del rapporto, legata al potere decisionale, al ruolo di vertice nell’organizzazione alla figura quale alter ego dell’imprenditore che il dirigente riveste; tutto ciò fa sì che il licenziamento di un dirigente per giusta causa abbia un peso diverso, e senz’altro maggiore, rispetto a quello di un dipendente di altra categoria. Difatti, circostanze o condotte, non riconducibili ad una giusta causa o ad un giustificato motivo per gli altri lavoratori, possono invece ben giustificare la risoluzione del rapporto dirigenziale; questo perché l’attribuzione di maggiori poteri presuppone un maggiore investimento in fiducia e di conseguenza una più ampia serie di ipotesi in grado di comprometterla. Possiamo quindi dire che la specificità della categoria dei dirigenti, quali lavoratori subordinati, rispetto alle altre risiede nella circostanza per cui, la contrattazione collettiva, in mancanza di una reale giustificazione del licenziamento, non ha disposto norme che possano condizionare l’efficacia del provvedimento di recesso datoriale (che risulta sempre valido), ma si è limitata a sanzionare detta mancanza con il riconoscimento di un’indennità supplementare prevista e determinata da ciascun Ccnl.

Secondo l’orientamento prevalente, per stabilire l’esistenza della giusta causa il giudice deve valutare alla stregua dei parametri dell’art. 2119 c.c. l’effettiva gravità del comportamento stesso considerando tutte le circostanze del caso concreto, ossia prendendo in considerazione gli aspetti empirici del caso, oggettivi e soggettivi, quali ad esempio la natura e qualità del singolo rapporto, la posizione delle parti, il grado di affidamento richiesto dallo svolgimento delle specifiche mansioni, l’intensità dell’elemento intenzionale[17].

A questo segue il momento valutativo vero e proprio che si sostanzia nello stimare la specifica mancanza o inadempienza, determinando se sia idonea a ledere in modo irrecuperabile il legame fiduciario tale da legittimare un sanzione quale quella espulsiva. Tale giudizio è riservato al giudice di merito e se motivato congruamente non può essere rimesso al giudizio di legittimità della Corte di Cassazione. La formulazione dell’art. 2119 c.c. nelll’ individuare una giusta causa di recesso in una circostanza che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto è tanto severa quanto ampia e generica, tanto che tale margine di discrezionalità comporta, come già sottolineato, che un analogo comportamento tenuto da dipendenti diversi (anche della medesima categoria) possa essere valutato e sanzionato in modo sensibilmente diverso,[18] proprio perché rimesso alle valutazioni, di cui sopra, ad opera del giudice di merito.

 

Conclusioni

Sono trascorsi ormai 10 lustri dall’introduzione, nel panorama giuslavoristico, del concetto di giustificatezza accanto a quello di giusta causa del codice civile, e non possiamo certo dire che l’evoluzione del concetto si sia arrestata. Complice anche il fervore legale in materia di flessibilità (in uscita) dei rapporti di lavoro (Jobs Act) e della lunghissima crisi economica degli ultimi anni, nelle aule dei tribunali, con interpretazioni e valutazioni sui casi concreti, si sono confermati i principali detentori dell’evoluzione delle vicende legate alla cessazione del rapporto di lavoro dirigente/datore. Per completezza di analisi sull’argomento, occorre anche tenere in considerazione quanto avvenuto, in seguito alla procedura d’infrazione europea aperta nei confronti dell’Italia, con riguardo all’esclusione dei dirigenti nella disciplina dei licenziamenti collettivi nel nostro ordinamento, che ha portato il legislatore nazionale, ad opera della L. n. 161/2014, ad includere i dirigenti in tale disciplina.  In particolare, l’art. 16 della legge n. 161 del 2014 ha modificato l’art. 24 della legge n. 223 del 1991, stabilendo che i dirigenti debbono essere computati sia nella soglia dimensionale aziendale dei quindici dipendenti, sia nel numero dei lavoratori interessati dalla riduzione di personale. La norma prevede anche che in caso di mancato rispetto della procedura il datore di lavoro sia tenuto al pagamento, in favore del dirigente, di un’indennità in misura compresa tra dodici e ventiquattro mensilità; parallelamente il nuovo Ccnl dei dirigenti industriali (2015), ha espressamente stabilito che le previste indennità supplementari per il caso di recesso del datore di lavoro non vengono applicate nel caso di licenziamento collettivo, in tale ipotesi verrà applicata esclusivamente la tutela risarcitoria prevista dalla L. n. 161/2014. Viene così confermata, anche in questo caso, la scelta legislativa di mantenere una diversità di tutela tra la categoria dei dirigenti e quella degli altri lavoratori subordinati. Ad una prima lettura sembrerebbe paradossalmente evidenziarsi una tutela risarcitoria più favorevole rispetto a quella applicabile ai lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti, in quanto non solo la misura minima dell’indennizzo, dodici mesi anziché quattro, risulta decisamente più elevata, ma, nel caso dei dirigenti, anziché essere determinata da un calcolo correlato all’anzianità di servizio, viene invece decisa dal giudice. Sarebbe in tal modo rivoluzionata la storica posizione del legislatore, che ha tradizionalmente escluso la categoria dei dirigenti dalla disciplina limitativa dei licenziamenti. Tuttavia per valutare l’evoluzione delle ultime novità legislative sul piano giuridico, bisognerà attendere il verificarsi di un significativo numero di casi.

[1] V. Sintesi nn. 3/2018, 6/2018 e 8/2018.

[2] Una delle più importanti è Corte Cost. 6 luglio 1972, n. 121 […] la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 in generale, e cioé affermato che la disciplina relativa ai licenziamenti unilaterali per giusta causa e per giustificato motivo non si riferisce, e senza alcun contrasto con l’art. 3 della Costituzione, ai dirigenti, […]

[3] Art. 22 del CCNL Dirigenti Industria e art. 39 del CCNL Dirigenti Commercio.

[4] Berruti M., Il rapporto di lavoro del dirigente, La giurisprudenza, 2005, pag. 19.

[5] C. Cost. n. 121/72 cit.

[6] Anche in tema di preavviso si riscontrano orientamenti diversi in merito all’efficacia del preavviso in ipotesi di recesso ad nutum  obbligatoria (Cass., sez. Lavoro., 21 maggio 2007, n. 11740; Cass., sez. Lavoro, 16 giugno 2009, n. 13959) oppure reale  (Cass, sez. Lavoro, 15 maggio 2007, n. 11094;  Cass., sez. Lavoro,  30 agosto 2004, n. 17334).

[7] Artt. 22 e 19 del CCNL Dirigenti Industria e artt.39 e 34 del CCNL Dirigenti Commercio

[8] Cass., sez. Lavoro, 11 febbraio 2013,  n. 3175:- Nel caso di specie un dirigente, contestando la genericità delle motivazioni addotte dalla società nella lettera di licenziamento, aveva adito l’autorità giudiziaria al fine di vedere accertata l’illegittimità del recesso ed ottenere il riconoscimento dell’indennità supplementare prevista dal CCNL Dirigenti Industria.

[9] M. De Cristofaro, Licenziamento dei dirigenti e comunicazione dei motivi, Dir. Lav.  2000, I, pag. 364 ss; C.  Diotallevi,  Il licenziamento dei dirigenti privati e pubblici, Edizioni Univ. Romane, 2010.

[10] M. L. Galantino,G, Pellacani,  Licenziamenti. Forma e procedura, Giuffrè, 2011,

[11] Il concetto di giustificatezza è apparso negli anni 70 ad opera della contrattazione collettiva (Ccnl dirigenti industria) come risposta all’esclusione della categoria alle tutele previste dalla Statuto dei Lavoratori e a quelle della L. n. 604/66.

[12] Cass., sez. Lavoro, 2 settembre 2010, n. 18998; Pulice M., La “giustificatezza” del licenziamento di un dirigente, Lav. giur.,2011; Cass., sez, Lavoro, 17 marzo 2014, n. 6110; Cass., sez. Lavoro, 11 giugno 2008, n. 15496 .

[13] Cass., sez. Lavoro., 17 febbraio 2015, n. 3121.

[14] P. Tullini, Questioni interpretative in tema di “giusta causa, Riv. trim. dir. proc. civ. 1988,  659.

[15] A. Ripa, Dirigenti e giusta causa, Ipsoa, 2018, 21 che richiama Cass., sez. Lavoro 26 giugno 1984, n. 3744.

[16]  Cass., sez. Lavoro, 10 dicembre 2015, n. 24941.

[17] Cass., sez. Lavoro, 7 ottobre 2013, n. 22791

[18] Cass., sez. Lavoro, 19 settembre 2011, n. 19074.