La Corte costituzionale con la sentenza n. 7 del 22 gennaio 2024 ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sul regime sanzionatorio dei licenziamenti collettivi nel caso di violazione dei criteri di scelta. In particolare, la disciplina contenuta negli articoli 3, comma 1, e 10 del Decreto legislativo n. 23 del 4 marzo 2015 (d’ora in poi D.lgs. n. 23/2015) prevede quale tutela, in favore dei lavoratori assunti successivamente al 7 marzo 2015, un’indennità risarcitoria in ragione dell’anzianità di servizio in luogo della reintegra, tutela ancora applicabile ai lavoratori assunti in data antecedente al 7 marzo 2015 e soggetti quindi alla c.d. Legge Fornero. L’intervento della Corte costituzionale è subordinato alla censura presentata dalla Corte di Appello di Napoli in merito alle conseguenze derivanti dalla violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero coinvolti in una procedura di licenziamento collettivo, sollevando la differenza di trattamento prevista dal Legislatore a favore di lavoratori che si trovino nella medesima situazione soggetta a tutela. In primo luogo, la Corte costituzionale, considerando i lavori parlamentari e la finalità complessiva perseguita dalla Legge delega n. 183 del 10 dicembre 2014 (meglio nota come Jobs Act), ha ritenuto che il riferimento contenuto nella stessa Legge Delega ai “licenziamenti collettivi” riguardasse sia quelli individuali per giustificato motivo oggettivo, sia quelli collettivi. Ha, quindi, escluso la sussistenza di violazione dei criteri direttivi stabiliti dalla Legge delega. Inoltre, con riferimento alla censura sulla violazione del principio di uguaglianza, la Corte costituzionale ha dichiarato l’infondatezza della questione, ritenendo che il riferimento temporale alla data di assunzione consenta di differenziare le situazioni: la nuova disciplina dei licenziamenti è orientata a incentivare l’occupazione e a superare il precariato ed è pertanto prevista solo per i “giovani lavoratori” (coloro che sono stati assunti in data successiva al 7 marzo 2015). Secondo la Corte, il Legislatore, infatti, non era tenuto, sul piano costituzionale, a rendere applicabile questa nuova disciplina anche ai lavoratori “anziani” (coloro già in servizio al 7 marzo 2015). Prima di entrare nel vivo della sentenza della Corte costituzionale, ripercorriamo a grandi linee quella che è ad oggi la procedura da seguire in caso di licenziamento collettivo.
LA DISCIPLINA DEL LICENZIAMENTO COLLETTIVO
I datori di lavoro che occupano più di 15 dipendenti, che intendono ridurre collettivamente il personale operando più di 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni, nonché le aziende ammesse al trattamento di Cigs il cui programma prevede lavoratori in esubero, sono tenuti ad esperire una specifica procedura sindacale prima di procedere alla risoluzione dei rapporti di lavoro con il personale considerato in eccedenza. Rientrano nella disciplina di cui sopra tutti i datori di lavoro con eccezione delle cessazioni per scadenza di rapporti di lavoro a termine, fine lavoro nelle costruzioni edili e nei casi di attività stagionali o saltuarie. Si tratta quindi di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo plurimo, connessi alla riduzione o trasformazione dell’attività produttiva ovvero a un processo unitario di riorganizzazione del lavoro, che determina un’eccedenza di personale, soggetta a una procedura ad hoc. La procedura di riduzione del personale si attiva mediante comunicazione preventiva alle rappresentanze sindacali al fine di informarle della volontà di procedere alla riduzione del personale informando loro circa le ragioni, il numero e i profili professionali dei lavoratori ritenuti in esubero. Ricevuta la comunicazione, le RSA e/o le associazioni sindacali possono chiedere entro 7 giorni dal ricevimento della comunicazione di apertura un esame congiunto al fine di analizzare le cause degli esuberi, le possibilità di reimpiego dei lavoratori eccedenti nonché le eventuali misure sociali di riqualificazione e riconversione dei lavoratori licenziati. L’esame deve esaurirsi entro 45 giorni, ridotti alla metà qualora la procedura riguardi meno di 10 dipendenti, e può concludersi con la stipula di un accordo sindacale. In caso di esito negativo dell’esame congiunto e, quindi, di mancato accordo con le parti sindacali, gli organi amministrativi competenti possono avviare un’ulteriore fase di consultazione formulando anche proprie proposte per il raggiungimento di un’intesa. Tale ulteriore esame delle cause e delle possibili soluzioni deve concludersi entro 30 giorni, ridotti alla metà qualora la procedura riguardi il licenziamento di meno di 10 lavoratori. Ultimata la procedura sindacale e l’ulteriore fase amministrativa, il datore di lavoro può procedere con i licenziamenti dei lavoratori eccedenti comunicando loro il recesso per iscritto e nel rispetto dei termini di preavviso. Circa i lavoratori considerati in esubero, il datore di lavoro è tenuto a rispettare criteri di individuazione stabiliti dall’accordo sindacale ovvero, in assenza, previsti in via sussidiaria dalla legge (carichi di famiglia, anzianità di servizio ed esigenze tecniche e organizzative dell’impresa). I licenziamenti devono essere intimati nell’arco di 120 giorni dalla conclusione della procedura salvo diverse indicazioni previste nell’accordo sindacale.
IMPUGNAZIONE LICENZIAMENTO COLLETTIVO E RISPETTIVE TUTELE
Il licenziamento collettivo può essere impugnato per iscritto entro 60 giorni dalla sua intimazione con qualunque atto giudiziale o extragiudiziale idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore di ricorrere in via giudiziale. Entro il successivo termine di 180 giorni, deve essere depositato il relativo ricorso al tribunale. Circa le tutele previste dalla legge, i regimi attualmente vigenti sono i seguenti:
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L’INTERVENTO DELLA CORTE COSTITUZIONALE SULLA QUESTIONE DI LEGITTIMITÀ DELLA TUTELA PREVISTA DAL JOBS ACT IN CASO DI VIOLAZIONE DEI CRITERI DI SCELTA
Come accennato in premessa, le censure di illegittimità costituzionale mosse dalla Corte costituzionale sono incentrate sul regime sanzionatorio previsto in caso di violazione dei criteri di scelta in una procedura di licenziamento collettivo, intimato ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, per i quali non è più prevista la reintegra quale conseguenza di illegittimità di tale fattispecie di licenziamento. Nello specifico, la Corte di Appello censura l’eliminazione della reintegra in quanto la stessa determina una disciplina ingiustificatamente e irragionevolmente differenziata, in riferimento allo stesso licenziamento collettivo, tra lavoratori “giovani” (ossia con anzianità a partire dal 7 marzo 2015) e quelli “anziani” (con anzianità antecedente al 7 marzo 2015), dal momento che per quest’ultimi trova ancora applicazione la reintegra in caso di violazione dei criteri di scelta. La Corte costituzionale, in risposta a tale censura, ha ritenuto che il presupposto interpretativo della Corte rimettente di per sé è corretto: nel vigente sistema sanzionatorio, la tutela applicabile nei confronti dei rapporti di lavoro risolti in violazione dei criteri di scelta a conclusione di una procedura di licenziamento collettivo è diversamente modulata a seconda della data di costituzione del rapporto stesso. Nonostante ciò, per la Corte non è ravvisabile alcun profilo di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà del diverso trattamento sanzionatorio previsto per gli assunti prima e dopo il 7 marzo 2015. Richiamando quanto già espresso sulla ragionevolezza del criterio di applicazione temporale del regime introdotto dal D.lgs. n. 23/2015 ai soli lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 in merito ai licenziamenti individuali, la Corte ha sostenuto che “non contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche” e che “spetta difatti alla discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme”. Il diverso trattamento sanzionatorio modulato dal D.lgs. n. 23/2015 per i licenziamenti individuali non viola il principio di uguaglianza, trovando il regime temporale un motivo non irragionevole nella finalità perseguita dal legislatore, “di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione”. Secondo la Corte, tale conclusione va applicata anche con riferimento ai licenziamenti collettivi, sussistendo la stessa logica di gradualità di applicazione della nuova normativa: per i “vecchi lavoratori” l’eliminazione della reintegra avrebbe significato una diminuzione della tutela; per i “nuovi lavoratori”, invece, il mancato riconoscimento della reintegra in caso di violazione dei criteri di scelta in una procedura di licenziamento collettivo, è riconducibile al nuovo dimensionamento della tutela nei confronti dei licenziamenti legittimi rientrante nella discrezionalità del legislatore. Quindi, anche per i licenziamenti collettivi, come per quelli individuali, la ragionevolezza di una disciplina differenziata va individuata nello scopo dichiarato nella legge delega di favorire l’ingresso nel mondo del lavoro di “nuovi assunti”, accentuandone la flessibilità in uscita con il riconoscimento di una tutela indennitaria predeterminata, risultando indifferente a tale fine che il recesso sia individuale o collettivo. La Corte, quindi, conclude ritenendo adeguata l’indennità risarcitoria definita dal D. lgs. n. 23/2015, proprio con riferimento alla violazione dei criteri di scelta in presenza di licenziamento collettivo, precisando che in ogni caso “la materia, frutto di interventi normativi stratificati, non può che essere rivista in termini complessivi, che investano sia i criteri distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, sia la funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie”.