LICENZIAMENTI ILLEGITTIMI NELLE PMI: la Corte Costituzionale dichiara incostituzionale il tetto delle sei mensilità previsto dall’art. 9 del Jobs Act
Andrea Ottolina, Avvocato in Milano
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Con la sentenza n. 118 del 21 luglio 2025, la Corte Costituzionale è intervenuta nuovamente sull’art. 9, co. 1 del D.lgs. n. 23/2015 (c.d. “Jobs Act”), dichiarandone l’illegittimità costituzionale nella parte in cui prevedeva che, nei casi di licenziamento illegittimo intimato da imprese che non raggiungono i requisiti dimensionali di cui all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, l’indennità risarcitoria “non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità” dell’ultima retribuzione utile per il calcolo del trattamento di fine rapporto.
Come noto, l’art. 9 del Jobs Act, nella sua versione originaria, oltre a prevedere un dimezzamento dell’indennità risarcitoria rispetto a quella prevista per le imprese con più di quindici dipendenti, fissava il limite massimo delle sei mensilità, mutuando in questo lo storico limite previsto per le c.d. piccole imprese dall’art. 8, L. n. 604/1966 (tuttora applicabile ai rapporti di lavoro instaurati prima dell’entrata in vigore del Jobs Act).
Tale sistema era stato giudicato inadeguato dalla Consulta già nel 2022. In quell’occasione la Corte Costituzionale era stata investita della questione di legittimità sull’art. 9 in argomento dal Tribunale di Roma, il quale aveva ritenuto che il limite massimo di sole 6 mensilità di risarcimento previsto da tale norma, definito “del tutto inadeguato e per nulla dissuasivo”, non attuasse un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto. L’esclusivo riferimento al numero di dipendenti, infatti, non consentiva di valorizzare le peculiarità di ciascun caso concreto, non garantiva un giusto ristoro del pregiudizio subito dal lavoratore e non assolveva alla necessaria funzione deterrente rispetto a licenziamenti comminati in assenza di idonea giustificazione. Con la sentenza n. 183 del 22 luglio 2022, la Corte Costituzionale aveva dichiarato inammissibili le questioni sollevate dal Tribunale di Roma, pur riconoscendone la fondatezza. La Consulta aveva infatti rilevato che il sistema delle tutele delineato dall’art. 9 non realizzava un equilibrato contemperamento degli interessi in gioco, ma aveva ritenuto di non poter porre rimedio direttamente a tale problematica, spettando al legislatore individuare, tra le molteplici alternative possibili, la soluzione più idonea a superare le incongruenze censurate. In quella stessa decisione, la Corte aveva però sottolineato con nettezza l’anacronismo di un sistema che continuava a differenziare le tutele esclusivamente sulla base del numero di dipendenti: in un contesto economico caratterizzato da automazione, processi produttivi snelli e imprese anche molto solide dal punto di vista finanziario che operano con organici ridotti, il criterio dimensionale aveva ormai perso la capacità di rappresentare la reale forza economica del datore di lavoro. La Corte aveva però avvertito che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe stato tollerabile e avrebbe imposto un intervento diretto.
A due anni di distanza dalla sentenza n. 183/2022, il Tribunale di Livorno è tornato a sottoporre alla Corte la questione di legittimità dell’art. 9, co.1 con l’ordinanza n. 240 del 2 dicembre 2024. Il giudice rimettente ha innanzitutto rilevato come l’orizzonte temporale che la Corte aveva lasciato al legislatore per sanare il vulnus fosse ormai ampiamente esaurito, essendo trascorsi più di due anni senza alcun intervento, mentre la disciplina censurata continuava ad applicarsi alla quasi totalità delle imprese nazionali e, dunque, alla gran parte dei lavoratori, rendendo l’urgenza di provvedere “ francamente non ulteriormente procrastinabile”. Nel merito, il Tribunale di Livorno ha rilevato che la forbice di tre-sei mensilità fissata dall’art. 9 era talmente ridotta da impedire ogni personalizzazione dell’indennità, trattando in modo uniforme situazioni molto diverse per gravità e conseguenze. Tale rigidità, fondata sull’esclusivo criterio del numero dei dipendenti, determinava al contempo una disparità di trattamento rispetto ai lavoratori delle imprese sopra soglia, il cui limite massimo è fissato in trentasei mensilità, e un’inadeguatezza della sanzione sotto il profilo compensativo e deterrente. Di qui la richiesta alla Corte di dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui fissava il tetto massimo delle sei mensilità.
Accogliendo le censure, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 118 in commento, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 9 nella parte relativa al tetto massimo delle sei mensilità, pur ritenendo compatibile con i parametri costituzionali il meccanismo del dimezzamento dell’indennità rispetto alle imprese sopra soglia. A differenza di quanto accaduto nel 2022, la Corte ha sottolineato che il tempo trascorso e il perdurare dell’inerzia legislativa avevano esaurito il tempo lasciato al Parlamento per intervenire, rendendo non più procrastinabile un pronunciamento diretto. A tal proposito, la Consulta ha inoltre sottolineato che, a differenza della questione sollevata nel 2022, il rinvio effettuato dal Tribunale di Livorno non richiedeva un intervento manipolativo di ampio respiro, volto a ridefinire l’intero impianto delle tutele per i datori di lavoro sotto soglia incidendo sui criteri stessi di individuazione del “piccolo” datore di lavoro, operazione che sarebbe rimasta nella discrezionalità del legislatore e che, in assenza di parametri normativi certi, la Corte non avrebbe potuto compiere. Al contrario, il Tribunale di Livorno aveva chiesto esclusivamente l’eliminazione di una significativa delimitazione dell’indennità risarcitoria ormai ritenuta insostenibile.
Partendo da tali presupposti, la Corte Costituzionale ha ritenuto che la previsione di un limite invalicabile di sei mensilità impedisse al giudice di personalizzare l’indennità alla luce delle peculiarità del caso concreto, comprimendo eccessivamente la possibilità di commisurare l’indennizzo alla gravità del vizio che inficia il licenziamento. Si trattava, nelle parole della Consulta, di una vera e propria “liquidazione forfettizzata e standardizzata”, incompatibile con il principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione e con l’esigenza di una tutela adeguata e dissuasiva.
Particolarmente significativa è la conferma dell’assunto già espresso nel 2022: in un mercato quale quello attuale, il numero dei dipendenti non può costituire l’unico indice per definire la minore forza economica delle imprese e giustificare regimi sanzionatori deteriori. In questo senso, la Corte ha richiamato le soluzioni adottate dal diritto europeo e da altri settori dell’ordinamento interno (come il Codice della crisi d’impresa), nei quali la distinzione dimensionale è costruita anche su parametri economici quali il fatturato e il bilancio, ritenuti essenziali per rappresentare correttamente la sostenibilità dei costi da parte di una singola impresa. Su questo punto, la Consulta ha voluto espressamente ribadire l’auspicio che il legislatore intervenga, precisando che il criterio numerico non può restare l’unico parametro di riferimento per misurare la forza economica delle imprese e la loro capacità di sopportare i costi derivanti da un licenziamento illegittimo. Dal punto di vista applicativo, la pronuncia comporta che la tutela risarcitoria per i licenziamenti illegittimi nelle imprese fino a 15 dipendenti potrà ora arrivare fino a 18 mensilità, pari alla metà del massimo previsto per le imprese sopra soglia dall’art. 3, co. 1 del Jobs Act. Resta esclusa, invece, la possibilità di applicare la tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 3, co. 2. La decisione della Corte produce effetti immediati anche sui giudizi in corso, incidendo sulle liquidazioni già in fase di definizione. Resta da chiedersi quale impatto potrà avere questa decisione sul mercato del lavoro. Da un lato, è comprensibile la logica sottesa alla Consulta di voler rafforzare le tutele dei lavoratori, anche alla luce dei mutamenti del mercato e della necessità di aggiornare i parametri di individuazione della forza economica delle imprese. Dall’altro, occorrerà verificare se l’aumento del rischio economico legato a eventuali licenziamenti non finirà per irrigidire le scelte occupazionali delle piccole imprese, scoraggiandole dal procedere a nuove assunzioni. È probabile, inoltre, che nel breve termine la nuova disciplina renda più complesse le composizioni bonarie in sede stragiudiziale dei contenziosi sui licenziamenti impugnati, con il rischio di un incremento del numero delle cause portate in tribunale. Si può ipotizzare, peraltro, che, come già accaduto dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018 che aveva eliminato il criterio rigido di quantificazione dell’indennità basato sull’anzianità aziendale, i giudici continueranno a utilizzare proprio l’anzianità di servizio come parametro di riferimento principale per determinare l’indennizzo. Ne consegue che, salvo casi particolari, sarà difficile che il limite delle sei mensilità venga superato per rapporti di lavoro di durata inferiore ai dieci anni. Colpisce in ogni caso che la pronuncia della Consulta sia arrivata a pochi mesi dal mancato raggiungimento del quorum su uno dei referendum che intendeva ottenere lo stesso effetto: l’abrogazione del limite di sei mensilità previsto dall’art. 8 della L. n. 604/1966 per le imprese sotto i 15 dipendenti, norma ancora applicabile ai rapporti di lavoro instaurati prima del Jobs Act. Ed è proprio qui che si apre un nuovo squilibrio di tutela: tra i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, oggi soggetti all’art. 9 del D.lgs. n. 23/2015 nella sua versione “costituzionalmente orientata”, e quelli assunti prima di tale data, per i quali continua a valere la tutela indennitaria limitata alle sei mensilità ex art. 8 della L. n. 604/1966. È presumibile, a questo proposito, che, nell’ulteriore inerzia del legislatore, la Corte Costituzionale venga chiamata a intervenire anche sul limite previsto dall’art. 8, L. n. 604/1966. Ma è comunque auspicabile un intervento legislativo organico che riporti ordine, coerenza e sistematicità in una materia che appare sempre più frammentata, con una stratificazione di regimi che complica la vita delle imprese e genera evidenti disparità di trattamento tra lavoratori.