Ci sono norme mal pensate. Concepite con eccessiva superficialità da un legislatore bravo a considerare i benefici diretti ma incapace di valutare le possibili conseguenze negative che spesso si nascondono tra le pieghe di un provvedimento.
Norme la cui applicazione evidenzia delle storture che spesso costringono le aziende a trovare delle soluzioni (se non addirittura dei veri e propri escamotage) al fine di evitare che i propri lavoratori si lamentino degli effetti perversi che l’apparente favorevole applicazione di uno “sconto” ha di contro sulla perdita di altri benefici. Una di queste norme è l’esonero parziale dei contributi previdenziali a carico dei lavoratori dipendenti introdotto per la prima volta dall’art. 1, co. 121, della Legge n. 234 del 30 dicembre 2021.
Una norma che ha visto successive modifiche che hanno amplificato la portata dei benefici in capo al lavoratore ma, contestualmente, anche gli effetti perversi.
L’ESONERO CONTRIBUTIVO
Nello specifico oggi, dopo le modifiche apportate dall’art. 39 del D.l. n. 48/2023, la norma prevede, per il periodo dal 1° luglio 2023 al 31 dicembre 2023, un esonero sulla quota dei contributi previdenziali per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti a carico del lavoratore nelle seguenti misure:
– 6 punti percentuali a condizione che la retribuzione imponibile, parametrata su base mensile per tredici mensilità, non ecceda l’importo mensile di 2.692 euro;
– 7 punti percentuali a condizione che la retribuzione imponibile, parametrata su base mensile per tredici mensilità, non ecceda l’importo mensile di 1.923 euro.
In relazione alla tredicesima mensilità valgono le stesse aliquote, rispettivamente del 2% e 3%, previste dalla normativa vigente al 30 giugno 2023.
LE PROBLEMATICHE
Un primo problema nasce dal fatto che la norma individua una soglia al di sotto della quale il beneficio spetta, sopra la quale il beneficio non spetta.
Quando nel 2021 il beneficio era limitato allo 0,8% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali la perdita, per retribuzioni lorde vicine ai 2.000 euro, era limitata ad una decina di euro netti al mese (ma comunque un centinaio di euro all’anno).
Con l’aumento prima al 2%, poi con l’introduzione di un nuovo esonero del 3% – aggiornati da ultimo rispettivamente al 6% e al 7% – si è evidenziata l’incidenza negativa sul netto in busta paga nel caso di perdita del diritto all’esonero (oggi si arriva quasi a 1.200 euro netti annui).
È ovvio che non sia piacevole per il lavoratore rinunciare ad un centinaio di euro al mese per aver sforato di pochi euro la soglia dei 2.692 euro (il passaggio dai 1.923 ai 2.692 è meno doloroso dato che parliamo di un 1% lordo di differenza).
Proviamo allora ad ipotizzare alcune possibili soluzioni.
I MINIMI CONTRATTUALI
Ovviamente ci sono delle situazioni in cui c’è poco da fare. Ci riferiamo sempre e solo a “soluzioni” consentite dalla norma.
Se tale limite è superato perché il minimo retributivo spettante per contratto collettivo è, seppur di poco, oltre soglia non esiste nessuna una soluzione. Fortunatamente sono pochi i casi in cui ciò avviene dato che retribuzioni base superiori a 2.692 euro, limite oltre il quale l’esonero non è riconosciuto, non si vedono spesso anche nei livelli cosiddetti apicali.
I SUPERMINIMI
Diverso il caso in cui i limiti sono superati seppur di pochissimo a causa, ad esempio, del riconoscimento di un superminimo.
In questo caso sarebbe bene in sede di definizione dell’importo del superminimo operare delle preventive verifiche e, ove vi sia una “convenienza”, prevederlo di qualche euro in meno per far sì che il lavoratore usufruisca dell’esonero. Certo, al primo aumento da contratto nazionale siamo a punto e a capo (salvo che il superminimo sia dichiarato assorbibile), ma così operando qualche mese lo si può portare a casa.
GLI STRAORDINARI
Anche nel caso che l’imponibile contributivo risulti superiore a causa di prestazioni lavorative straordinarie non ci sono soluzioni (parliamo sempre di quelle legali). Al massimo si può evitare di richiedere straordinari ove non siano strettamente necessari oppure posticipare alcune prestazioni eccedenti l’orario normale, specie se previste a fine mese, al mese successivo.
Chiaro che si tratta, oltre che di calcoli da certosino, di posticipare il problema al mese successivo, ma quantomeno in quel mese l’esonero lo si riesce a godere.
I PREMI DI PRODUZIONE
Ci sono tuttavia situazioni in cui è possibile fare qualcosa e ci riferiamo alla erogazione di premi di produttività. In questi casi si potrebbe evitare di concordare la loro corresponsione in unica soluzione e prevedere di spalmare il premio su più mensilità al fine di rimanere sempre entro il limite dei 1.923 e, soprattutto, dei 2.692 euro mensili. Certo questo comporta delle simulazioni ma spesso il gioco vale la candela. È vero che il lavoratore dilazionerà la percezione del premio (in pratica è una mera questione di liquidità) ma si vedrà riconosciuto mensilmente l’esonero.
GLI ACCERTAMENTI ISPETTIVI, VERTENZE E TRANSAZIONI
La particolarità dell’esonero, che ricordiamo prevede la riduzione dell’imponibile contributivo e di contro l’innalzamento di quello fiscale, richiederebbe peraltro dei chiarimenti ufficiali circa gli effetti di una visita ispettiva che accertasse differenze retributive da imputare su più mesi.
Questo soprattutto ove si trattasse di differenze retributive sottratte all’imposizione anche per volontà del lavoratore (ad esempio premi o straordinari pagati in nero) che così facendo ha illegittimamente usufruito dell’esonero. La domanda in questi casi è: l’organo ispettivo dovrà procedere alla rideterminazione del beneficio (ed eventuale recupero dell’indebito) quando gli importi accertati evidenzino il superamento delle varie soglie?
E che dire poi nel caso di transazioni per differenze retributive mensili che il lavoratore ritiene spettanti (indennità o straordinari) e riconosciute tali dall’azienda? Anche in questo caso c’è stata una indebita percezione dell’esonero contributivo.
Anche in questo caso come procedere?
PROBLEMATICHE DI TIPO FISCALE
Vi è poi un ultimo gruppo di criticità. Quelle più nascoste perché derivano non da una maggiore retribuzione lorda ma dal fatto che la diminuzione delle ritenute contributive a carico del lavoratore comporta l’innalzamento dell’imponibile fiscale. Un fatto che potrebbe avere conseguenze a cascata su quelle prestazioni previdenziali e assistenziali che prevedono un limite reddituale o un determinato Isee.
È ovvio che in questi casi – statisticamente rari, ne siamo ben consapevoli, ma a chi capita poco importa delle statistiche – il calcolo di convenienza è estremamente complesso ma riuscire a farlo potrebbe rendere conveniente la rinuncia all’esonero, avendo sì un netto in busta paga inferiore ma mantenendo l’accesso ai benefici collegati all’indicatore Isee.
Ma non solo. L’aumento dell’imponibile fiscale potrebbe avere effetti anche sulla situazione di familiare a carico con la conseguente perdita della detrazione fiscale prevista in capo al coniuge o al genitore.
Si pensi ad un figlio di età tra i 21 e i 24 anni che, a fronte di una retribuzione complessiva lorda annua di 4.300 euro, risulti avere – tolta la quota di contributi a suo carico del 9,19% e considerando lo sconto del 2% pari a 86,00 euro – un imponibile fiscale di 3.991,00 euro.
In questo caso il figlio mantiene lo status di familiare a carico del nostro lavoratore. Applicando oggi lo sconto del 6%, corrispondente a 258,00 euro, il suo imponibile fiscale sale a 4.163,00 euro, perdendo il requisito di familiare a carico.
In sostanza per un beneficio di 172,00 euro sulla retribuzione netta del figlio, il genitore ne perderebbe fino a 950,00 euro sulla propria.
Ovvio che parliamo sempre di casi limite ma purtroppo a volte capitano e quando succedono ci si morde le mani.
Ora, ammesso e non concesso che un lavoratore possa rinunciare all’esonero sulla contribuzione a proprio carico, chi tra i dipendenti è in grado di monitorare il reddito dei propri figli ed intervenire tempestivamente informando la di lui azienda di non procedere all’applicazione dello sgravio, magari solo per alcuni mesi, quelli necessari per non superare il reddito imponibile di 4.000 euro?
Peraltro, non è affatto detto che basti questa eventuale segnalazione.
La domanda è infatti: l’azienda sarebbe disposta a seguire le indicazioni – fossero pure date per iscritto – del lavoratore o, senza una indicazione ufficiale sul punto di Inps e/o Agenzia delle Entrate sulla possibilità di rinuncia allo sgravio, deciderà di non correre alcun rischio e quindi di operare secondo le indicazioni di legge?
UN SUGGERIMENTO AL LEGISLATORE
Si parla della volontà del Governo, con il placet delle opposizioni, di rendere strutturale questo esonero. In tal caso sarebbe quantomeno opportuno prevedere la periodica indicizzazione al costo della vita degli attuali limiti mensili. Questo considerando la situazione di coloro che ad oggi, per vari motivi, percepiscono retribuzioni di poco inferiori ai limiti che consentono l’applicazione dell’esonero e per i quali l’aumento dei minimi salariali previsto dai futuri rinnovi dei Ccnl applicati comporterebbero la perdita dell’esonero. Quella ventina/trentina di euro lordi riconosciuti dalla contrattazione collettiva farebbero perdere molto di più rispetto a quanto di netto percepito in precedenza.
Sempre su questa strada un’altra ipotesi sarebbe di prevedere la contestuale decontribuzione e detassazione dell’attuale esonero, fissandolo in misura inferiore alle attuali percentuali così da mantenere invariata la stima di spesa sul bilancio statale.
Ma ancor più consigliabile, viste le considerazioni qui sopra svolte, sarebbe che il legislatore non insistesse con provvedimenti del tipo di quelli in commento. Più lineare risulterebbe invece un intervento sul sistema delle detrazioni fiscali per lavoro dipendente (anche individuando, ove prevalessero motivazioni di “visibilità mediatica”, uno sconto ad hoc) prevedendo comunque, quale bilanciamento, un meccanismo di gradazione a scalare dell’importo del beneficio per i redditi di poco superiori alle soglie previste.