LEGITTIMITÀ DELLA REGISTRAZIONE DI COLLOQUI tra il dipendente e colleghi o datore di lavoro

di Alberto Borella, Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

 

Quante volte avremmo voluto, ma non ce la siamo sentita, registrare una conversazione avuta con degli amici, con dei colleghi o con i fornitori, per la paura di violare la privacy altrui! La domanda che oggi vogliamo porci è: abbiamo fatto bene? Di primo acchito verrebbe da dire di sì. Esistono infatti varie norme poste a tutela della riservatezza: si può iniziare dall’art. 15 della nostra Costituzione che afferma che la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili o citare la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che all’art. 8 rimarca il principio che ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare.

Ma è altrettanto chiaro che l’esistenza di più diritti fondamentali – di cui è sottintesa la pari dignità costituzionale – impone, in caso di una loro eventuale intersezione, il contemperamento dei valori in gioco.

Se quindi è pacifico che la mera registrazione di conversazioni tra presenti all’insaputa dei conversanti configura una grave violazione del diritto alla riservatezza (Cass. 16 maggio 2018, n. 11999) tuttavia ciò non è sempre vero essendo in via generale ammessa la registrazione di colloqui avvenuti qualora ciò sia funzionale al diritto di difesa. E si badi bene che questo può pacificamente riguardare – per quanto concerne l’ambito qui di nostro interesse ovvero quello lavorativo – non solo la potenziale controparte in giudizio ma anche soggetti terzi quali ad esempio i colleghi di lavoro.

Una delle ultime pronunce della Cassazione sul tema ci consente un focus su alcuni punti fondamentali della questione.

CORTE DI CASSAZIONE, LA SENTENZA N. 31204 DEL 01.11.2021

Gli Ermellini partono dal principio espresso nell’allora vigente art. 24 del D.lgs n. 196/2003 ovvero che è possibile prescindere dal consenso dell’interessato quando il trattamento dei dati, pur non riguardanti una parte del giudizio in cui la produzione venga eseguita, sia necessario per far valere o difendere un diritto, a condizione che essi siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento.

L’indicazione è chiara: l’utilizzo a fini difensivi di registrazioni di colloqui tra il dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro non necessita del consenso dei presenti, in ragione dell’imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall’altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio. Sia però ben chiaro: la legittimità di questa condotta è subordinata al fatto di aver effettuato tali registrazioni per tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda e per precostituirsi un mezzo di prova, rispondendo la stessa, se pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità, alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto.

E la Corte non si ferma certo qui, chiarendo che il diritto di difesa non è limitato alla pura e semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso. In pratica si propone una dilatazione della nozione di “sede processuale/giudiziaria” da intendersi quindi anche a situazioni precedenti o prodromiche ad un contenzioso vero e proprio. Pertanto, la registrazione potrà essere legittimamente utilizzata sia in un processo civile che penale, per presentare una denuncia o per difendersi da querela, ma anche – questo l’aspetto giuslavoristico che qui ci interessa – per difendersi contro una sanzione o un licenziamento di tipo disciplinare.

Allo stesso tempo la Cassazione ci avverte che si tratta evidentemente di un profilo estremamente delicato, che esige un attento ed equilibrato bilanciamento tra la tutela di due diritti fondamentali, quali la garanzia della libertà personale, sotto il profilo della sfera privata e della riservatezza delle comunicazioni, da una parte e del diritto alla difesa, dall’altra. Ed esso si deve fondare su una valutazione rigorosa del requisito di pertinenza, nella prospettiva di una diretta e necessaria strumentalità, della registrazione all’apprestamento della finalità difensiva nell’orizzonte sopra illustrato, all’interno di una scrupolosa contestualizzazione della vicenda. Questo significa che non è mai giustificabile la registrazione di colloqui per il fatto che forse, un domani, potrebbero servire ma occorre che questo bisogno sia attuale. Questa cosa appare chiara nella fattispecie portata davanti alla Corte Suprema nella quale è stata giudicata legittima la registrazione di un colloquio durante il quale il lavoratore intendeva esplicitare le ragioni per cui non poteva partecipare ad un corso obbligatorio di formazione, causa l’esiguità del termine di preavviso (meno di due giorni), a fronte di un evento in orario diverso da quello ordinario e in una località ad oltre cento chilometri dal luogo abituale di prestazione dell’attività lavorativa. Le ragioni addotte dal lavoratore escludevano – secondo la Corte – che la registrazione in questione potesse riguardare un momento di normale relazionalità gerarchica tra dipendenti. Al contrario, la mancata partecipazione al corso senza alcun preavviso all’azienda e senza alcuna giustificazione o autorizzazione a non parteciparvi, ben poteva comportare, stante l’obbligatorietà di detto corso, una contestazione disciplinare. Per questo motivo viene riconosciuta al lavoratore la necessità di poter documentare il contenuto del colloquio per fini difensivi in una controversia che avrebbe potuto affrontare senza mezzi adeguati. Peraltro gli Ermellini si sono sempre dimostrati sensibili alle difficoltà per il lavoratore di altrimenti costituirsi dei mezzi di prova, specie in contesti lavorativi caratterizzati da conflitti con colleghi, anche di rango più elevato, dove il reperimento delle varie fonti di prova poteva risultare particolarmente difficile a causa di eventuali possibili sacche di omertà (Cass. 10 maggio 2018, n. 11322).

ALCUNE NECESSARIE PUNTUALIZZAZIONI

Partiamo dall’indiscusso e consolidato principio che bolla come illegittime tutte le registrazioni fatte all’insaputa dei propri interlocutori nel caso siano svolte all’interno della privata dimora di quest’ultimi. Questo significa che in tutti gli altri luoghi “pubblici” è sempre ammesso registrare o riprendere “clandestinamente” – da intendersi quale assenza dell’obbligo di informare l’interlocutore della registrazione in corso – un colloquio a patto, ribadiamolo bene, di essere lì presenti. Solo così non si rientrerebbe nella fattispecie, vietata e con risvolti penali, delle intercettazioni.

Questa possibilità, lo abbiamo visto, deriva dal costante orientamento secondo cui la registrazione di una conversazione all’insaputa dell’interlocutore deve ritenersi legittima e validamente utilizzabile in sede processuale qualora necessaria per tutelare e far valere un diritto in sede giudiziaria (Cass. 10 maggio 2019, n. 12534). Va peraltro evidenziato che, pur essendo considerato il timbro vocale – al pari del contenuto della conversazione – un dato personale, non è previsto alcun rilascio di una informativa privacy né l’acquisizione del consenso in quanto il GDPR (Regolamento UE 2016/679) prevede espressamente che la regola sul consenso possa essere derogata nel caso in cui i  “dati” dell’interessato siano necessari per l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria. Ma attenzione: in considerazione delle specifiche finalità indicate nella sentenza, ovvero l’uso difensivo, è evidente che il contenuto della registrazione necessiterà di una attenzione particolare evitando quindi che la stessa (il file per intenderci) possa finire in mani sbagliate e quindi essere utilizzata per altri fini, a nulla importando se per colpa o mera negligenza di chi ha registrato. Spetta quindi a chi ne ha la materiale disponibilità garantire misure di sicurezza idonee ad evitare una sua possibile divulgazione. Tornando però alla questione che qui più interessa ovvero se un lavoratore possa o meno effettuare registrazioni (ed anche le videoregistrazioni) di conversazioni intrattenute col capo, coi superiori gerarchici e coi colleghi, possiamo dire che la giurisprudenza della Cassazione ha da sempre ritenuto legittima la registrazione di una conversazione avvenuta con tali soggetti al bar o per strada ma anche, ad esempio, in un punto vendita o in un negozio, essendo questi luoghi aperti al pubblico. Qualche dubbio invece sussisteva riguardo la possibilità di procedere a delle registrazioni nell’ufficio del personale o in quello del datore di lavoro. La risposta positiva viene confermata dalla sentenza in commento dove si fa salvo il diritto del dipendente di precostituirsi un mezzo di prova se teme di dover scendere in causa con l’azienda e, quindi, di doversi difendere. Dato per assodato il divieto di registrare colloqui avvenuti a casa del datore di lavoro (vige il principio dell’inviolabilità del domicilio), ciò potrà invece avvenire nell’ufficio di quest’ultimo benché di norma tale luogo sia assimilato alla dimora e quindi tutelato dalla normativa privacy. Qui, casomai, l’unico problema è come dimostrare dove sia avvenuta la registrazione: più facile in caso di videoregistrazioni, più difficile per le registrazioni solo vocali. Dal principio sopra segnalato deriva il corollario che il registratore può restare acceso in qualsiasi locale, stanza o ufficio, dell’azienda. È però essenziale che il dipendente sia fisicamente presente e quindi che la registrazione riguardi solo ciò che viene detto dinanzi a lui anche se i commenti non siano a lui indirizzati. In sostanza vanno evitate quelle che sarebbero tecnicamente considerate delle intercettazioni ossia lasciare un registratore acceso e poi assentarsi poiché le persone devono essere consapevoli che ciò che potenzialmente potrebbe in seguito utilizzare, anche registrandole, le loro affermazioni, di fatto accettando un siffatto rischio. Del resto è palese come il diritto alla riservatezza non possa operare quando è lo stesso titolare del relativo diritto a rinunciarvi, come nel caso in cui parli con altri.

In merito alla prova richiesta al lavoratore di aver partecipato personalmente al colloquio, la circostanza è facilmente ricavabile dal contenuto della registrazione ovvero dalla ineludibile interazione del lavoratore con il proprio interlocutore.

Interessante infine la considerazione, sempre contenuta nella sentenza in commento, che esclude qualsiasi rilievo disciplinare di tale comportamento rispondendo la condotta in discorso alle necessità conseguenti al legittimo esercizio d’un diritto e, quindi, essendo coperta dall’efficacia scriminante dell’art. 51 c.p., di portata generale nell’ordinamento e non già limitata al mero ambito penalistico.

Ovviamente la delicatezza della scelta di procedere alla registrazione di colloqui con terzi impone a chi intende avvalersene una preventiva e precisa pianificazione, meglio se affidandosi ai consigli di un consulente del lavoro o di un avvocato.


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