L’Autore ripercorre il ciclo di decisioni della Corte Costituzionale nel quinquennio 2018-2022 per appurare l’esistenza di tensioni tra le riforme dei licenziamenti (2012 e 2015) e la Costituzione, anche in prospettiva di una revisione complessiva futura della disciplina.
Un sistema rimediale in materia di licenziamenti si compone sostanzialmente di due momenti differenti ma tra loro collegati: il primo riguarda l’individuazione dei limiti posti al recesso datoriale dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato; il secondo attiene all’impianto sanzionatorio nel caso in cui il datore di lavoro contravvenga ai limiti posti dall’ordinamento. Circa il primo aspetto non vi sono particolari dubbi. Il problema si pone sul regime delle sanzioni a tutela del lavoratore.
Il sistema, fino al 2012, è stato contrassegnato dal dualismo tra tutela indennitaria per la piccola impresa e tutela reintegratoria oltre la soglia numerica di lavoratori indicata dallo Statuto.
Il legislatore, a partire dal 2012, ha applicato pienamente il principio per cui vi è “ discrezionalità del legislatore in materia… quanto alla scelta dei tempi e dei modi”.
Il sistema è stato progressivamente modificato1 quando il legislatore, ispirato dalle dottrine della law & economics, ha intrapreso l’abbandono della sanzione ripristinatoria in favore della sanzione monetaria, passando per la scelta di diversificare e graduare le tutele in base ai vizi, percorso ancora embrionale nella L. n. 92/2012 (riforma Monti/Fornero), ben più radicale nel D.lgs. n. 23/2015 (riforma Renzi). Una delle principali linee di movimento al riguardo è stata la distinzione tra motivi soggettivi e motivi economici al fine della concessione della reintegra.
Altra direttrice fondamentale (del solo Decreto n. 23), fondante la disciplina dell’altro rimedio rimasto sul tavolo (monetario), è stata l’eliminazione della discrezionalità giudiziale nella quantificazione dell’indennizzo predeterminato da licenziamento illegittimo.
Dalla giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni emerge una direttrice precisa: il sistema deve essere ispirato a principi di razionalità e uguaglianza.
In primis, dal punto di vista generale il sistema deve prevedere meccanismi ragionevoli di sanzione: l’idoneità della piattaforma a consentire un adeguato ristoro al lavoratore e l’idoneità della stessa a dissuadere il datore di lavoro dal licenziare illegittimamente.
Il sistema deve inoltre garantire l’uguaglianza, disciplinando allo stesso modo fenomeni omogenei e diversificando il trattamento di situazioni differenti.
La serie di sentenze rilevante in materia è la seguente: Corte Cost., n. 194/2018; Corte Cost., n. 150/2020; Corte Cost., n. 59/2021; Corte Cost., n. 125/2022 e Corte Cost., n. 183/2022, tutte a firma dello stesso redattore.
Tutto parte dalla sentenza Corte Cost. n. 194/2018 che ha ritenuto che la previsione di una tutela economica, calcolata sulla base di un principio matematico, potrebbe non costituire adeguato ristoro del danno prodotto dall’illegittimo licenziamento, né tantomeno un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente.
È quindi rimessa al giudice la quantificazione dell’indennità, che seppur nel rispetto dei limiti minimo e massimo individuati dal Jobs Act (come modificati dalla L. 9 agosto 2018, 96), dovrà tenere conto dell’anzianità di servizio, nonché di altri criteri individuabili nel numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti.
Analogamente, con la sentenza Corte Cost. n. 150/2020 è stato ritenuto illegittimo, sempre a motivo di irragionevolezza, il meccanismo di liquidazione dell’indennità del tutto simile a quello dell’art. 3, co. 1, previsto dall’art. 4, D. lgs. n. 23/2015 in materia di vizi formali: la sentenza spiega che le prescrizioni formali, relative all’obbligo di motivazione del licenziamento e al principio del contraddittorio, “rivestono una essenziale funzione di garanzia, ispirata a valori di civiltà giuridica” e “sono riconducibili al principio di tutela del lavoro, enunciato dagli artt. 4 e 35 Cost.”, in quanto si prefiggono di tutelare la dignità del lavoratore.
Con la sentenza Corte Cost. n. 59/2021 è stato ritenuto irragionevole il potere totalmente discrezionale di scelta di reintegra in capo al giudice previsto dall’art. 18, comma 7, Stat. lav. come modificato dalla L. n. 92/2012 in relazione al licenziamento per M.E. (ovvero licenziamento per G.M.O. economico) laddove si fosse accertata l’insussistenza (all’epoca) manifesta del fatto che lo caratterizzava.
In particolare, la Corte ha censurato la norma nella parte in cui prevede che il giudice, una volta accertata la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, “può altresì applicare”, invece che “applica altresì” la c.d. “tutela reintegratoria attenuata” (ossia la reintegrazione nel posto di lavoro oltre ad un’indennità non superiore a 12 mensilità, detratto l’aliunde perceptum e l’aliunde percipiendum).
La facoltatività della reintegrazione è, infatti e innanzitutto, in contrasto con il principio di uguaglianza, dal momento che, per il caso di insussistenza del fatto nella fattispecie di licenziamento disciplinare, è invece prevista l’obbligatorietà della reintegrazione.
Non ci sarà tempo per arrovellarsi troppo sul punto, dato che un anno dopo, la Consulta con la sentenza Corte Cost. n. 125/2022 bollava sempre di irragionevolezza proprio la particella letterale “manifesta” che precede l’espressione “insussistenza del fatto” posta a base del licenziamento per ragioni economiche, produttive e organizzative.
Al fatto si deve “ricondurre ciò che attiene all’effettività e alla genuinità della scelta imprenditoriale”.
Su questi aspetti il giudice è chiamato a svolgere una valutazione di mera legittimità che non può sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità.
Il requisito della manifesta insussistenza è, anzitutto, indeterminato e si presta, proprio per questo, a incertezze applicative, con conseguenti disparità di trattamento.
Inoltre, la sussistenza di un fatto è nozione difficile da graduare, perché richiama “un’alternativa netta, che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi”. Il criterio della manifesta insussistenza – ha precisato inoltre la Corte – “risulta eccentrico nell’apparato dei rimedi, usualmente incentrato sulla diversa gravità dei vizi e non su una contingenza accidentale, legata alla linearità e alla celerità dell’accertamento”.
Nelle controversie in materia di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo si è in presenza di un quadro probatorio articolato: oltre ad accertare la sussistenza o insussistenza di un fatto – di per sé un’operazione ragionevole complicazione sul fronte processuale. A ben vedere, un sistema così congegnato vanifica l’obiettivo della rapidità e della più elevata prevedibilità delle decisioni e finisce per contraddire la finalità di una equa redistribuzione delle tutele dell’impiego (art. 1, co.1, lettera c, della Legge n. 92 del 2012), che ha in tali caratteristiche della tutela giurisdizionale il suo caposaldo. In tale scenario, dopo poco più di un mese dalla sentenza n. 125, giunge la sentenza Corte Cost. 183/2022 che definisce in termini di irragionevolezza intrinseca il sistema di sanzione contro i licenziamenti per le “piccole imprese”.
La sentenza riconosce che l’esiguo divario tra un minimo di 3 e un massimo di 6 mensilità “vanifica l’esigenza di adeguarne l’ importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza” ribadendo che il licenziamento deve essere considerata l’ultima soluzione.
Ammette poi la Corte che “ il numero dei dipendenti (…) non rispecchia di per sé l’effettiva forza economica del datore di lavoro, né la gravità del licenziamento arbitrario”.
Conclude quindi riconoscendo “ l’effettiva sussistenza del vulnus denunciato dal rimettente” e affermando “ la necessità che l’ordinamento si doti di rimedi adeguati per i licenziamenti illegittimi intimati dai datori di lavoro che hanno in comune il dato numerico dei dipendenti”.
Il discrimine applicativo tra i due sistemi sanzionatori è la data del 6 marzo 2015 in relazione al momento dell’assunzione del lavoratore. Tale differenza di tutele è stata oggetto di critiche che si sono tradotte in due ordinanze di rimessione alla Consulta2. La prima è quella che ha dato luogo alla pronuncia di incostituzionalità dell’art. 3, comma 1, D.lgs. n. 23/20153.
Questione simile (in tema di licenziamento collettivo) è stata sottoposta ma non esaminata nel merito, attesa l’inammissibilità del ricorso per ritenuto difetto motivazionale4.
Sono rimasti fuori dalle valutazioni della Consulta due aspetti.
Il primo aspetto riguarda la ragionevolezza della sostanza della tutela del Decreto n. 23 in rapporto alla tutela dell’art. 18 St. Lav. in relazione alle differenze sostanziali che caratterizzano le due discipline.
Il secondo aspetto, connesso con il primo, è dato dall’idoneità del mezzo prefissatosi dal legislatore al raggiungimento dello scopo5.
Il divario iniziale tra la versione nuova dell’art. 18 post-riforma Monti/Fornero e il Decreto n. 23 si è considerevolmente acuito in seguito alle modifiche apportate al primo dalla Corte Costituzionale per mezzo delle sentenze Corte Cost. 59 del 2021 e Corte Cost. n. 125 del 2022. Maggiore è il divario, maggiore è la possibilità di invocare una ingiustizia di trattamento tra situazioni identiche poiché discriminate esclusivamente da una soglia temporale di applicabilità.
Resta aperta la questione se la struttura complessiva (residua) della piattaforma rimediale delineata dal Decreto n. 23 presenti da questo punto di vista crepe nelle quali è possibile insinuare dubbi di costituzionalità.
Le problematiche residue possono essere divise in tre gruppi, quelle relative alla tutela contro i licenziamenti nulli, quelle relative ai licenziamenti per motivi soggettivi e quelle- relative ai licenziamenti per motivi economici. Circa i primi rispetto all’art. 18, comma 1, Stat. lav. vi è una serie di distinzioni strutturali e letterali che apparentemente può dare l’impressione di un restringimento in questo ambito già confinato di tale area di tutela nella normativa successiva rispetto a quella precedente.
Principalmente il tema più rilevante è quello relativo all’elencazione delle ipotesi di nullità sanzionabili con la reintegra, problema superabile dalla semplice constatazione che tra “gli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge” di cui all’art. 2, co. 1 rientrano sia tutte le ipotesi di licenziamento discriminatorio positivizzate, nonché più in generale le altre ipotesi di nullità previste espressamente dall’art. 18, co. 1, compreso l’art. 1345 c.c. relativamente al licenziamento ritorsivo e più in generale ancora l’art. 1418 c.c. relativo alle nullità virtuali6, disposizione che consente di sanzionare al massimo livello anche la violazione del disposto di cui all’art. 2110 c.c. a tutela del periodo di comporto, trattandosi quest’ultima di norma imperativa7.
Circa i motivi soggettivi va premesso che la struttura del meccanismo sanzionatorio prevede la sanzione monetaria generalizzata per i casi di licenziamento illegittimo non per motivi formali, ad eccezione esclusiva dell’ipotesi in cui “sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”. L’utilizzo del “direttamente” e “materiale” rappresentano tentativi di limitare l’area di operatività della reintegra.
Tentativi di fattura non eccelsa8.
Laddove ciò non fosse ritenuto in ultima analisi possibile, le temute censure di legittimità costituzionale fondate sui principi di uguaglianza e ragionevolezza avrebbero sicuramente una loro dignità9.
Al momento la maggiore problematica relativa alla tutela assegnabile a fronte di un licenziamento disciplinare è quella relativa all’esclusione della reintegra nell’ipotesi di condotte “punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”.
Il tema è sensibile ed è già stato oggetto di critiche multilivello.
Innanzi tutto, la previsione dell’art. 12, L. n. 604/1966 dovrebbe di per sé condurre a escludere un definitivo atto espulsivo in presenza di ipotesi per le quali il Ccnl prevede che il rapporto non si estingua.
Inoltre, a livello costituzionale, una interpretazione non estensiva potrebbe condurre alla violazione dell’art. 39 Cost.
Risulterebbe, inoltre, poco ragionevole privare in questa materia la contrattazione collettiva del potere di migliorare le condizioni di impiego dei lavoratori ed in particolare con riferimento alla reintegra.
Tentando di applicare al D.lgs. n. 23/2015 i principi già espressi dalla sentenza Corte Cost. 59/2021 e dettati in tema di art. 18 Stat. lav. si ritiene che gli stessi dovrebbero avere incidenza invalidante anche sull’esclusione radicale della reintegra nel M.E. nell’impianto del Decreto 23.
Dovrebbe infatti affermarsi un principio di indisponibilità delle conseguenze del fatto inesistente10, a tutela non solo delle norme inderogabili in tema di licenziamento, ma anche della stessa ripartizione dei poteri (scompaginata imponendo a chi deve accertare i fatti e ricondurne gli effetti previsti dalla legge di operare non in base al dato reale accertato bensì ad astratte ed indisponibili qualificazioni di parte).
In conclusione, all’esito degli interventi della Consulta, alla luce di adattamenti interpretativi e di possibili ulteriori questioni di legittimità costituzionale (M.E.), la disciplina del Decreto 23 potrebbe riallinearsi a quella dell’attuale art. 18 (restando ovviamente da risolvere il tema del piccolo imprenditore) che a questo punto potrebbe diventare, riveduto e mitigato, il paradigma di un futuro, e costituzionalmente adeguato, modello sanzionatorio in tema di licenziamenti illegittimi sopra una determinata soglia organizzativa e/o economica.
Come accennato, la Consulta ha ripetutamente escluso che la sanzione della reintegra sia costituzionalmente imposta al legislatore11: bene se la usa (così facendo attua la Costituzione), ma può scegliere anche di non usarla, avendo discrezionalità in punto a tempi e modi di tutela. Occorre quindi chiedersi se sia possibile ipotizzare un sistema completamente privo di reintegra, anche nelle imprese maggiormente strutturate e organizzate, anche in relazione ai motivi di licenziamento di più qualificata insussistenza12. E immaginare la compatibilità di tale modello con la Costituzione, soprattutto rispetto al canone di uguaglianza il quale, imponendo di diversificare il trattamento riservato a situazioni diverse tra loro, potrebbe condurre a censurare di illegittimità un sistema derogatorio delle regole civilistiche generali (art. 2058 c.c.) e fondato su un esclusivo rimedio monetario, anche nei licenziamenti ingiustificati perché basati su presupposti inesistenti, anche nelle tipologie di imprese nelle quali (per motivi dimensionali ed economici) non vi sono problematiche di eccessiva onerosità del rimedio in forma specifica e in relazione alle quali può quindi avanzarsi l’idea che tra i limiti di cui al comma 2 dell’art. 41 Cost. vi sia anche quello di consentire la stabilità del rapporto. Laddove poi il modello anti-reintegratorio generalizzato dovesse infine prevalere, lo strumento rimediale residuale quello monetario nella prospettiva indennitaria nella quale lo abbiamo da ultimo conosciuto (ossia con forbice edittale ed un tetto massimo), potrebbe entrare irrimediabilmente in crisi13, aprendosi pertanto la strada alla invocazione di risarcimenti pieni in relazione ai quali il tetto massimo14 potrebbe rappresentare una compressione alla tutela dei diritti costituzionali del lavoratore, non ragionevolmente giustificata dalla necessità di bilanciare un contro-interesse di rilievo costituzionale latitante in casi di risoluzione di rapporti di lavoro in mancanza della giustificazione imperativa di legge per giunta a fronte di condotte dolose o gravemente colpose15 e nonostante dimensioni (organizzative/economiche) di rilievo del debitore e tali da consentirgli di rispondere pienamente dei propri illeciti16.
Tuttavia, uno degli effetti collaterali delle cinque sentenze della Consulta da cui si sono prese qui le mosse è stato proprio quello di consentire un recupero valoriale in chiave costituzionale, in antitesi con il precedente break delle teorie economiche più neoliberiste.
*Sintesi dell’articolo pubblicato in LG, 10/2022, pag. 905 dal titolo Il principio di Archimede, le riforme dei licenziamenti (2012-2015) e la Corte costituzionale (2018-2022).
6. M. Persiani, Noterelle su due problemi di interpretazione della nuova disciplina dei licenziamenti, in Arg. dir. lav., 2015, 2, 394.
7. V. Speziale, Il contratto, ed i riferimenti alla nt. 38; conferma la natura di norma imperativa dell’art. 2110, comma 2, c.c. la recentissima Cass. Civ. n. 27334/2022 facendone derivare l’importante conseguenza di sanzionare – nel sistema ante D.Lgs. n. 23/2015 – con la reintegra di cui al comma 4 dell’art. 18 (richiamato dal comma 7) tale licenziamento “ontologicamente” nullo (ma con regime sanzionatorio “speciale” rispetto alle conseguenze altrimenti previste dal comma 1) anche nelle
imprese sottosoglia.
8. S. Giubboni, Anni difficili, cit., 15, parla di “dilettante di sensazione” e ricostruisce più giurisprudenziale la genesi della terminologia in questione.
9. S. Giubboni, Profili costituzionali del contratto di lavoro a tutele crescenti, in WP
C.S.D.L. “Massimo D’Antona”. IT, 1, 2015, 298; R. Riverso, La nuova disciplina dei licenziamenti disciplinari nel cd Jobs Act, in Questione Giustizia.
10. In un parallelismo con il principio di indisponibilità del tipo – per il quale v. Corte cost. n. 121/1993 e Corte cost. n. 115/1994 – che sostanzialmente esclude, analogamente a quanto avviene nel caso di specie, che il legislatore possa disporre a proprio piacimento della realtà fenomenica e disciplinarla in difformità con la natura delle cose, laddove ne derivi un contrasto con le norme inderogabili a tutela del lavoratore.
11. Cester (a cura di), I licenziamenti dopo la legge n. 92 del 2012, Padova, 2013, 6.
12. Evidentemente un siffatto modello eliminerebbe sul nascere qualunque ipotesi di censura per disuguaglianza rispetto ad un modello che sanzionasse con la reintegra i soli motivi soggettivi e non oggettivi, quale quello tentato dai legislatori del 2012 e del 2015.
13. Dovendo essere sicuramente approfondita la questione dei limiti al risarcimento del danno – patrimoniale e non patrimoniale – alla persona in ambito lavorativo, questione che non può certamente essere ritenuta definitivamente risolta dal riferimento nella sentenza Corte cost. n. 194/2018 a principi generali civilistici e alla fugace patente di “adeguatezza” di cui alla nota precedente; al contrario per l’ambito propriamente lavoristico va dato atto che il prototipo rappresentato dal rimedio indennitario puro (e “di modico valore”) di cui all’art. 8, L. n. 604/1966, finora sempre promosso (sentenze Corte cost. n. 46 del 2000; Corte cost. n. 44 del 1996 e Corte cost. n. 194 del 1970), sembra ora alle corde, alla luce dei principi espressi – su una normativa pressoché sovrapponibile – da Corte cost. n. 183/2022.
14. Ricondotto – in La disciplina, cit. – da A. Perulli, allorquando non accompagnato dalla reintegra, né dal risarcimento pieno, ad un tertium genus di ristoro, deteriore rispetto ai principi civilistici generali, che ben può essere qualificato nei termini di una deroga in peius ai criteri rimediali comuni a favore del datore di lavoro; analogamente v. S. Giubboni, Il ritorno, cit., con i riferimenti contenuti nella nt. 10.
15. Quali si caratterizzano ordinariamente i licenziamenti fondati su motivi accertati come inesistenti.
16. Qualifica attribuita dalla sentenza Corte cost. n. 194/2018 al licenziamento in violazione dell’art. 1, L. n. 604/1966, ritenuta norma imperativa.