Le esternalizzazioni  produttive e il d.l. 19/2024: più ombre che luci?                

Andrea Asnaghi, Consulente del Lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

Nell’ambito delle attività di rafforzamento del piano di attuazione del PNRR, il legislatore interviene profondamente, fra gli altri interventi in ambito lavoristico, sulla materia degli appalti e di alcune altre forme di esternalizzazione, in particolare somministrazione e distacco. Non cambia sostanzialmente il quadro definitorio delle fattispecie quanto invece si interviene sul piano prettamente sanzionatorio e di repressione delle attività illecite, come recita anche lo stesso titolo dell’articolo 29 del D.l. n. 19/2024. “Disposizioni in materia di prevenzione e contrasto del lavoro irregolare”. Alcuni passaggi, in realtà, sembrano dettati quasi sulla spinta dei terribili incidenti di Firenze del febbraio scorso (peraltro purtroppo non così infrequenti nel nostro Paese) lasciando la sensazione di una “instant-law” – dettata dall’esigenza di dare una risposta immediata e di risalto mediatico, anche se magari sulla scia di annotazioni da tempo segnalate – più che di un intervento sistemico e meditato sull’argomento. Su tale trend si situa anche la nota del 13 marzo 2024 di INL, che pare inaugurare il concetto (speriamo presto abbandonato) della “circolarebigino”, essendo nient’altro che un riepilogo per sommi capi e nessun contenuto di quanto statuito nel Decreto e quindi non offrendo alcuno spunto interpretativo o di chiarimento. Senz’altro il D.l. n. 19/2024, con il proprio art. 29, ha il grande merito di porre al centro dell’attenzione degli interventi di prevenzione e contrasto il sistema delle esternalizzazioni produttive: la cosa non può che essere salutata con estremo favore anche dal nostro Centro Studi della Fondazione Consulenti del Lavoro di Milano che da anni convoglia molte delle proprie riflessioni sull’argomento, offrendole alla continua attenzione del legislatore anche con proposte di revisione e miglioramento della norma che certo non mancheranno anche in questa occasione. Una prima forma di tutela, con l’evidente finalità di contrastare fenomeni del c.d. “dumping interno” tanto frequenti nelle filiere produttive, viene dal comma 2 il quale inserisce all’art. 29 del D.lgs. n. 276/03 un comma 1/ bis tale per cui “al personale impiegato nell’appalto di opere o servizi e nell’eventuale subappalto è corrisposto un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale maggiormente applicato nel settore e per la zona il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto”. Il concetto di contratto collettivo maggiormente applicato per settore e zona, che si distacca da quelli utilizzati da altre fonti normative, ripropone tuttavia i medesimi, forse maggiori, dubbi interpretativi relativamente al trattamento da applicare al personale impiegato nell’appalto o subappalto. Tale concetto è, ad esempio, in conflitto con l’art. 1, comma 1175 della finanziaria 2007 che si riferisce al rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali, laddove sottoscritti, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (nella novella normativa non si fa cenno a contratti aziendali, ed il riferimento al trattamento economico complessivo sembra escludere la parte normativa). Medesima conflittualità si rileva rispetto all’art. 51 del D.lgs. n. 81/2015 per le medesime questioni; non è chiaro, ad esempio, se il trattamento economico complessivo includa anche la parte normativa (sembrerebbe infatti escluso) oggetto principale appunto del Decreto legislativo n. 81/2015, ma è chiaro che negare l’efficacia di alcuni istituti normativi ha un’immediata ricaduta sul piano retributivo e contributivo. Ancora diverso è il dettato dell’art. 3, comma 1, L. n. 142/2001 e dell’art. 7, co. 4, L. n. 31/2008, che prevedono che in presenza di più contratti nel medesimo settore, le cooperative (certo soggetto non secondario nelle filiere di esternalizzazione) debbano far riferimento al trattamento retributivo e normativo (quindi de relato anche previdenziale) dei Ccnl delle oo.ss. più rappresentative della categoria a livello nazionale (concetto confermato anche dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 59 del 2013). Ancora si rilevano diversità con il Decreto MLPS n. 143 del 25 giugno 2021 istitutivo del sistema della congruità. E potremmo andare avanti. Ovvio che nella giungla della contrattazione collettiva applicabile si giocano interessi ed interpretazioni che se non univoche – anche in tema appalti – lasciano il terreno ad interpretazioni borderline volte a legittimare pratiche al ribasso delle tutele e dei trattamenti. In ogni caso, il concetto di “zona e ambito” sono una relativa novità ma di difficile individuazione, atteso che, per quanto riguarda l’ambito, sono diversi i Ccnl (anche solo nella sfera di quelli rappresentativi) che insistono sulle medesime attività, oppure constatato che la proliferazione in una determinata zona geografica di c.d.” contratti pirata” potrebbe legittimarne l’applicazione. Resta inoltre il concetto di “maggiormente applicato” che (ancor peggio di quello “comparativamente o maggiormente più rappresentativo”) non ha punti precisi di riferimento: perdonando il paradosso, se in una zona e per lo stesso ambito ci sono 200 aziende da due dipendenti cadauna che applicano un determinato Ccnl e 4 aziende da 200 dipendenti cadauna che ne applicano un altro (ovviamente per ambiti e attività coincidenti), qual è quello maggiormente applicato? Si segnalano anche le difficoltà, che su tema analogo si stanno incontrando, nell’ambito degli appalti pubblici, in tema di valutazione di equivalenza dei Ccnl (di cui nessun consulente del lavoro, anche peritissimo, saprebbe trovare la formula risolutiva). E infine, quale scopo ottiene tale disposizione? Non sembra variare il rischio della responsabilità solidale, che da sempre si attesta su trattamenti retributivi (e quindi contributivi) congrui (con conseguente rischio sui trattamenti al ribasso, addirittura andando a lambire i confini dell’art. 603/bis c.p. se in presenza di palese sfruttamento. E del resto, come vedremo, tale disposizione nemmeno impatta sulla definizione di appalto non genuino, che rimane sanzionato in quanto tale solo se privo dei requisiti di cui al comma 1 (senza menzione del comma 1/bis). Andando ad un altro passaggio del comma 2 del decreto n. 19/2024, vi è un periodo aggiunto al comma 2 dell’art. 29 del D.lgs. n. 276/2003, in forza del quale la responsabilità solidale è estesa anche all’interpositore illecito (in caso di appalto, distacco o somministrazione non genuini) e non solo all’utilizzatore, che di fatto rappresenta il reale datore di lavoro. Il tema è stato a lungo oggetto di dibattito e contesa, fra l’interpretazione di INL (cfr. circ. n. 10/2018) che ora viene confermata dalla novella legislativa in commento e la posizione (fino a ieri) più condivisile che escludeva tale possibilità essendo il rapporto ricostituito ex tunc con l’utilizzatore (vedi ad es. Corte Cass., n. 5750/2019) quindi unico obbligato. È in questo caso del tutto apprezzabile l’estensione anche all’interpositore illecito della responsabilità solidale, onde allargare il più possibile il fronte delle possibilità di persecuzione dell’illecito e di recupero delle somme eluse  (anche se normalmente tale possibilità nei casi concreti sembra più virtuale che effettiva). In merito, tuttavia, pare perdersi l’occasione per dare spazio all’osservazione della Corte Costituzionale (sentenza n. 254/2017) la quale ha inteso estesa la responsabilità solidale “a tutte le forme moderne di esternalizzazione”. È però chiaro e palese che tale principio – condivisibilissimo – espresso dai giudici delle leggi richiederebbe un intervento di rafforzamento a tutto tondo sotto il profilo normativo: speriamo in uno sguardo futuro (o magari in sede di conversione) più sistemico e di prospettiva. Passiamo ora in rassegna il cuore del provvedimento, ossia la revisione sanzionatoria art. 18, D.lgs. n. 276/03 in tema di esternalizzazioni illecite. Una premessa sul punto appare doverosa: per quanto apprezzabile la riproposizione (che di seguito esamineremo) delle sanzioni penali in ambito appalti/somministrazioni non genuine, aver istituito la sanzione penale con un decreto legge immediatamente operativo dal giorno successivo alla sua pubblicazione costituisce a parere di chi scrive una scelta azzardata e suscettibile di ripercussioni problematiche sul piano dell’applicabilità e dell’effettività. In un certo senso, si perdoni l’esempio, è come parcheggiare l’auto alla sera e non ritrovarsela più alla mattina perché nottetempo hanno installato il relativo cartello di divieto di sosta con rimozione. È certo un fatto positivo aver riunito (dopo la separazione operata dal D.lgs. n. 81/2015 in tema di somministrazione) la fattispecie sanzionatoria in un unico ambito, quello appunto dell’art. 18 del D.lgs. n. 276/03 (dove permanevano la maggior parte delle sanzioni), altrettanto condivisibile l’omologazione delle sanzioni a tutte le contigue fattispecie dell’interposizione illecita e soprattutto la riproposizione delle stesse in chiave penale, dopo l’intervento “lenzuolone” del D.lgs. n. 8/2016 che le aveva quasi tutte depenalizzate, con profondo depotenziamento dell’effetto repressivo e deterrente. Con la nuova riscrittura dell’art. 18 vengono ora perseguite penalmente con la medesima sanzione (arresto o ammenda di euro 60 al giorno) le diverse, ma accomunabili, fattispecie seguenti (in parentesi il trasgressore sanzionato): – somministrazione abusiva: esercizio non autorizzato dell’attività di somministrazione di lavoro (somministratore); – utilizzazione illecita: correlata alla precedente, è il ricorso alla somministrazione abusiva (utilizzatore) – appalto illecito: appalto privo dei requisiti di cui all’art. 29, comma 1 del D.lgs. n. 276/03 (utilizzatore-distaccatario e distaccante non genuino, ciascuno con sanzione propria); – distacco illecito: distacco privo dei requisiti di cui all’art. 30, comma 1, del D.lgs. n. 276/03 (utilizzatore ed appaltatore non genuino, ciascuno con sanzione propria). In caso di sfruttamento di minori all’interno delle fattispecie suddette è invece previsto l’arresto fino a 18 mesi e l’ammenda è aumentata del sestuplo. Con questa tornata sanzionatoria, tuttavia, pare perdersi l’occasione di andare ad intercettare tutte quelle forme moderne di esternalizzazione illecita (operata ad esempio tramite ATI, consorzi, associazioni in partecipazione, contratti di rete, nolo a caldo etc.) di difficile riporto immediato alla terminologia utilizzata. Andrebbe pertanto specificato, sempre sulla scia della Corte Costituzionale, che la somministrazione illecita e l’utilizzo illecito riguardino qualsiasi altra forma – in qualunque modo contrattualizzata ed attuata – in cui un soggetto non autorizzato metta a disposizione di un utilizzatore del personale (dipendente e non, non di rado la somministrazione illecita può riguardare anche lavoratori “autonomi”) fungendo da mero interposto. Tale estensione oggi è data soltanto per presupposta (anche dall’uniformità degli aspetti sanzionatori) ma parrebbe più opportuno intervenire in forma esplicita. Un aspetto ad avviso di chi scrive grave e assolutamente incomprensibile, e apparentemente te in contrasto con l’art. 27, comma 2 del codice penale, è l’individuazione (comma 5-quinquies) di un limite minimo ma soprattutto massimo alle sanzioni penali. Si pensi che qualsiasi violazione, anche di portata estremamente vasta in termini temporali e di numero di persone illegalmente somministrate, è punibile con una sanzione massima di 50.000 euro (peraltro, oblabile con un quarto dell’importo). La tabella esplicativa allegata mette a confronto due casi-limite per chiarire meglio e con immediata visibilità il concetto. Il primo caso rappresenta un distacco “ingenuo”: un artigiano che presta ad un collegaamico due dipendenti per due giorni per finire un lavoro; il secondo caso rappresenta un appalto non genuino ove siano presenti 50 lavoratori per circa 600 giorni (chi pensa ad un’eccessiva estremizzazione non ha alcuna contezza del mondo delle filiere esternalizzate). Come è palese, la rappresentazione è quella di uno Stato debole coi forti e forte coi deboli: nel primo caso (marginale) la sanzione rispetto alla precedente aumenta di oltre 20 volte, nel secondo caso (criminale) vi è una diminuzione di 36 volte ed in ogni caso ne risulta una sanzione talmente irrisoria da non risultare in alcun modo deterrente.

Si registrano inoltre, in tema di mercato del lavoro, gli inasprimenti delle sanzioni relativamente all’intermediazione abusiva (esercizio non autorizzato delle attività di intermediazione -arresto fino a 6 mesi e ammenda da 1500 a 7500 euro) e alla ricerca e selezione o supporto alla ricollocazione abusivi (l’esercizio non autorizzato di tali attività è punito con l’arresto fino a 3 mesi e con l’ammenda da 900 a 4500 euro). In caso tali attività siano svolte senza scopo di lucro, le pene sono sensibilmente diminuite e l’ammenda è alternativa all’arresto. Un capitolo a parte merita invece il nuovo comma 5 ter che si occupa della somministrazione fraudolenta. La fattispecie (somministrazione, ovviamente irregolare, “posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore”) è oggetto di un andirivieni normativo singolare. Prevista nella norma originaria della legge Biagi, era stata abrogata di fatto con la revisione delle norme sulla somministrazione operata dal D.lgs. n. 81/2015, poi di nuovo riproposta con il D.l. n. 87/2018. Chi scrive ha salutato la reintroduzione della fattispecie con soddisfazione parziale; soddisfazione perché permette di operare la radicale persecuzione dell’interposizione scientifica e sistematica praticata da vari (non pochi) soggetti, ma soddisfazione solo parziale in virtù di una vera e propria “sciatteria legislativa”. Infatti, l’abrogazione (seppur criticabile1 ) operata dal Jobs Act poggiava su una scarsa praticabilità della fattispecie (difficoltà a sorprendere l’elemento soggettivo dell’intento fraudolento), ammessa peraltro dallo stesso corpo ispettivo. Tuttavia la norma è stata riproposta nel 2018 con il medesimo testo precedente (e quindi con la medesima problematicità2 ). Sarebbe meglio ora prendere al volo l’occasione per meglio qualificare la fattispecie, caratterizzandola con un intento ab origine di aggiramento sistematico e su larga scala della normache vieta l’interposizione (dato dalla mancanza in senso assoluto di elementi di genuinità del contratto-schermo fittizio attraverso cui si fornisce il personale) indipendentemente dall’elusione di norme inderogabili di legge e contratto collettivo a favore del lavoratore. Peraltro, in considerazione dell’elemento di palese elusione della norma, sarebbe utile anche precisare il perimetro di applicabilità del comma 2 dell’art. 38 del D.lgs. n. 81/2015 (per cui i pagamenti e gli adempimenti effettuati dal somministratore irregolare liberano fino a concorrenza l’utilizzatore), dato che tali atti dovrebbero anche essere ritenuti tamquam non essent in relazione alla nullità sostanziale del contratto (per causa illecita). È da segnalare invece un ulteriore duplice elemento di criticità in questa rivisitazione della somministrazione fraudolenta. Il testo originario (e anche la versione riproposta identicamente nel 2018) riportavano un inciso inziale “ferme restando le sanzioni di cui all’art. 18” che non viene più riproposto (essendo la norma inserita nel medesimo articolo). Questo ha tuttavia due conseguenze pratiche: a) la sanzione ora non è più aggiuntiva a quella ordinaria della somministrazione illecita (costituendone sostanzialmente un’aggravante) ma sostitutiva: ma che succede se non viene provato l’intento fraudolento? Si rimane senza sanzione? (l’osservazione fa peraltro il paio con quella precedente sull’opportunità di una migliore qualificazione della fattispecie). b) è stata persa (senza il rimando di cui all’inciso) l’aggravante in caso di sfruttamento di minori (arresto fino a 18 mesi e ammenda aumentata del sestuplo); per assurdo, pertanto, in questo caso specifico – molto grave – la somministrazione fraudolenta verrebbe punita molto meno della somministrazione illecita. Ad avviso di chi scrive è pertanto preferibile tornare al meccanismo sanzionatorio precedente (l’ipotesi fraudolenta come aggravante della somministrazione irregolare, comprese le varie ulteriori aggravanti). Su tutte le fattispecie sanzionatorie sin qui elencate, il comma 45- quater prevede un aumento del 20 % delle sanzioni qualora il datore di lavoro, nei tre anni precedenti, sia stato destinatario di sanzioni penali per i medesimi illeciti. La formulazione lessicale desta qualche perplessità: al posto di sanzioni sarebbe preferibile parlare di pene pecuniarie, ma soprattutto alla locuzione “datore di lavoro” sembra preferibile quella di “trasgressore”, atteso l’ambiguità della prima (che peraltro con le violazioni in tema di mercato del lavoro – ricerca e intermediazione non autorizzate- sembra davvero poco funzionale). Un’osservazione tecnica ed una di merito riguarda i commi 10, 11 e 12 dell’art. 29 del D.l. n.19/2024. Sotto un profilo tecnico lessicale, il comma 10 prevede l’obbligo di procedere alla verifica della congruità prima del saldo dei lavori (la congruità riguarda sostanzialmente i soli lavori nel settore edilizia, prevista originariamente ai soli appalti pubblici e successivamente estesa con il Decreto Ministro del lavoro e PS n. 143 del 25 giugno 2021 anche al settore privato, recependo quanto all’accordo delle parti sociali del 10.06.2020). I commi 11 e 12 si suppone che prevedano specifiche sanzioni in caso di mancata applicazione del comma 10, tuttavia il riferimento al comma 10 (che parla di congruità) non è esplicito, in quanto nei commi 11 e 12 si parla di mero “esito positivo della verifica o successiva regolarizzazione”: se l’intenzione era quella di riferirsi alla verifica di congruità del comma 10 sarebbe meglio specificare. Sia concessa tuttavia anche una notazione di merito. Il sistema della congruità si basa sostanzialmente su alcuni accordi delle Parti Sociali del settore edilizia e rappresenta una verifica di denuncia di retribuzioni alle Casse Edili territoriali basati su alcuni parametri. L’efficacia statistica di questi parametri, il funzionamento e le decisioni delle Casse Edili sono soggetti a quali criteri? La congruità rappresenta di fatto un mero meccanismo di soddisfazione di parametri privatistici che indubbiamente rivestono una certa importanza ed hanno anche una certa efficacia nel sistema di intercettazione degli appalti illeciti, ma che presentano anche notevoli incongruenze e distorsioni interpretative. Insomma, senza voler distruggere un meccanismo, forse dovremmo avere il coraggio intellettuale di affermare che congruità non vuol dire automaticamente regolarità. Davvero affidiamo questo compito alle Casse Edili perché non esistono sistemi più efficaci e meno soggetti ad interpretazioni di parte? Infine, solo un cenno – meriterebbe ben altra trattazione ma vi sono esigenze di brevità che si impongono – sulla riscrittura dell’art. 27 del D.lgs. n. 81/2008 del sistema di qualificazione delle imprese tramite crediti. È da salutare con attenzione e sollievo un primo tentativo definitorio della materia, atteso da oltre 15 anni, anche se appare ancora di incerta definizione. Senza entrare nello specifico, occorre quantomeno annotare che rispetto alla disposizione originaria (che prevedeva un mai attuato sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi) tale sistema viene oggi sostituito da una patente a punti che rispetta solo uno dei parametri originari previsti (ossia “la continua verifica dell’idoneità tramite attribuzione di un punteggio iniziale soggetto a decurtazione)”. I documenti richiesti a tal fine sono infatti solo: iscrizione CCIA, adempimento obblighi formativi (che per i lavoratori autonomi sono facoltativi), DVR, DURC e DURF. Sulla scarsa qualità di DURC e DURF a definire un criterio di regolarità di un soggetto basti pensare che gli stessi si basano sulla rispondenza dei versamenti effettuati sulla base delle mere dichiarazioni del contribuente. Ad esempio, l’imprenditore che eseguisse un appalto con 100 falsi part-time (occupati a tempo pieno ma regolarizzati come part-time) sarebbe perfettamente regolare nei termini di tutta la documentazione richiesta per avere tale patente (ovvero “durcabile” e “durfabile”, ovviamente salvo accertamento sul campo). Peraltro, qualora scoperto (e solo se scoperto), non avrebbe alcuna decurtazione del punteggio qualora ottemperasse al pagamento di quanto evaso e alla regolarizzazione della situazione. A chi scrive, in conclusione, sembra davvero il caso di implementare accertamenti preventivi più solidi ed efficaci in tutta la materia e, soprattutto, di uscire da una visione piuttosto “cantieristica” del tema delle esternalizzazioni, prevedendo certificazioni, asseverazioni ed accertamenti preventivi e periodici soprattutto per appalti di certe dimensioni. Intanto qualcosa si muove, ed è già buona cosa. Confidiamo ci sia il tempo e lo spazio per miglioramenti su fattispecie di cui è profondamente intriso il tessuto produttivo ed occupazionale, ma su cui spesso l’attenzione è ancora sensazionalistica e asistematica, con i risvolti non virtuosi che sono sotto gli occhi di tutti (anche quando, e grazie al cielo, non vi sono decessi).

1. Sia concesso il rimando ad A. Asnaghi, P. Rausei, “Il Jobs act e quel piccolo, pericoloso “cadeau” ai mercanti di braccia”, in Bollettino Adapt, 2 marzo 2015.

2. Per un approfondimento, sia ancora concesso un rimando ad A. Asnaghi, La somministrazione fraudolenta nel Decreto Dignità, cronaca di una fattispecie inefficace”, in Lavoro Diritti Europa, 18 novembre 2018.


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