Chi ha avuto la fortuna di seguire un percorso universitario ad indirizzo giuridico è da subito rimasto affascinato da frasi del tipo “L’Italia è la patria del diritto” o anche “La legge è uguale per tutti” ma soprattutto dal famoso brocardo latino “Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”, che tradotto significa, né più né meno, dove la legge ha voluto ha detto, dove non ha voluto ha taciuto.
Principio antichissimo poi trasfuso nell’art. 12 delle Preleggi: “Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore. Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”.
Tutto questo fino all’incontro/scontro con il mondo reale quando, per capire che la legge non è uguale per tutti e che ognuno vi legge ciò che più gli confà, bastano gli ondivaghi e improvvisi cambi di orientamento della giurisprudenza di merito e di legittimità su questioni che parevano ormai consolidate nonché i frequenti interventi della Corte di Cassazione a Sezioni Unite per comporre, spesso nemmeno in termini risolutivi, i contrasti giurisprudenziali venutisi a creare all’intero della stessa suprema Corte.
Ma ciò che più sconcerta è una cultura giuridica che sempre più sovente dimentica il citato brocardo per sposare la nuova regola che “ciò che la circolare ha interpretato è ciò che la legge voleva dire e non importa se non lo ha detto o addirittura ha detto il contrario”.
Il famoso diritto circolatorio, come se agli estensori delle circolari fosse riconosciuta ex lege una delega generale per l’interpretazione autentica della normativa.
L’ennesima prova di questa inarrestabile decadenza giuslavoristica l’avevamo trovata nella interpretazione ministeriale dell’art. 2 del D.Lgs. n. 81 del 15 giugno 2015 che disciplina le collaborazioni organizzate dal committente.
In considerazione della rilevanza che viene ad assumere la corretta gestione delle collaborazioni continuative in ottica di un loro possibile, anche se residuale, utilizzo quale alternativa al lavoro accessorio abrogato dal D.L. n. 25 del 17 marzo 2017, appare interessante rivederne la disciplina, sia quella legale che quella interpretata dalla prassi.
Il primo comma dell’articolo in commento non fornisce una nozione di collaborazione, ma tramite una definizione in negativo individua ciò che non lo è, così disponendo:
“A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.
Questa la lettura della rivisitata disciplina fatta dal Ministero con la circolare l° febbraio 2016, n. 3:
La disposizione richiede l’applicazione della “disciplina del rapporto di lavoro subordinato” nell’ipotesi di rapporti di collaborazione che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali e continuative, le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento “ai tempi e al luogo di lavoro” (c.d. etero-organizzazione).
Pertanto, ogniqualvolta il collaboratore operi all’interno di una organizzazione datoriale rispetto alla quale sia tenuto ad osservare determinati orari di lavoro e sia tenuto a prestare la propria attività presso luoghi di lavoro individuati dallo stesso committente, si considerano avverate le condizioni di cui all’art. 2, comma 1, sempre che le prestazioni risultino continuative ed esclusivamente personali.
In ordine alle citate condizioni, che devono ricorrere congiuntamente, si precisa che per “prestazioni di lavoro esclusivamente personali” si intendono le prestazioni svolte personalmente dal titolare del rapporto, senza l’ausilio di altri soggetti; le stesse devono essere inoltre “continuative”, ossia ripetersi in un determinato arco temporale al fine di conseguire una reale utilità e, come già indicato, organizzate dal committente quantomeno con riferimento “ai tempi e al luogo di lavoro”.
Ed eccolo il diritto circolatorio che con un gioco di prestigio fa sparire i quattro assi da una mano e fa comparire quatto “scartine” nell’altra.
Fate attenzione perché la mano è stata ancora una volta più veloce dell’occhio.
Vi mostriamo i passaggi al rallentatore:
Non vi siete ancora accorti di nulla? Eppure la prestidigitazione è riuscita ed ecco che la congiunzione “anche” si è trasformata nell’avverbio “quantomeno” cambiando il senso della frase, operazione che essendo inserita in un contesto giuridico appare truffaldina ed inaccettabile.
La lettura fornitaci con la circolare ministeriale, giungendo di fatto a privare di qualsiasi significato quel “anche”, appare peraltro – a modesto avviso di chi scrive – in contrasto con i criteri ermeneutici di interpretazione letterale della norma espressi dal citato articolo 12 delle preleggi.
E sorprende che anche in recenti interventi di qualche commentatore sulle nuove collaborazioni si definisca sempre più la questione in termini di esclusiva analisi di tempi e di luogo del lavoro, rinunciando di fatto ad una battaglia che non è squisitamente dottrinale ma assolutamente pratica.
Partiamo dal concetto che se leggendo una norma il senso è palesemente chiaro – e sulla congiunzione “anche” chi scrive non scorge particolari difficoltà di interpretazione – ci si ferma, rectius ci si deve fermare a quanto traspare dal testo, senza possibilità di ricorrere agli altri criteri interpretativi previsti: logico, sistematico, teleologico e analogico.
Diverso è infatti aver statuito “le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro” e diverso sarebbe stato “le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente in riferimento ai tempi e al luogo di lavoro” o addirittura “con esclusivo riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.
E’ più che palese come la presenza di un semplice “anche” – contrariamente all’opinione di chi invece vorrebbe ritenerlo totalmente insignificante – cambi indiscutibilmente il significato della espressione in commento.
Peraltro la scelta del legislatore di utilizzare la locuzione “organizzate” (organizzare: formare, disporre, coordinare qualcosa in modo funzionale: o. gruppi di studio, il lavoro; preparare qualcosa, predisporne il necessario per l’attuazione: o. una gita) invece del termine “stabilite” (stabilire: adottare una decisione stabile e vincolante – sinonimi: decidere, fissare, decretare) appare indirizzata all’obbligare l’ispettore e il giudice ad individuare una reale ed effettiva ingerenza del committente rispetto alle modalità di esecuzione della prestazione e non un mero e limitato potere di stabilire luogo e tempo, elementi spesso meramente funzionali all’indispensabile coordinamento della prestazione del collaboratore agli obiettivi aziendali.
Volendo poi essere particolarmente pignoli, si potrebbe anche sottolineare che “organizzare i tempi” della prestazione è attività più ampia e complessa rispetto la semplice indicazione o individuazione del “tempo” della stessa che riguarda più la fase genetica del rapporto, mentre l’organizzazione dei “tempi” è un aspetto dinamico ed attiene alle concrete modalità di svolgimento ovvero la gestione del programma di lavoro e delle sue varianti.
Anche per questo chi scrive ritiene possibile che sia lo stesso committente a stabilire i giorni effettivi della prestazione (e non solo il suo arco temporale), purché venga lasciato al collaboratore la vera e propria organizzazione dei tempi dell’attività dedotta in contratto.
Tornando comunque alla questione focale ovvero alla terminologia usata dal legislatore, chi scrive ritiene che all’utilizzo della congiunzione “anche” non può essere data nessun’altra interpretazione se non quella che alle modalità della prestazione debba essere fatta la cosiddetta “tara” sottraendovi gli elementi indicati esplicitamente nella norma, ovvero per usare una formula matematica: “modalità” – “tempo e luogo” = “ulteriori elementi da verificare”.
Per l’identificazione in cosa consista questo “extra” ci soccorre la lingua italiana e nello specifico gli avverbi, che per quanto di nostro interesse in questa fattispecie sono:
– di luogo = dove?
– di modo = come?
– di tempo = quando?
– di quantità = quanto?
Data una corretta risposta agli interrogativi circa gli elementi “luogo e tempi” (quest’ultimo da intendersi sia come tempo che quantità) della prestazione, rimane la verifica circa il modo ovvero il “come” questa si svolge.
Nulla questio se da questa analisi dovesse emergere l’etero-direzione delle modalità della prestazione: siamo in ambito lavoro dipendente. Ove invece si ravvisasse la più lieve etero-organizzazione, si potrà in sede ispettiva contestare l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
La lettura ministeriale – pur in un condivisibile rigore interpretativo circa l’utilizzo della congiunzione “e” al posto di una disgiunzione – ritenendo che, ai fini di una eventuale contestazione, le citate condizioni “devono ricorrere congiuntamente” realizza il più classico degli autogol in quanto, ove risultasse esclusa l’organizzazione del committente rispetto anche uno solo degli elementi indicati dalla norma, il tempo o il luogo (secondo invece chi scrive anche e soprattutto il “come” della prestazione), dovrebbe essere riconosciuta la genuinità della collaborazione anche al di fuori delle specifiche ipotesi previste dalla lettera a) alla lettera d) del co.2 di tale articolo.
Stando peraltro sempre all’interpretazione ministeriale ove si dovesse ogni volta ricondurre alla disciplina del rapporto di lavoro subordinato tutte le collaborazioni per le quali – anche in presenza di una reale autonomia del prestatore – si sia reso necessaria e finanche indispensabile da parte del committente l’indicazione di luogo e tempi della prestazione proprio in funzione dell’attività richiesta, ciò risulterebbe inconciliabile con la ratio dell’intervento legislativo, finalizzato, come pare, al contrasto dei fittizi rapporti di lavoro autonomo.
Si consideri infatti che, aderendo alla lettura proposta dal Ministero, avremmo oggi – oltre alle prestazioni previste al comma 2 – le seguenti tipologie di collaborazione possibili:
– collaborazioni non continuative, ovvero le cosiddette prestazioni occasionali, riconducibili oggi alla disciplina del contratto d’opera ex articolo 2222, che teoricamente possono considerarsi legittime anche in presenza di una loro organizzazione da parte del committente sia del luogo che dei tempi della stessa. Tali prestazioni risulterebbero formalmente sottratte alle specifiche conseguenze previste dall’art.2 co.1, ma di fatto non ne sono sostanzialmente immuni, dato che insiste su di esse il rischio generale di riqualificazione del rapporto da autonomo a dipendente. Senza dimenticare che il loro periodico utilizzo impone la valutazione dell’annoso problema di quando la reiterazione di prestazioni analoghe renda di tipo continuativo le stesse.
– collaborazioni organizzate dal prestatore in riferimento al luogo della prestazione, legittime anche in presenza di una continuità e con l’organizzazione da parte del committente dei tempi della stessa. In questi casi difficile che non vi sia in sede ispettiva la tentazione di contestare, considerata l’ingerenza del committente sulle altre modalità organizzative, un rapporto di lavoro dipendente, magari richiamandosi alla disciplina dello “smart working” oggi in discussione.
– collaborazioni organizzate dal prestatore in riferimento ai tempi della prestazione, legittime anche in presenza di una continuità e con l’organizzazione da parte del committente del luogo della prestazione. Certamente, rispetto alla precedente, una fattispecie dove appare più rilevante l’autonomia del collaboratore (seppur, come detto, limitata al solo indice “tempo”), ma pur sempre insufficiente da suggerire un suo utilizzo senza prevedere parallelamente l’effettiva autonomia del prestatore in relazione soprattutto alla scelta del modus. Si richiamano anche in questo caso le criticità in funzione di un eventuale richiamo alla disciplina dello “smart working”
Si tratta quindi, a ben vedere, di ipotesi residuali rispetto alla più ampia gamma di collaborazioni coordinate come concepite fino alla novella legislativa del 2015, con una conseguente ridotta applicabilità pratica dell’istituto che equivarrebbe – in considerazione dell’evidenziato alto rischio di riqualificazione – alla quasi totale abolizione delle stesse, che sopravviverebbero quindi solo nelle forme di cui alle lettere da a) a d) del comma 2.
Se tale fosse stato il fine del legislatore diversa, si ritiene, sarebbe stata la tecnica legislativa utilizzata.
Non si può peraltro, in ultima analisi, non evidenziare la singolarità del fatto di come in tutte le fattispecie sopra descritte diventi, ove si aderisse in toto alla prassi citata, praticamente irrilevante l’unico elemento – l’autonomia nello svolgimento dell’attività lavorativa (da sempre in contrapposizione alla subordinazione) – che, prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n.81/2015, caratterizzava la prestazione del collaboratore coordinato e continuativo.
Oggi, al contrario, sempre seguendo il ragionamento della circolare ministeriale, l’assoggettamento alla disciplina del lavoro dipendente delle collaborazioni avverrebbe sulla base di alcuni di quelli che fino ad ieri erano indici residuali di subordinazione ovvero orario di lavoro e luogo della prestazione.
Anche questa conseguenza è impensabile che corrisponda alla reale volontà del legislatore.
Abbiamo registrato un plauso da parte del Centro Studi Attività Ispettiva del Ministero del Lavoro1 circa la scelta ministeriale di concentrarsi unicamente sugli indici di tempo e di luogo ai fini dell’accertamento della etero-organizzazione “in quanto consente un’interpretazione più agevole ed oggettiva della disposizione, oltre a scongiurare in radice dubbi circa la reale valenza del termine anche”.
Inutile ribadire che la contrarietà di chi scrive per questo modo utilitaristico dell’interprete istituzionale di adattare e sacrificare la norma alla causa della semplificazione dell’attività ispettiva.
E’ infatti palese che eventuali difficoltà nell’individuare una netta demarcazione tra il concetto di etero-direzione e quello di etero-organizzazione non possano certo giustificare una attività ispettiva ridotta, limitandola agli elementi costituivi il requisito “modalità” più facilmente e immediatamente verificabili.
Proprio per questo non può essere condivisibile la conclusione cui il Ministero del Lavoro giunge nella circolare in commento secondo la quale l’attività di riqualificazione del rapporto lavorativo risulterebbe addirittura semplificata. Al contrario l’ispezione dovrà essere condotta con assoluto rigore, dovendo l’ispettore ravvisare, mediante l’analisi di tutti gli aspetti relativi alla modalità della prestazione, una incisiva organizzazione da parte del committente, fornendo una congrua motivazione che menzioni gli elementi, documentali e di fatto, presi in considerazione e le ragioni che hanno determinato l’adozione del proprio provvedimento.
Ove dal verbale ispettivo fosse rinvenibile un accertamento delle modalità esecutive condotto unicamente con una analisi di tempi e luogo della prestazione, senza quindi una esauriente evidenziazione del se e soprattutto del “come” la stessa sia stata o meno organizzata dal committente, ciò comporterà inevitabilmente l’annullamento del verbale per insufficienza ed incompletezza dell’indagine.
Leggendo tra le righe è parso emergere una sorta di sorpresa da parte di alcuni commentatori circa la circostanza che la norma ribadisca, probabilmente liquidando tale fatto come ridondante, la possibilità di presentare gli accordi di collaborazione al vaglio delle Commissioni di Certificazione, essendo questo un potere già loro attribuito in via generale dagli artt. 75 e seguenti del D.Lgs. n.276/2003.
Questa perplessità nasce forse da una lettura superficiale della norma che al comma 3 invece prevede esplicitamente la diversa possibilità di “certificazione dell’assenza dei requisiti di cui al comma 1”.
A dire il vero il legislatore ancora una volta non è stato particolarmente felice nella formulazione della norma richiamando di fatto tutti i requisiti indicati al primo comma. Sicuramente le parti non avrebbero alcun interesse a chiedere di accertare la mancanza di una prestazione esclusivamente personale, dato che il fornire la prova di un ausilio da parte di terzi li esporrebbe probabilmente al rischio di un rigetto dell’istanza. Maggior interesse a far emergere una carenza di continuità della prestazione sussisterebbe nei casi di reiterazione di prestazioni occasionali, ma in questo caso andrebbe presentata direttamente istanza di certificazione del contratto di prestazione occasionale. Si ritiene quindi che il ricorso alla certificazione potrebbe riguardare in massima parte l’assenza di una organizzazione da parte del committente “anche con riferimento di tempi e al luogo di lavoro”.
Sia ben chiaro che alle parti è sempre riconosciuta la possibilità di spingersi fino a richiedere di certificare la genuinità del rapporto nella sua totalità, opzione sicuramente preferibile onde ottenere una tutela dalla riqualificazione del rapporto in termini di lavoro dipendente ex articolo 2094 del codice civile. Ma, come detto, ben potrebbero limitarsi a richiedere alla Commissione di focalizzare la propria attenzione solo su uno degli elementi costitutivi la fattispecie ex comma 1, possibilità che, piaccia o meno, è esplicitamente prevista dalla normativa.
Ove quindi una Commissione di Certificazione fosse in grado di escludere una qualsiasi ingerenza in termini di etero-organizzazione (nel concetto sopra evidenziato) del committente sul “come, dove, quando e quanto” – e rammentiamo che è sufficiente che sia rilevabile l’assenza di un solo di tali elementi – la collaborazione potrà, rectius dovrà essere considerata automaticamente ed implicitamente come genuina, senza necessità che la Commissione dichiari in modo esplicito la conformità del contratto all’intera disciplina dell’art.2 del D.Lgs. n.81 del 15 giugno 2015.
Non risultano a chi scrive ad oggi decisioni in merito alla questione de quo ovvero la rilevanza da dare all’utilizzo della congiunzione “anche”.
Probabile che una parte di contenzioso sia stato evitato grazie anche alla scelta dei committenti di gestire le proprie collaborazioni lasciando – quantomeno formalmente – la massima libertà di organizzare i tempi della prestazione al collaboratore. Chi scrive peraltro ribadisce la perplessità che possa essere la mera concessione della massima discrezionalità di scelta di luogo e di tempi al collaboratore a mettere al riparo il committente da una soccombenza in giudizio.
E proprio perché non si esclude, anzi è più che probabile, che qualche contenzioso verrà attivato e deciso nel prossimo futuro si ritiene essenziale che si dia formale rilevanza nel contratto al “come” e da “chi” sia organizzata la prestazione dedotta in contratto – meglio se sottoponendo l’accordo alla certificazione – di modo che il merito della controversia possa essere ricondotto alla valutazione della rilevanza di quel “anche” volutamente dimenticato dalla prassi ministeriale.
Ovviamente nell’auspicio che la giurisprudenza sappia confermare la bontà della lettura qui proposta, formando al più presto sul punto un orientamento consolidato.
1 Mario Pagano: Collaborazioni organizzate dal committente e stabilizzazione, la circolare ministeriale – Guida al Lavoro n.6/2016.