LAVORO POVERO: la Corte di Cassazione anticipa il Legislatore*

Antonella Rosati, Ricercatrice del Centro Studi Fondazione Consulenti del Lavoro di Milano

Milena d’Oriano analizza il fenomeno del “lavoro povero”

Negli ultimi anni è emersa una domanda di giustizia nei confronti di trattamenti salariali fissati da contratti collettivi ove i lavoratori sollecitano il giudice ad adeguare ai canoni della proporzionalità e sufficienza di cui all’art. 36 Cost. retribuzioni che, sebbene fissate da contratti collettivi rappresentativi, si collocano su livelli minimi sconcertanti. I settori produttivi maggiormente coinvolti sono quelli dei servizi fiduciari, vigilanza privata, portierato, pulizia, facchinaggio e logistica, a cui va aggiunto l’universo incontrollato del lavoro organizzato da piattaforme digitali. Quanto mai atteso, pertanto, l’intervento della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione: la sentenza n. 27711 del 2 ottobre 2023 (e altre due contemporanee sentenze “gemelle”1 ) è balzata subito agli onori della cronaca sia per la sua struttura motivazionale sia per l’inevitabile impatto sulla diatriba politica in corso in tema di salario minimo legale ed è oggetto di attenta analisi da parte dell’Autrice.

UNA IMPORTANTE PRONUNCIA SUL TRATTAMENTO SALARIALE MINIMO

M.A., dipendente di Servizi Fiduciari Soc. Coop. (già Sicuritalia Servizi Fiduciari Soc. Coop), agiva in giudizio per ottenere il diritto all’adeguamento delle retribuzioni percepite, ritenuta la non conformità ai parametri dell’art. 36 Cost. del trattamento retributivo applicato2 corrispondente a quello previsto per il livello D della sezione Servizi Fiduciari del Ccnl per i dipendenti delle imprese di vigilanza privata e servizi fiduciari. Il giudice di primo grado, in accoglimento della domanda proposta da M.A., accertava il diritto del lavoratore a percepire un trattamento retributivo di base non inferiore a quello previsto per il livello D1 del Ccnl dei dipendenti di proprietari di fabbricati, condannando la datrice di lavoro Servizi Fiduciari al pagamento delle differenze retributive. La Corte d’Appello di Torino riformava la sentenza di primo grado accogliendo l’appello proposto dalla datrice di lavoro. Contro la sentenza della Corte d’Appello di Torino M.A. proponeva ricorso per Cassazione, affidato a cinque motivi. Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso proposto dal lavoratore ritenendo fondati tutti e cinque i motivi di impugnazione. La Suprema Corte ha statuito che il giudice: – a fronte di una denuncia di inadeguatezza della retribuzione da parte dei lavoratori, possa discostarsi motivatamente, anche ex officio, dalla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria qualora questa si ponga in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall’art. 36 Cost.; – ai fini della determinazione del giusto “salario minimo costituzionale” può servirsi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe; – nell’opera di verifica della retribuzione minima adeguata ex art. 36 Cost., nell’ambito dei propri poteri ex art. 2099, 2° comma c.c., può fare altresì riferimento, all’occorrenza, a indicatori economici e statistici, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022.

LA CENTRALITÀ DEL LAVORO NELLA COSTITUZIONE ITALIANA

Per apprezzare pienamente i principi ispiratori della decisione è necessario ritornare al punto di partenza: la Costituzione. Il principio lavoristico di cui all’art. 1 testimonia in modo limpido la volontà dei Costituenti di porre il lavoro al centro del nostro ordinamento. Nella polisemia del lavoro coesistono la componente materiale del lavoro-merce (consente di procurarsi i mezzi di sostentamento) e la componente astratta (principale strumento di espressione dell’identità personale e sociale). L’art. 36 Cost. ha dettato i due criteri con cui valorizzare la retribuzione che del lavoro è il corrispettivo economico: proporzionalità e sufficienza. Non esiste una graduatoria dei due principi: essi si pongono in un rapporto di complementarietà, accentuata dall’espressione “e in ogni caso”, che ne impone la compresenza. Anche la giurisprudenza di legittimità ha tendenzialmente adottato una nozione unitaria, ove i due criteri si integrano vicendevolmente in modo che l’uno stabilisce “un criterio positivo di carattere generale” e l’altro “un limite negativo, invalicabile in assoluto”. Una retribuzione è dunque giusta e adeguata se risulta nello stesso tempo proporzionata e sufficiente; per il rispetto di tali requisiti vale il richiamo a fattori che esulano dalla stretta corrispettività ma riconducono a valori sociali di libertà dal bisogno e dignità, dando vita a una dimensione costituzionale della retribuzione come mezzo per la realizzazione di finalità di giustizia e solidarietà.

LA PORTATA PRECETTIVA DELL’ART. 36 COST. E LA SUA APPLICAZIONE GIURISPRUDENZIALE

La giurisprudenza di legittimità, sin dagli anni ’50, ha potenziato la portata precettiva del principio della giusta retribuzione affermandone l’inderogabilità con l’effetto di determinare la nullità di tutte le pattuizioni individuali non conformi ai principi costituzionali di proporzionalità e sufficienza. Per l’individuazione in concreto della retribuzione rispondente ai canoni costituzionali si propone l’utilizzo in via parametrica della retribuzione prevista dalle tabelle salariali predisposte dalla contrattazione collettiva, da applicare non in via diretta ma quale elemento esterno per la determinazione della giusta retribuzione. Dalla presunzione che il contratto collettivo di settore rappresenti il più adeguato strumento per determinare il quantum della giusta retribuzione, ne consegue che “ove il giudice del merito intenda discostarsi dalle indicazioni del contratto collettivo, ha l’onere di fornire opportuna motivazione”. Il meccanismo giuridico utilizzato per la rideterminazione è quello della nullità parziale di cui all’art. 1419, comma 2, c.c.: ove la retribuzione prevista nel contratto di lavoro, individuale o collettivo, risulti inferiore a questa soglia minima, la clausola contrattuale è nulla e, in applicazione del principio di conservazione espresso nell’art. 1419, comma 2, c.c., il giudice adegua la retribuzione secondo i criteri dell’art. 36, con valutazione discrezionale, procedendo alla determinazione giudiziale della retribuzione consentita, ai sensi dell’art. 2099 c.c.

LA CRISI DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA

 L’utilizzo parametrico dei contratti collettivi è divenuto diritto vivente; profondamente mutato è invece il contesto in cui il parametro contrattuale viene applicato. Il mondo del lavoro versa da anni in una fase di turbolenza favorita, all’esterno, dalla riduzione delle tutele per le forme di lavoro tradizionali, dall’emergenza costante del lavoro nero e dalla diffusione di forme negoziali c.d. flessibili che sfuggono per natura alla copertura della contrattazione collettiva e, all’interno, da una significativa frammentazione della rappresentanza sindacale che ha portato alla proliferazione dei contratti collettivi nazionali di categoria che ha contribuito alla diffusione di accordi conclusi da organizzazioni dalla dubbia rappresentatività e alimentato il fenomeno del dumping contrattuale. Dumping che si realizza grazie alla possibilità del datore di lavoro di scegliere in autonomia il Ccnl da applicare sulla sola base della sua economicità, favorito dalla possibilità di optare per contratti collettivi stipulati da parte di organizzazioni sindacali o datoriali scarsamente o per nulla rappresentative, dalla presenza di contratti sottoscritti da organizzazioni, sindacali e datoriali, dotate di maggiore rappresentatività in un settore specifico, ma che propongono campi di applicazione esageratamente estesi (c.d. contratti omnibus), determinando una sovrapposizione di ambiti di applicazione in attività limitrofe che, con l’avallo dei sindacati maggiormente rappresentativi, alimenta una sorta di concorrenza salariale al ribasso. Da non sottovalutare, quale causa di inefficienza del sistema contrattuale, la dilatazione dei tempi di rinnovo che contribuisce al mancato adeguamento del valore della retribuzione agli aumenti del costo della vita, con una incidenza potenziata dall’attuale ripresa dell’inflazione.

IL “SALARIO MINIMO COSTITUZIONALE”: ISTRUZIONI PER L’USO

Per far fronte ai rischi indotti da tali degenerazioni la Suprema Corte elabora una sorta di statuto del “salario minimo costituzionale” e nel farlo evoca audacemente lo spettro della povertà. Da qui l’affermazione che la retribuzione giusta ex art. 36 non è quella che garantisce di non essere poveri, ma quella che assicura una vita libera e dignitosa: da qui il richiamo al considerando n. 28 della Dir. UE 2022/20241 sul salario minimo che suggerisce di determinare il salario minimo adeguato attraverso strumenti che tengano conto oltre che delle “necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio” “anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali”. La Corte procede quindi a fornire ai giudici di merito una serie di istruzioni operative su come condurre la verifica di proporzionalità e sufficienza in primo luogo ricordando, e quindi approvando, gli indicatori nazionali di inadeguatezza della retribuzione utilizzati dai giudici di merito e poi, ancora una volta con una spinta innovatrice, suggerendo di ampliare l’orizzonte a indicatori europei e internazionali. Chiarisce che il confronto va operato prendendo in considerazione la retribuzione netta, e quindi spendibile dal lavoratore, e non quella lorda e che va tenuto conto della retribuzione ordinaria e non quella straordinaria che costituisce un emolumento eventuale. Elenca come indicatori di una insufficienza retributiva ex art. 36 Cost.: – il valore soglia di povertà assoluta, calcolato ogni anno dall’Istat relativamente a un paniere di beni e servizi essenziali per il sostentamento vitale; – l’importo della Naspi o della Cig, la soglia di reddito per l’accesso alla pensione di inabilità, l’importo del reddito di cittadinanza, a cui si potrebbe aggiungere quello della relativa “offerta congrua” o del reddito di inclusione; – quali fonti europee e internazionali, la Convenzione OIL n. 26 del 16 giugno 1928, l’art. 4 della Carta sociale Europea, gli artt. 23 e 31 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, la Dir. UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022 sul salario minimo. A questo punto la Corte ribadisce che anche la retribuzione fissata dalla contrattazione collettiva non si sottrae alla verifica di conformità a Costituzione e che pertanto non può negarsi al lavoratore il “diritto di uscire” dalla contrattazione di categoria se questa si pone in contrasto con il canone costituzionale. Il giudice, nell’opera di adeguamento, può dunque discostarsi dai minimi contrattuali e utilizzare in via parametrica altri indici ed elementi esterni purché lo faccia con prudenza e adeguata motivazione. Mancando nel nostro ordinamento una nozione di salario legale, altro passaggio indispensabile è quello di individuare il parametro esterno sostitutivo. Anche in questo caso la Suprema Corte richiama la giurisprudenza consolidata che consente il riferimento ad altri contratti applicabili per lo stesso settore, che prevedano al contrario trattamenti adeguati, o per categorie affini, relativamente a mansioni analoghe. Nella ricerca di un parametro esterno in funzione sostitutiva, si suggerisce l’utilizzo di indicatori economici e statistici e ancora una volta c’è il richiamo alla Dir. UE 2022/2041: l’art. 5, punto 4, che, seppure destinato a quegli Stati il cui salario minimo è fissato per legge, costituisce un indicatore qualificato per una retribuzione minima suggerendo di utilizzare quelli “comunemente utilizzati a livello internazionale, quali il 60% del salario lordo mediano e il 50% del salario lordo medio, e/o valori di riferimento indicativi utilizzati a livello nazionale”, riferimento presente anche nel considerando n. 28, destinato quindi anche agli Stati in cui la garanzia del salario minimo adeguato è rimessa unicamente alla contrattazione collettiva.

GIUDICE E SALARIO MINIMO: QUALI PROSPETTIVE?

In estrema sintesi, questi i punti di forza della pronuncia: – l’affermazione dell’esistenza di un “salario minimo costituzionale”, di cui vengono tracciate minuziosamente le coordinate che, in quanto forte della copertura costituzionale, è destinato a imporsi alla contrattazione collettiva, a una legge che a tale contrattazione faccia rinvio e con cui, quindi, dovrà fare i conti una eventuale legislazione che affronti il tema del salario minimo legale; – una rivitalizzazione del ruolo del giudice che non potrà più limitarsi ad applicare in maniera automatica e acritica la contrattazione collettiva di riferimento, confidando nella presunzione di adeguatezza ex art. 36 Cost. di tali contratti, ma dovrà invece con responsabilità, prudenza e adeguata motivazione, individuare in concreto da un lato il parametro oggettivo di confronto che certifichi l’inadeguatezza dei compensi orari previsti dalla contrattazione e dall’altro il parametro sostitutivo idoneo a garantire la giusta retribuzione ex art. 36 Cost. Si potrebbe eccepire che i giudici avrebbero inaugurato un nuovo orientamento giurisdizionale di ingerenza sia rispetto all’autorità salariale rappresentata dai sindacati maggiormente rappresentativi e dalla contrattazione dagli stessi espressa, sia rispetto “ai contenuti delle leggi ordinarie che regolano la materia”. Questa operazione ha assicurato per oltre mezzo secolo un efficace ed equilibrato rimedio alle situazioni di inadeguatezza salariale, favorendo la tendenza espansiva dei contratti collettivi di lavoro di cui veniva realizzata, quanto meno in sede contenziosa e per la parte retributiva, quella generalizzata applicazione rimasta inevasa per l’inerzia del legislatore. Ma cosa fare nel momento in cui questo parametro esterno abbia progressivamente raggiunto livelli al di sotto del minimo costituzionale? Si può pretendere che un giudice, nell’esercitare il controllo costituzionale, applichi un parametro che non soddisfi i criteri di proporzionalità e sufficienza? Si potrebbe sostenere che non è vero e che quei trattamenti minimi siano in realtà adeguati ma i numeri sono implacabili: si potrebbe affermare che la retribuzione prevista dal Ccnl Servizi Fiduciari per un rapporto full time di 40 ore in misura di 930 euro lordi (cui corrisponde un salario netto di euro 650,29) per un livello D sia una retribuzione adeguata ex art. 36? Lo si può fare, ma appare a dir poco affrettato lamentare un’ingerenza discrezionale del giudice che, con adeguata motivazione, affermi il contrario. Il contenzioso in commento non è stato creato dai giudici, chiamati a rispondere a richieste di tutela provenienti dal basso, e la supplenza come già per l’art. 39 Cost, è stata necessitata dall’inerzia sia del legislatore che della contrattazione. Ci sarebbe da chiedersi se il problema sia la giurisprudenza, o piuttosto il legislatore, inoperoso da decenni sull’attuazione dell’art. 39 Cost. e oggi impegnato a confutare l’esistenza stessa del problema del “lavoro povero”, o piuttosto il sistema delle relazioni industriali rimasto inerte rispetto a una contrattazione collettiva che si è attestata su retribuzioni minime a dir poco imbarazzanti. La sentenza della Cassazione non è “de iure condito”, cioè espressa in base alla legislazione vigente, ma è “de iure condendo”, cioè intende fissare parametri a cui il legislatore dovrà fare riferimento: in assenza di una disciplina legale del salario minimo, la pronuncia resta un monito, segna un importante passo in avanti nella tutela del “lavoro povero”, squarciando il velo calato per occultare l’esistenza di lavoratori “diversamente deboli” in quanto poveri “nonostante il lavoro” e “nonostante la contrattazione”. Una sentenza che sicuramente farà storia in quanto l’introduzione di un “salario minimo di Stato” andrebbe a svilire, se non abdicare del tutto, il potere rappresentativo e contrattuale del sindacato che si ritroverebbe ad avere un ruolo del tutto marginale in un tema da sempre di competenza della contrattazione collettiva. Il risvolto non sarà solo del sindacato e del ruolo che lo stesso riveste all’interno del nostro ordinamento in tema di retribuzione nei rapporti di lavoro ma anche, e soprattutto, nei contenziosi che potrebbero instaurarsi proprio al fine di richiedere in giudizio la (ri)determinazione della retribuzione da parte del magistrato, nell’ambito degli ampi poteri allo stesso riconosciuti, con verifica, a mezzo dei parametri individuati dalla decisione in commento, della adeguatezza ex art. 36 Cost.

* Sintesi dell’articolo pubblicato in LG, 11/2023, pag. 1032 dal titolo La Cassazione sul salario minimo costituzionale: squarciato il velo sul lavoro “povero”.

1. Cass. Civ., n. 27713/2023 e Cass. Civ., n. 27769/2023 decise nella medesima udienza.

2. Anche ai sensi della L. n. 142 del 2001, art. 3, comma 1, e L. n. 31 del 2008, art. 7.


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