Lavoro intermittente: ok della Corte di Giustizia UE al limite d’età

di Francesco Rotondi, LabLaw Studio Legale Failla Rotondi & Partners

di Francesco Rotondi – LabLaw Studio Legale Failla Rotondi & Partners

La facoltà, per il datore di lavoro, di stipulare un contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che abbia meno di 25 anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da eseguire, e di licenziare il lavoratore al compimento del venticinquesimo anno “persegue una finalità legittima di politica del lavoro e del mercato del lavoro e costituisce un mezzo appropriato e necessario per conseguire tale finalità”.

È questo il principio affermato dalla Corte di Giustizia Europea nella recente decisione (C-143/16) dello scorso 19 luglio 2017 ed in virtù del quale è stato ritenuto conforme al diritto comunitario, e non discriminatorio, il limite di 25 anni previsto per il contratto di lavoro intermittente – meglio noto anche come “a chiamata” o job on call – in quanto, per l’appunto, finalizzato a perseguire l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro.

La vicenda, ben nota alle cronache giudiziarie, trae origine dal licenziamento impugnato da un lavoratore che, assunto in virtù di un contratto di lavoro intermittente quale magazziniere notturno da Abercrombie&Fitch S.r.l., noto brand di moda, al compimento del venticinquesimo anno di età si è visto risolvere il contratto di lavoro.

Che la decisione aziendale fosse di per sé legittima non vi era dubbio essendo coerente con la previsione normativa nazionale disciplinante il contratto di lavoro intermittente ed introdotta per la prima volta nel nostro ordinamento dagli artt. 33 e ss. del D.lgs. n. 276/2003, successivamente abrogati dal D.lgs. n. 81/2015, artt. 13 e ss., che di fatto non ne ha stravolto la previgente disciplina.

Tale tipologia contrattuale permette al datore di lavoro che abbia la necessità di utilizzare un lavoratore per prestazioni con una frequenza non predeterminabile di chiamarlo all’occorrenza. Oltre che in presenza di condizioni oggettive attinenti al carattere intermittente dei servizi ed alle esigenze individuate nei contratti collettivi[1], per quanto qui interessa, il contratto di lavoro intermittente è attivabile in presenza di condizioni soggettive[2], potendo essere conclusa “in ogni caso” con soggetti di età superiore a 55 anni o inferiore a 24 anni (nella formulazione originaria, vigente all’epoca dei fatti, più di 45 anni e meno di 25 anni), fermo restando in tale ultimo caso che le prestazioni contrattuali devono essere svolte entro il venticinquesimo anno di età.

Va da sé, dunque, che non potendo il rapporto proseguire oltre il compimento del venticinquesimo anno il datore di lavoro, applicando la menzionata normativa, deve intimare il recesso (salvo il ricorso ad un diverso modello negoziale).

Tornando alla vicenda sottoposta al vaglio della Corte Europea, il lavoratore – con ricorso proposto ex art. 28 del D.lgs. n. 150/2011 ed art. 702 bis c.p.c. – ha adito il Tribunale di Milano lamentando  l’illegittimità del contratto di lavoro intermittente in quanto discriminatorio sotto il profilo dell’età anagrafica e, conseguentemente, l’illegittimità del licenziamento intimato.

Il ricorso è stato respinto in primo grado per ragioni processuali.

Di diverso avviso è stata, invece, la Corte di Appello che, superate le questioni procedurali, con una sentenza decisamente innovativa, in quanto per la prima volta si sofferma sulla natura discriminatoria del contratto intermittente stipulato sulla base del solo requisito anagrafico, ha proceduto alla disapplicazione della norma interna ritenuta in contrasto con la normativa europea, censurando come illegittima la condotta datoriale.

In particolare, la Corte di merito ha ritenuto che il contratto di lavoro intermittente, concluso ai sensi dell’art. 34 del D.lgs. n. 276/2003 (allora vigente), ed il licenziamento intimato in ragione del raggiungimento del venticinquesimo anno di età sono contrari al principio di non discriminazione dell’età sancito dalla direttiva 2000/78 CE.

Diversamente ragionando, a detta della Corte di Appello, piuttosto che favorire l’ingresso lavorativo dei giovani si abiliterebbe i datori di lavoro a risolvere il rapporto al raggiungimento del limite massimo consentito.

La Corte di merito ha, pertanto, rimosso la condotta ritenuta discriminatoria disconoscendo e disapplicando il contratto di lavoro intermittente in quanto concluso in esclusiva ragione dell’età, condannando la datrice di lavoro alla reintegra a tempo indeterminato oltre che al risarcimento del danno.

Siffatta decisione, come immaginabile, non è stata condivisa dalla datrice di lavoro rimasta soccombente che, convinta che la disciplina criticata favorisca i lavoratori proprio in ragione della loro età – e non viceversa – ha investito della questione la Corte di Cassazione.

Chiamata a pronunciarsi sul ricorso promosso da Abercrombie, la Suprema Corte di Cassazione ha nutrito perplessità circa la conformità della norma nazionale che permette la stipula di contratti di lavoro intermittente per prestazioni rese da soggetti under 25 (art. 34, D.lgs. n. 276/2003) rispetto ai principi comunitari della non discriminazione in base all’età stabiliti dalla direttiva 2000/78 CE (art. 6, paragrafo 1) e dalla CEDU (art. 21, paragrafo 1).

Pertanto, con l’ordinanza interlocutoria n. 3982 del 29 febbraio 2016, la Corte di Cassazione, previa sospensione del giudizio, ha interrogato la Corte di Giustizia sulla questione.

La Corte Europea con la pronuncia in commento – ribadito l’ampio margine di discrezionalità di cui godono gli Stati membri nella adozione delle misure atte a realizzare gli obbiettivi in materia di politica sociale e dell’occupazione – ha definitivamente sancito la non contrarietà della normativa italiana alla normativa europea poichè persegue una finalità legittima di politica e di espansione del mercato del lavoro, con particolare riguardo alla più debole categoria sociale dei giovani, mediante strumenti appropriati e necessari a conseguire tale finalità. La Corte ha, dunque, riconosciuto la legittimità del conseguente recesso datoriale al raggiungimento del limite di età, escludendo che ciò determini un trattamento discriminatorio nei confronti del lavoratore.

 

In particolare, la Corte di Giustizia ha accolto le argomentazioni formulate dall’azienda e dal Governo Italiano rilevando come, in un contesto di perdurante crisi economica e di crescita rallentata, la situazione di un lavoratore che ha meno di 25 anni e che, grazie ad un contratto di lavoro flessibile ha la possibilità di accedere al mercato del lavoro, è senz’altro preferibile e più vantaggiosa rispetto alla situazione di colui che tale possibilità non ha e che, per tale ragione, si ritrova privo di occupazione.

La stessa Corte ha rilevato, altresì, che proprio perché strumento contrattuale poco vincolante e meno costoso rispetto al contratto di lavoro ordinario, il contratto di lavoro intermittente è un mezzo

appropriato ad invogliare le Aziende ad assumere i giovani e, quindi, ad incentivare l’assorbimento delle domande d’impiego provenienti da questi ultimi.

In definitiva, dunque, a giudizio della Corte UE la normativa italiana in materia di lavoro intermittente per i lavoratori infraventicinquenni, se da un lato introduce senza dubbio una differenza di trattamento dei lavoratori fondata sull’età, dall’altro persegue la legittima finalità di favorire l’occupazione giovanile, consentendo ai giovani lavoratori, privi di esperienza professionale e di formazione, di conseguire maggiore competitività grazie ad una prima esperienza lavorativa funzionale al successivo accesso stabile ad un mercato del lavoro che richiede sempre più spesso una pregressa esperienza.

E dunque, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea non solo ha negato la natura discriminatoria di tale formula contrattuale, ma ne ha anche evidenziato la coerenza con le esigenze di flessibilità dei datori di lavoro nell’attuale mercato del lavoro in Italia.

[1]          Cfr. art. 13, co. 1, D.lgs. n. 81/2015.

[2]          Cfr. art. 13, co. 2, D.lgs. n. 81/2015.