Lavorare fino a 70 anni: due pronunce a confronto

a cura di Gabriele Fava, Avvocato in Milano Luigia Scalfaro, Avvocato in Milano

 

Il presente contributo trae spunto da due recenti sentenze della Corte di Cassazione, intervenute in merito alla possibilità del lavoratore di rimanere in servizio fino al compimento del settantesimo anno di età, ovverosia, oltre il raggiungimento dell’età pensionabile. In particolare, la Suprema Corte, pur confermando il principio cardine contenuto nella nota pronuncia a Sezioni Unite n. 17859/2015, in un caso ha riconosciuto il diritto del lavoratore al proseguimento dell’attività lavorativa, mentre nell’altro no.

Ed invero, con la sentenza n. 20458/2018, la Suprema Corte ha esaminato un caso di un lavoratore, il quale, trascorso il periodo di oltre un anno dal 66° di età aveva formulato la domanda di prosecuzione del rapporto di lavoro sino a 70 anni, in forza dell’art. 24, co. 4 del D.l. n. 201/2011, convertito con modificazioni dalla Legge n. 214/2011. Alla richiesta del lavoratore, tuttavia, l’azienda non aveva dato alcun riscontro, proseguendo il rapporto di lavoro per ben 16 mesi. Solo decorso siffatto periodo, la Società aveva proposto al lavoratore la risoluzione del rapporto di lavoro, che lo stesso aveva rifiutato.

Ebbene, il punto cruciale su cui verte la fattispecie esaminata, riguarda proprio l’applicabilità delle misure di contenimento della spesa pensionistica previste dall’art. 24 co. 4, operanti attraverso l’incentivazione a trovare un accordo con il datore di lavoro per la prosecuzione del rapporto di lavoro.

La norma in esame, prevede infatti che grazie all’operare di coefficienti di trasformazione calcolati fino al 70° anno, sia possibile consentire, ai lavoratori interessati, di proseguire il rapporto di lavoro oltre i limiti normativi di settore e a condizione che il datore di lavoro abbia dato il suo consenso.

Nel caso in esame, la Cassazione ha ritenuto corretta l’interpretazione della Corte distrettuale, secondo cui – benché la norma in parola non attribuisca un diritto di opzione in capo al lavoratore per la prosecuzione del rapporto fino al compimento del 70° anno di età, ma una facoltà che necessità del consenso datoriale – l’azienda aveva assunto un atteggiamento consenziente alla prosecuzione del rapporto di lavoro, mantenendo in servizio il dipendente anche dopo la puntuale e completa proposta dello stesso a proseguire il rapporto e per un periodo superiore a 16 mesi.

La condotta aziendale avrebbe, quindi, delineato un comportamento concludente, indice di una manifestazione del consenso alla prosecuzione del rapporto di lavoro.

Diverso il caso esaminato dalla Cassazione nella fattispecie conclusa con la sentenza n. 20089/2018. La vicenda ha avuto ad oggetto ancora l’interpretazione dell’art. 24 co. 4, ma questa volta sotto un duplice profilo.

Con il primo motivo di impugnazione il lavoratore ha sostenuto l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 24, co. 4 anche agli iscritti presso l’Inpgi, ente previdenziale dei giornalisti.

Con la seconda doglianza il lavoratore ha contestato l’interpretazione della disposizione fornita dalla Corte territoriale che aveva escluso la possibilità di proseguire il rapporto di lavoro in assenza di un accordo consensuale delle parti.

Le contestazioni mosse del lavoratore sono così risultate del tutto analoghe a quelle oggetto della sentenza a Sezioni Unite n. 17859/2015 sopra citata, ragione per cui il Collegio ha rigettato tout court i motivi di ricorso del lavoratore.

Quanto all’applicabilità della disciplina delle incentivazioni di cui all’art. 24, co. 4 del D.l. n. 201/2011, le Sezioni Unite avevano infatti chiarito la non estendibilità della disciplina ai sistemi previdenziali degli enti privatizzati, stante la volontà del Legislatore di adottare due diversi schemi di interventi, da una parte riservata agli iscritti all’AGO e alle forme esclusive e sostitutive della medesima, e dall’atro, agli enti privatizzati gestori di forme obbligatorie di previdenza ed assistenza, tra cui rientra anche l’Inpgi.

Con riguardo alla seconda censura, i giudici di legittimità, riprendendo i passaggi della pronuncia a Sezioni Unite, hanno ribadito che l’incentivo al proseguimento dell’attività del lavoratore, non attribuisce al lavoratore alcun diritto di opzione, tantomeno consente al medesimo di scegliere tra la quiescenza o la continuazione del rapporto di lavoro.

Ora, sebbene in uno dei due casi esaminati la Suprema Corte abbia riconosciuto il diritto alla prosecuzione del rapporto, il principio che emerge dalle due pronunce rimane però il medesimo.

Ovvero che la norma in considerazione non crea alcun automatismo e non riconosce in capo al lavoratore alcun diritto potestativo di scegliere unilateralmente di restare in servizio, limitandosi semmai a porre le condizioni per la prosecuzione del rapporto. Per vedere perfezionata la facoltà del dipendente di restare in servizio oltre il raggiungimento dei requisiti per ottenere la pensione di vecchiaia sarà pur sempre necessario il consenso del datore di lavoro, ancorché manifestato per fatti concludenti.