Sempre più spesso i lavoratori dipendenti, stanchi di alzarsi tutte le mattine per andare in azienda, scelgono una nuova forma di dimissione: l’assenza ingiustificata. Il motivo è presto detto, costringere il datore di lavoro ad aprire una procedura disciplinare per arrivare quindi al licenziamento. La forzata “conversione” da dimissioni volontarie a licenziamento comporta il diritto per l’ex lavoratore a percepire la disoccupazione o meglio la Naspi.
Si sa, l’Italia è un paese che crea le mode, siamo sempre i primi, all’avanguardia. Invidiati da tutto il mondo per fantasia ed eleganza.
Ma siamo pur sempre italiani, persone che alla prima occasione spesso fanno emergere il lato B, quella furbizia tutta italica che ci porta, piuttosto che rispettare una norma, a trovarne tutte le pecche, aprendo alle strade secondarie, per raggiungere comunque uno scopo, un interesse personale; non per niente è detto tipicamente italiano “fatta la legge trovato l’inganno”.
Partiamo però dall’inizio e cioè da due date ben precise: 1° maggio 2015 e 12 marzo 2016.
A far data dalla festa dei lavoratori del 2015, è stata introdotta la Naspi, la prestazione economica che sostituisce l’indennità di disoccupazione, precedentemente già rinominata Aspi Assicurazione sociale per l’impiego.
Si tratta, come ben sappiamo, di una prestazione a domanda, erogata a favore dei lavoratori che involontariamente hanno perso il posto di lavoro.
I requisiti per aver diritto alla Naspi sono: lo stato di disoccupazione involontario, un requisito contributivo ed un requisito lavorativo.
Rispetto alla precedente disciplina in materia di ASpI1, il cui requisito di accesso alla disoccupazione prevedeva necessariamente che fossero trascorsi almeno due anni dal primo contributo versato, per aver accesso alla NASpI questo requisito specifico non è previsto.
L’elemento principale ai fini della Naspi è lo status di disoccupato involontario, che interviene ogni qual volta un lavoratore viene licenziato; cui si aggiungono altre tre tassative fattispecie: la risoluzione consensuale (all’interno delle procedure conciliative presso la DTL), le dimissioni per giusta causa – cioè non per scelta del lavoratore ma a seguito di condotte del datore tali per cui il rapporto di lavoro non può proseguire nemmeno momentaneamente – e le dimissioni durante il periodo tutelato dalla maternità.
La seconda data è lo spartiacque, ben noto ai professionisti ed alle aziende, tra il periodo antecedente, ove regnavano incontrastate le “dimissioni in bianco” e l’introduzione della nuova univoca procedura on-line a tutela del lavoratore che veramente vuole dimettersi.
È appena il caso di sottolineare che, a parere di chi scrive, non si aveva la sensazione che nella realtà esistesse una così enorme quantità di fogli in bianco fatti sottoscrivere ai lavoratori, per poterci aggiungere in qualsiasi momento una fasulla volontà dimissionaria, tale da richiedere una rivoluzione copernicana delle procedure, rendendole invero abbastanza farraginose e complesse.
Evidentemente le informazioni del nostro attento legislatore erano diverse, al punto che ora, con il D.lgs. n. 151/2015 è stata introdotta (re-introdotta ndr) una univoca modalità ai fini della validità delle dimissioni dei lavoratori subordinati.
Infatti, ai sensi dell’art. 26 della stessa norma, il lavoratore che intenda rassegnare le proprie dimissioni, è tenuto a procedere, a pena di inefficacia ed in via esclusiva, con modalità telematiche utilizzando appositi moduli, che vengono trasmessi al datore di lavoro ed alla Direzione Territoriale del Lavoro2; si tratta dell’unica forma scritta ammessa, perché le dimissioni abbiano rilevanza giuridica e pertanto efficacia.
Tale trasmissione può avvenire anche tramite l’assistenza dei patronati, delle organizzazioni sindacali, dei Consulenti del Lavoro, dagli Enti bilaterali e dalle commissioni di certificazione.
Sembrerebbe, a prima vista, un sistema blindato, ma ha dimostrato fin da subito una grande pecca, non risulta prevista alcuna disciplina in caso di mancanza dei passaggi procedurali e dei suoi formalismi, tutti previsti in capo al lavoratore, manca cioè una specifica previsione in caso di comportamenti concludenti dello stesso.
Ed eccola lì, la tendenza tipica del Belpaese, fatta la legge tovato l’inganno, si affermava poc’anzi.
A cosa ci si riferisce? Ovviamente alla prima possibilità che emerge, quella che permetterebbe al lavoratore di potersene rimanere a casa, percependo la Naspi.
A partire dal 12 marzo 2016 infatti, il numero di lavoratori che si dimettono per giusta causa, aumenta in modo esponenziale3, almeno nel primo periodo.
Come si diceva, si tratta di una situazione contingente che non permette al lavoratore di proseguire nella prestazione lavorativa, ma per fatti a lui non imputabili, al punto da costringerlo a rassegnare le proprie dimissioni per giusta causa, seguendo ovviamente tutta la procedura prevista dal D.lgs. n. 151/2015.
È bene ricordare che, in tale ipotesi, si era espressamente pronunciata la Corte Costituzionale4, censurando la norma che escludeva la concessione dell’indennità di disoccupazione ordinaria, anche per l’ipotesi di dimissioni per giusta causa, ai sensi dell’art. 2119 cod.civ., in quanto, in presenza di una condizione di improseguibilità del rapporto, la cui ricorrenza deve essere valutata dal giudice, l’atto delle dimissioni, tipico del lavoratore, deve comunque essere ascritto al comportamento di un altro soggetto e, conseguentemente, lo stato di disoccupazione debba essere ritenuto comunque involontario.
Appare quindi, superficialmente, l’uovo di Colombo per gli italici furbetti, rassegnare le dimissioni adducendo una giusta causa, permettendo così il diritto alla Naspi.
Bisogna però ricordare che l’Inps, all’alba della pronuncia della Corte, era immediatamente intervenuto per indicare5 le fattispecie riconducibili a dimissioni per giusta causa, come nel tempo disegnate dalla giurisprudenza:
mancato pagamento della retribuzione;
aver subito molestie sessuali nei luoghi di lavoro;
modificazioni peggiorative delle mansioni lavorative;
opotesi di mobbing, intendendosi per tale la lesione dell’equilibrio psico-fisico del lavoratore, a causa di comportamenti vessatori da parte dei superiori gerarchici o dei colleghi (per tutte, Corte di Cassazione, sentenza n. 143/2000);
notevoli variazioni delle condizioni di lavoro a seguito di cessione dell’azienda (Corte di Giustizia Europea, sentenza del 24 gennaio 2002);
spostamento del lavoratore da una sede aziendale ad un’altra, senza che sussistano le “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” (Corte di Cassazione, sentenza n. 1074/1999);
comportamento ingiurioso posto in essere dal superiore gerarchico nei confronti del dipendente (Corte di Cassazione, sentenza n. 5977/1985).
A fronte di tali ipotesi ben definite, il lavoratore per richiedere la disoccupazione, deve inoltre allegare la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà da cui risulti la sua volontà di “difendersi in giudizio” nei confronti di un comportamento illecito del datore di lavoro, nonché altri documenti quali diffide, esposti, denunce, citazioni, ricorsi d’urgenza ex art. 700 c.p.c., sentenze od ogni altro documento idoneo, e deve impegnarsi a comunicare l’esito della controversia giudiziale o extragiudiziale.
Nella prima ipotesi, in caso di mancato pagamento della retribuzione6, è stato precisato che non deve trattarsi di un caso estemporaneo, un momento di difficoltà economica dell’azienda, ma di un fatto reiterato, traducibile in almeno tre mensilità consecutive.
Pertanto, se pretestuosamente, il lavoratore che voglia dimettersi e contestualmente preservare il diritto alla percezione della Naspi, adducesse alla giusta causa, magari per un solo giorno di ritardo dello stipendio; il datore di lavoro ed il professionista che lo segue, non devono cadere in tentazione.
La procedura corretta da seguire è:
accettare le dimissioni ricevute, se formalmente corrette nella procedura attuata;
non considerare la causale della “giusta causa” (una volta verificato che effettivamente sia meramente pretestuosa);
indicare sul modello Unilav “dimissioni senza preavviso”;
trattenere in busta paga il mancato preavviso del lavoratore.
Se il lavoratore, nell’addurre le dimissioni, fosse certo della bontà della gravità del fatto che lo ha costretto a rassegnarle nella forma della giusta causa, dovrà comprovarlo in giudizio.
Il problema sembrerebbe risolto, per ricorrere alle dimissioni per giusta causa, ed ottenere così la Naspi, è il lavoratore che deve dimostrare la bontà della motivazione e della sua gravità; in mancanza, si tratta di dimissioni tout court prive di preavviso, con tutte le conseguenze del caso.
Ma nulla invece è risolto, se la prima strada non è percorribile, viene subito proposta una seconda via, un’altra scorciatoia per ottenere, ingiustamente, l’indennità di disoccupazione.
Di cosa si tratti è presto detto, attivare comportamenti “scorretti”, che inducano il datore di lavoro a procedere con un licenziamento disciplinare.
Ma come, il lavoratore indisciplinato, può ricevere la disoccupazione? Certo, in tal senso si è infatti espresso il Ministero del Lavoro con interpello7 sollevato dalla CISL.
“Appare conforme al dato normativo, specie in ragione della nuova formulazione, considerare le ipotesi di licenziamento disciplinare quale fattispecie della c.d. “disoccupazione involontaria” con conseguente riconoscimento della NASpI.”
Il ragionamento parte dall’assunto che l’adozione del provvedimento disciplinare, è sempre rimesso alla libera determinazione e valutazione del datore di lavoro e costituisce esercizio del potere discrezionale8.
L’Inps9 accetta tale percorso giuridico e pertanto procede con l’erogazione della Naspi in caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, licenziamento disciplinare appunto, quale causa di disoccupazione involontaria.
Ed eccoli quindi i lavoratori insofferenti alla prestazione lavorativa, che, passando ai dettami della nuova moda, iniziano ad arrivare in ritardo, oppure a presentare certificati medici tutti i venerdì o tutti i lunedì, o che, molto più semplicisticamente, decidono di non recarsi più nel posto di lavoro, senza dare alcuna comunicazione e spiegazione al proprio datore di lavoro.
Concentriamoci sulla sparizione dei lavoratori, fenomeno che per certi versi dovrebbe essere analizzato anche dalla trasmissione “Quark” e per certi altri dalla trasmissione “chi l’ha visto”.
Con la precedente riforma Fornero L. n. 92/2012, la procedura delle dimissioni era profondamente diversa, infatti le dimissioni cartacee dovevano essere seguite da una convalida telematica; in caso di inerzia del lavoratore, il datore poteva formalmente sollecitarlo a procedere e di fronte al perdurare del silenzio, scattava l’irrevocabilità delle dimissioni.
Si tratta a ben vedere di una norma “perfetta”, nel senso di norma che prevede le conseguenze del fare, ma anche quelle del non fare.
Si era cioè in un certo senso, posto una soluzione pratica ai facta concludenda, cioè a quegli atteggiamenti univoci, di manifestazione della volontà e, nel caso specifico, alla volontà di dimettersi.
Norma abrogata, problematica ripristinata.
Dobbiamo qui ricordare una nuova fonte del diritto, che il legislatore al tempo delle preleggi aveva bellamente trascurato, ci si riferisce all’uso delle FAQ da parte del Ministero del Lavoro, una nuova forma documental-telematica che esplicita la posizione del Ministero.
Nella fattispecie ci si riferisca alla n. 33 rinvenibile sul sito di clicklavoro, che tiene a sottolineare come le dimissioni debbano essere rassegnate esclusivamente per il tramite della procedura telematica e con il modello previsto dal DM 15 dicembre 2015, in mancanza deve essere il datore di lavoro ad intervenire rescindendo il rapporto di lavoro.
Errori da non commettere: sembra che la contromossa suggerita sia quella di lasciare il lavoratore in un limbo temporale, assente ma non licenziato, ibernato nell’iperspazio impedendogli così di presentare la domanda di percezione della Naspi in mancanza dello status di disoccupato.
Si assiste cioè al fenomeno del lavoratore assente ingiustificato, non retribuito, non contribuito, ma in forza comunque sul libro unico del lavoro per mesi e mesi, una snervante prova di forza in attesa che alla fine desista e rassegni correttamente le proprie dimissioni, magari perché nel frattempo ha trovato nuova collocazione e quindi necessita di essere assunto presso altro datore di lavoro.
Per quanto possa essere una soluzione apparentemente affascinante, una controffensiva del datore di lavoro, risulta essere particolarmente pericolosa per lo stesso.
In primis, l’assenza priva di motivazione ha una sua ben determinata collocazione all’interno di tutti i Ccnl, rientra cioè nelle procedure disciplinari, è quindi condizione necessaria per attestare l’assenza e l’ingiustificatezza della stessa.
Qualcuno ha provato a sostenere anche la possibilità di aprire la procedura secondo quanto disciplinato dal singolo CCNL applicato, senza però arrivare alla sanzione espulsiva, fermandosi ad una sospensione senza retribuzione; ma il contratto prevede un limite massimo in questo caso, nella generalità dei casi la sospensione disciplinare può avere una durata massima di dieci giorni (per alcuni CCNL anche meno), e dopo? Il lavoratore rimane assente ingiustificato non retribuito.
In entrambi i casi, cioè sia che venga attivata la procedura disciplinare, sia che non venga attivata, lasciare il lavoratore nel limbo della sospensione comporta dei rischi non indifferenti per il datore di lavoro.
L’assenza del lavoratore risulta nei fatti “giustificata” per il datore di lavoro per sua espressa inattività, ancorché espletata la procedura disciplinare, mettendolo a rischio di molteplici possibilità.
Potrebbe esserci infatti una ripresa contributiva da parte dell’ente per i periodi non lavorati, oppure un eventuale successivo certificato medico del lavoratore (ad esempio di infortunio non professionale accorso durante la partitella di calcio con gli amici, o di stato interessante della lavoratrice), oppure una lettera da parte del sindacato che intima l’azienda a ripristinare il rapporto di lavoro a seguito di prolungamento di una sospensione al di fuori delle casistiche del CCNL ed a questo punto per fatti non imputabili al lavoratore stesso, con la pretesa dei mancati stipendi; giusto per fare alcuni scenari.
Orbene, non potendo in alcun modo sostenere le dimissioni per fatti concludenti, il datore di lavoro dovrà necessariamente attivare la procedura disciplinare per assenza ingiustificata ed arrivare al licenziamento disciplinare.
Si tratta dell’unica corretta procedura applicabile, per la felicità delle FAQ ministeriali che trovano compiuta applicazione e per l’infelicità delle tasche dei datori di lavoro e dello stato.
Vero è infatti che il datore di lavoro, in caso di licenziamento disciplinare, debba versare all’Inps una somma pari al quarantuno per cento del massimale mensile della NASpI per ogni dodici mesi di anzianità aziendale maturata negli ultimi tre anni e, pertanto, per una persona con un’anzianità lavorativa di tre anni o più, la tassa a carico dell’azienda raggiunge quasi i 1.500 euro.
Altrettanto vero è che l’assenza improvvisa del dipendente, costringe l’azienda a procedere con una repentina riorganizzazione del lavoro e con l’eventuale ricerca di un sostituto in fretta e furia, con tutti i costi che ne conseguono.
Ma è bene sottolineare che l’azienda non ingenua ha modo di recuperare, almeno in parte, il costo che sostiene.
Prima di tutto trattandosi di licenziamento giusta causa per assenza ingiustificata, si procede alla trattenuta del mancato preavviso.
Poi si può pacificamente parlare di danno subito dall’azienda che, in tal senso può essere attivato nei confronti del lavoratore procedendo con il recupero dei costi sostenuti.
È suggeribile, quanto meno per una questione di opportunità procedurale, prevedere nei regolamenti aziendali delle “penali”.
Quando si parla di penale, si intende una clausola contrattuale, ai sensi degli artt. 1382 cc e seguenti, dove vengono disciplinati gli effetti di un inadempimento in modo diverso da quello legale, concordando, grazie all’autonomia negoziale, una preventiva e convenzionale forma di liquidazione del danno.
Siffatta penale meramente risarcitoria è dovuta, per espressa previsione normativa, indipendentemente dalla prova del danno, agevolando quindi non poco l’azione, in questo caso, dell’azienda e sottraendola dalla disciplina generale di cui all’artt. 1223 e seguenti del codice vivile (il risarcimento del danno).
Con un ulteriore vantaggio, l’importo a titolo di penale, può essere recuperato dal datore al lavoratore, mediante trattenute sulla retribuzione, anche per importi superiori al quinto, in quanto trattandosi di crediti contrapposti aventi l’origine da un unico rapporto, possono seguire la compensazione atecnica tra gli stessi10.
Certo, alla fine di tutto e per i successivi ventiquattro mesi, l’indennità Naspi spetterà al lavoratore che furbescamente ha perso il posto di lavoro per causa a lui imputabile e quindi per motivi disciplinari, ma è bene anche ricordare che si tratta di una frode alla legge per l’indebito pagamento da parte dell’Inps11 e sia mai che la macchina pubblica intervenga successivamente in tal senso, sostenendo anche il dolo del lavoratore ed avvallando l’eventuale truffa ai danni dello Stato12.
1 Art. 2 comma 4 lettera b) Legge n. 92 del 28 giugno 2012.
2 Le modalità procedurali sono individuate nel D.M. 15 dicembre 2015 entrato in vigore il 12 marzo 2016.
3 Analisi studi Cgia Mestre.
4 C. Cost., sentenza n. 269 del 24 giugno 2002.
5 Inps, circolare n. 97 del 4 giugno 2003 e n. 163 del 20 ottobre 2003.
6 Vedasi anche Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro parere n. 5 del 15 febbraio 2010.
7 Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, Interpello n. 13 del 24 aprile 2015.
8 Corte di Cassazione n. 4382/1984.
9 Inps, Circolare n.142 punto 3 del 29 luglio 2015.
10 Art. 1241 cod.civ..
11 Art. 2033 cod.civ..
12 Art. 640 comma 2 n.1 cod.pen..