Capita spesso, a noi della redazione o del Centro Studi, di incrociare qualcuno – di persona o sui social – che commenta l’articolo tale, la proposta talaltra, che dibatte su un aspetto dottrinale, insomma che ha qualcosa da dire, anche critica, su qualche nostro articolo. Certe volte questi scambi hanno una ricchezza che non vorremmo disperdere e che desidereremmo continuasse come un ideale filo di dialogo con chi ci legge e rimane interessato o colpito dalle riflessioni che pubblichiamo. Per questo apriamo uno spazio di dialogo, aperto agli interventi dei lettori: non è una rubrica, potrà esserci o non esserci a seconda di cosa ci perviene e dell’ insindacabile giudizio di pubblicazione della redazione. È una forma di ringraziamento e restituzione, infine, a chi ha la bontà di seguirci.
L’indirizzo e mail della redazione è il seguente: redaz.sintesi@gmail.comLa redazione
Dott. Asnaghi,
Ho letto con particolare interesse il “Senza Filtro” uscito su Sintesi di ottobre a Sua firma.
I giovani mi sono un tema caro; i giovani lavoratori ancor più.
A premessa, constatate le legittime ragioni del Sig. Carlo, che risulta anche l’attore positivo ed empaticamente simpatico, io, quale potenziale genitore di Pippo vorrei porre alcune osservazioni ed alcuni ragionamenti che introduco subito, saranno a comprensione di giovani lavoratori.
Pippo, si comprende, sta svolgendo un processo di apprendistato e per età potremmo collocare il giovane indicativamente tra quelli “del ‘95” o del “2000”, coloro che hanno inconsapevolmente vissuto un passaggio epocale di cultura e valori.
Tali giovani, cresciuti ed educati da televisioni, tablet, videogiochi e baby parking, spremuti in molteplici e spesso inutili attività, occupando il tempo anziché impiegandolo, tutelati da genitori invadenti, senza spazi di noia, di creatività, di errori e di esperienza autonoma. Virtuosi di troppi diritti e sostegni e di pochi doveri, con uno squilibrio che la dignità l’ha proprio accantonata.
Questi giovani, queste farfalle, con le ali ancora umide ai raggi del sole, vivono riforme scolastiche che da un anno ad un altro gli rendono provvisorio ed incerto il percorso di studi finanche a rendere imprevedibile l’esame di maturità. I programmi scolastici sempre più nozionistici e sempre meno culturali, omologano i nostri giovani considerandoli “malati” quando non si mostrano conformi. In questa particolare fase essi hanno il primo approccio ad una vita professionale futura con, a parere personale, la sopravvalutata alternanza scuola-lavoro (o, alternanze) che, mi si perdoni la concessione tutta labronica, è una gran bischerata. Incorniciata da legislatori e da soloni da convenieristica, entusiasti di un modello francese e tedesco evidentemente poco approfondito e meno ancora vissuto, vestito da domenica affinché fosse meno amara la pillola da ingoiare: essere usati dal mondo del lavoro. E da questo buongiorno che Pippo mentre si sta diplomando vede il fratello maggiore saltare da un tirocinio (ove l’elemento formativo è retorico) ad un volontariato curriculare, da un corso di formazione ad una chiamata; egli un tempo firmò anche un contratto a termine per un bel bar in centro: ad una attenta lettura sottoscrisse invero un contratto per una cooperativa che appaltava lavoratori a 5,64 euro lorde orarie.
Quando Pippo entra nel mondo del lavoro lo fa alla grande: farà un bell’apprendistato, avrà una meta, è persino un passo avanti al fratello che ora è riuscito ad “entrare” al servizio civile.
Pippo incontra Carlo e la realtà del suo organico, fatta di persone che hanno cavalcato le riforme del mercato del lavoro, la Treu, la Biagi e seguenti, quelle che hanno impostato una flessibilità, liberalizzando un mercato del lavoro che ancora non la chiedeva, ma che la finanza avara già proponeva. Carlo ed i suoi lavoratori mantengono saldo un imperativo della vita dell’uomo: il mestiere. Quello che richiede tempo e sviluppo, noia e creatività, abnegazione e sacrificio, nel suo termine sublime, rendere sacro ciò che si fa, garantirgli esponenzialmente valore. Questo però Carlo lo realizza, non lo scrive su Instagram mentre si mostra palestrato e con il pollice verso in officina. La comunicazione passa sbagliata perché ignorata. Pare più uno sfigato, seppur egli testimonia con la sua presenza costante e giornaliera, “IL” lavoro, ed è felice di un passaggio generazionale, l’apprendistato è un po’ come crescere professionalmente un figlio ed il progetto lo rende orgoglioso. Anche Pippo inizialmente lo è: pensa di salire qualche piano di quell’ascensore sociale che pensava inchiodato e forte della sua giovane energia, di realizzarsi. Dura poco, il “mestiere” chiede un tempo, una pazienza ed una applicazione che Pippo non conosce, non comprende che risultati apprezzabili non siano immediati. Che la soddisfazione arriva dopo l’impiego e l’esperienza.
Prova a spiegarglielo il padre, non credibile, perché sta concludendo una flessibilità in uscita dopo 30 anni di lodevole impegno in una azienda acquistata da una multinazionale che sta esternalizzando il reparto e delocalizzando parte della produzione.
Pippo diventa ostile e capriccioso, intollerante ad essere corretto, guidato e ripreso. Carlo diviene così la versione umana del sistema, che i rappers descrivono come antagonisti, Marisa la identifica con la madre, più attenta ai selfie da tardiva ed immatura “giovinezza” che ai disagi del figlio, Gigi riveste quell’autorevolezza che viene scambiata per autorità. In tale solitudine emozionale il babbo dell’amico fraterno è sindacalista, ma non quello che ha ben presenti i principi del movimento operaio dei primi decenni del XX secolo e la sua evoluzione, ma quello che funge da anello di distruzione dei rapporti professionali, colui che ragiona sulle perdite da infliggere piuttosto che sui successi da collezionare, che seduce alimentando l’unico canale noto a Pippo: più diritti meno doveri e nessuna responsabilità. La fuga quale soluzione: un certificato medico ed una spaventosa lettera di accuse, senza un confronto, una parola, una telefonata a Carlo e, sono certa senza essersi mai lamentato prima di nulla. La dignità che Pippo non sa riconoscere per sé stesso, ineducato ad essa, non sa proporla a Carlo, in un confronto intelligente ed umano.
Se Pippo venisse interrogato, questa sarebbe la sua probabile risposta, quale portavoce dei giovani: siete voi che ci avete voluto così.
Ed in questo voi ci riconosciamo noi, in coloro che tanto hanno tardato a clampare e recidere il funicolo, che proiettano sui giovani le proprie paure, che hanno svuotato il valore del lavoro del suo contenuto, della sua efficacia nell’esprimere il talento, l’affermazione e la libertà dell’uomo.
Una dignità diffusa è un obbiettivo doverosamente da realizzare.
Ma non sarà mai con la tensione dei due capi di un elastico in tiro.
Che è semplicemente ciò che di questi tempi accade: l’esasperazione del conflitto quale forma di comunicazione. Da qui poi la comprensione è tutta una incertezza.
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Cara Lucia,
grazie anzitutto. Suscitare riflessioni è ciò che un autore si propone, è bello constatare quando avviene.
Su una cosa concordo subito con te: raccontando la storia, Pippo (letteraccia a parte) rimane un po’ sullo sfondo, emergono di più Carlo e, se vogliamo, i tanti cattivi consiglieri di Pippo. Viene spontaneo ad un genitore pensare con rammarico e preoccupazione a Pippo e alla sua storia, qui fallita, ma al cui futuro – pur cominciato male – non possiamo che augurare bene.
Ma proprio per il bene di Pippo, e di quelli come lui, se dobbiamo (e dobbiamo) dare loro una massima attenzione e disponibilità, finanche allo spasimo, quello che proprio non possiamo fornirgli sono gli alibi.
Non gli alibi delle leggi che hanno modernizzato il mondo del lavoro: non sono quelle (obiettivamente) che hanno creato la precarietà che oggi constatiamo. Chi lo dice è in malafede (e con questa malafede ha pure ucciso).
Non gli alibi dei datori scorretti e dei lavori da sfruttamento (che ci sono, e che l’articolo ha puntualmente ricordato), perché qui stiamo parlando di un’offerta seria.
Non gli alibi della scuola inefficiente e fumosa o di una società smarrita: perché alla fine l’impegno è il tuo e dare le colpe agli altri non serve a nulla se non a giustificarsi puerilmente.
Non gli alibi dell’alternanza, che sicuramente non funziona come un orologio svizzero ma che è un’occasione concreta per capire qualcosa di più. E chi parla di lavoro sfruttato (perché non sa cosa sia il lavoro, probabilmente) non sa cosa vuol dire per un’azienda avere “un fantasmino” in giro per una settimana : è un impegno ed un rischio, non un vantaggio.
E neanche gli alibi dei cattivi consiglieri: perché a venti, venticinque anni una bugia sei in grado di comprenderla da solo.
Poi i rappers e i freestylers possono continuare a cantare della loro infelicità e del loro smarrimento (a me fa un po’ ridere che qualcuno lo faccia col Rolex al polso o con vestiti da migliaia di euro…), ma lo sfigato di professione non è un modello esistenziale che consiglierei ai miei figli.
E quindi, con tutta la preoccupazione (che comprendo e condivido, cara Lucia) di un genitore che vede un mondo ed un Paese andare verso direzioni pericolose, ripeto: ai nostri figli diamo tante possibilità, lottiamo perche le abbiano, facciamo il possibile per arginare ingiustizia, pressapochismo e cialtroneria. Diamogli una visione e degli obiettivi, degli ideali; o meglio, invitiamoli a sviluppare i loro, comprendiamoli anche se sono (naturalmente) diversi e distanti dai nostri. Diamogli il cuore. Ma gli alibi, no.
Un abbraccio.