Il mondo del lavoro del nostro Paese paga un grande tributo in termini di illegalità nel proliferare di una miriade di somministratori abusivi di manodopera, cooperative o altre strutture societarie che siano. Ingenti guadagni ed una molteplicità di interessi sono collegati a questi fenomeni di sfruttamento dei lavoratori, magari in situazione di bisogno, che non di rado si intrecciano con altre pratiche ad alto coefficiente di elusione o evasione.
Potremmo parlare di “caporalato in guanti bianchi” perché, senza che il fenomeno sfoci nel reato di cui all’articolo 603 bis del codice penale (che, sia pure con gli ampliamenti della L. n. 199/2016, sembra circoscriversi alle situazioni più estreme di sfruttamento ed intimidazione), l’intermediazione illecita rappresenta una fattispecie perversa e pericolosa, sia per la depressione delle tutele economiche e di sicurezza sociale dei lavoratori che ne deriva, sia per l’ingenerarsi di catene e filiere non virtuose che minano la concorrenza leale, a tutto svantaggio degli operatori sani.
Notizie in tal senso si susseguono in continuazione, addirittura con connessioni con la criminalità organizzata, ma molto maggiore di ciò che viene alla ribalta è il sommerso che non viene intercettato, o viene sorpreso solo in fase avanzata o tardiva.
In questo contesto, chi scrive in passato denunciò un rischioso passaggio degli attori del Jobs Act che – nella riscrittura delle norme sulla somministrazione, trasportate senza modifiche particolarmente significative nel “Codice dei Contratti” D.lgs. n. 81/2015 – decisero di non riproporre la fattispecie della somministrazione fraudolenta di cui all’art. 28 del D.lgs. n. 276/03 (forse l’unico articolo del Decreto legislativo Biagi, relativamente al contratto di somministrazione di lavoro, non trasposto nel nuovo testo), in quanto ritenuta casistica di difficile applicazione: trascuratezza volontaria, chè in tal senso si lesse un’esplicita dichiarazione nella relazione parlamentare accompagnatoria al testo di legge. Un brutto segnale, che di lì a poco tempo faceva il paio con la depenalizzazione operata dal D.lgs. n. 8/2016, il quale – nell’ambito di un’azione invero generalizzata – tuttavia interveniva anche sulla fattispecie sanzionatoria dell’art. 18, co. 5 bis del D.lgs. n. 276/03 – inerente appalto e distacco non genuini. A causa di questa duplice combinazione, non solo l’intermediazione illecita smetteva di essere perseguita penalmente, ma si rendeva difficile anche un’azione terza (normalmente su impulso ispettivo) di costituzione del rapporto in capo all’utilizzatore effettivo, lasciandone la facoltà solamente alla ben più debole (ed in più di un caso anche pesantemente coercibile) iniziativa individuale del lavoratore, attivabile per via giudiziale. In compenso, veniva penalizzata la violazione episodica. E ciò pur mantenendo formalmente l’identica quantificazione sanzionatoria (l’ammenda di euro 50 al giorno per ogni lavoratore occupato era mantenuta, trasformandosi tuttavia in sanzione amministrativa).
Infatti, il D.lgs. n. 8/2016, non solo prevedeva la depenalizzazione, ma, in tema di sanzioni amministrative, si adeguava alla normativa europea prevedendo – per le sanzioni che, come quella sull’appalto illecito, agiscono in maniera cumulativa – un minimo sanzionatorio di euro 5.000 ed un massimo di euro 50.000; si noti peraltro che tali limiti, come per qualsiasi sanzione amministrativa, sono ridotti ad un terzo (con estinzione completa della violazione) in caso di pagamento conciliativo in misura ridotta ex art. 16 L. n. 689/81.
Gli effetti perversi di tale passaggio normativo possono essere riassunti con qualche semplice paragone esemplificativo.
Il datore di lavoro che avesse effettuato un distacco illecito di due lavoratori per un paio di giorni, con la precedente norma sarebbe stato onerato di un pagamento di euro 200 (euro 50 per ogni giorno di effettivo impiego di ciascun lavoratore), eventualmente oblabile ad un quarto, ovvero ad euro 50. Con la depenalizzazione, la medesima violazione è ora punita in via amministrativa con un minimo di euro 5.000 (25 volte tanto!), sia pure conciliabile con il pagamento di un terzo (euro 1667, ovvero circa 34 volte tanto la precedente definizione).
L’appaltatore illecito che avesse messo in piedi per un paio d’anni una somministrazione di 30 lavoratori (caso meno infrequente di quel che si creda e fenomeno quasi sempre collegato ad episodi di profonda depressione delle tutele lavoristiche) prima sarebbe stato onerato da un’ammenda pari ad euro 720.000 circa, mentre ora verrebbe esposto al più alla sanzione (massima) di euro 50.000, definibile con euro 16.667, cifra molto inferiore al guadagno illecito che la messa a disposizione di quei lavoratori ha fruttato nel periodo considerato a committente ed appaltatore fittizi.
La sproporzione sopra evidenziata risulta ancora più evidente laddove si pensi che alla medesima sanzione sono esposti sia il finto appaltatore che l’utilizzatore.
In pratica, dalla deterrenza alla insipienza.
Tornando alla somministrazione fraudolenta, ed alla mancanza di una norma attiva, dobbiamo per fortuna constatare come la giurisprudenza, invero, avesse messo nel frattempo qualche rimedio alla situazione con sentenze che – rimandando ora al principio della “effettività della prestazione” (Cass. Civ., sez. Lavoro, n. 22894/2011), ora agli artt. 1343 e 1344 c.c. sulla illiceità o elusività della causa del contratto – perveniva al medesimo effetto riequilibrante gli interessi in gioco, ovvero la ricostituzione del rapporto di lavoro fra il lavoratore e il falso committente, reale datore di lavoro occultato dall’intermediatore truffaldino. Dobbiamo tuttavia osservare che queste azioni sono in realtà percorsi di mediata praticabilità, svolgendosi con tempistiche lunghe e talvolta pure con iter tortuosi, e quindi inidonei ad un ristoro che tanto più è efficace quanto più è sicuro ed ha soluzioni di sbocco immediate.
In realtà, a parere di chi scrive, già con la separazione e la scrittura parallela operata dal Jobs Act si rompeva il delicatissimo equilibrio del D.lgs. n. 276/03, che poneva somministrazione e appalto (e in misura più sfumata, distacco) come le due alternative lecite alla triangolazione del rapporto di lavoro (la prima caratterizzata da un “dare”, la seconda da un “fare”) tanto che l’assenza di genuinità della seconda faceva ricadere la fattispecie quasi automaticamente nella somministrazione illecita (o, appunto, fraudolenta).
Dovremmo pertanto salutare favorevolmente la reintroduzione della somministrazione fraudolenta? A parere di chi scrive, è meglio trattenere facili entusiasmi.
Infatti, nel riproporre, come art. 38 bis del D.lgs. n. 81/2015, la somministrazione fraudolenta nei medesimi, assolutamente identici, termini in cui la stessa era stata abrogata, il “Decreto Dignità” D.l. n. 87/2018 compie un’operazione di “archeologia normativa” che però rischia di essere poco efficace e di non centrare la questione reale per due motivi differenti.
Il primo è che, significativamente, la maggior parte delle osservazioni interpretative sul ripristino della norma in argomento si è concentrata su casi di somministrazione (autentica, e quindi messa in atto dalle agenzie autorizzate) che in qualche modo fossero posti in essere per eludere (ad esempio) la più stringente normativa sul contratto a termine introdotta dal medesimo Decreto; in tal modo, i commenti sono andati a sorprendere casistiche obiettivamente abbastanza accademiche, senza contare che in ogni caso sempre di somministrazione di lavoro si tratta, e quindi con una serie di garanzie economiche e di sicurezza sociale del tutto paragonabili, anzi identiche, a quelle dell’utilizzatore (in realtà, a ben vedere, nel D.l. n. 87/2018 si può sorprendere un grande disfavore verso la somministrazione a tempo determinato, vista come una forma deteriore di precarietà e pertanto accostata tout court al tempo determinato, senza tenere in pregio la fondamentale funzione di incontro, serio, fra domanda ed offerta di lavoro e di promozione occupazionale svolta dalle agenzie per il lavoro, sia pure strutture private).
In secondo luogo, e proprio per quanto detto finora, risulta poco scalfito il vero problema e cioè l’intercettazione e la repressione della costruzione di strutture contrattuali ed organizzative interpositorie; senza contare che, nelle forme di elusione più evoluta, spesso viene abbandonano lo schema contrattuale classico dell’appalto, declinando verso accordi commerciali del tutto atipici, oppure in contratti associativi, consortili o di rete; e ciò proprio per cercare di evitare quelle forme di tutela introdotte “solo” verso l’appalto (salvo quanto diremo più avanti) e, come contraltare di non genuinità, nella somministrazione illecita.
Ad onor del vero, infatti, la critica che ha portato all’abbandono della fattispecie ora ripristinata (cioè di una scarsa praticabilità concreta dell’ipotesi di somministrazione fraudolenta) non era del tutto infondata. In particolare, e salvo casi marchiani, diventava arduo sorprendere o dimostrare nelle attività illecitamente interpositorie quel dolo specifico, quel “consilium fraudis”, che solo avrebbe potuto dar luogo all’azione penale e soprattutto, ciò che più importa, liberare da subito la costituzione di un rapporto di lavoro ex tunc in capo all’utilizzatore, annullando gli effetti dell’azione di intermediazione illecita.
E’ quindi il caso di affermare che sia nella fase del Jobs Act (e forse anche in quella precedente), ma a maggior ragione nella situazione attuale, un Legislatore più attento su questo tipo di fenomeni e sensibile alle ricadute perverse che abbiamo ricordato all’inizio avrebbe dovuto – invece che abrogare prima, e ripristinare poi, una norma poco esigibile – rivisitare la materia dandole una forma più sistematica e compiuta.
Da tempo il Centro Studi e Ricerche dei Consulenti del Lavoro di Milano ha formulato proposte in tal senso, ad esempio proponendo di estendere le norme di garanzia non solo all’appalto ma a tutti i fenomeni anche solo latamente esternalizzatori (in cui vi sia, in buona sostanza, un impiego significativo di manodopera), nonché andando a regolare in maniera precisa la casistica estremamente insidiosa dei cambi di appalto.
Come detto in precedenza, infatti, oggi l’esternalizzazione presenta molteplici aspetti che possono celare altrettante perdite di tutele (e, correlativamente, di guadagni illeciti sulla pelle dei lavoratori ivi occupati).
E allora, perché (ad esempio) non estendere le norme sull’appalto (come la responsabilità ex art. 29 D.lgs. n. 276/03 o le sanzioni specifiche, anche ricostitutive del rapporto) anche a fattispecie contrattuali “commerciali” (talvolta agite in modo non genuino ed elusivo) quali: affidamento o assegnazione di opere o servizi nell’ambito di attività consortili o di reti di impresa, associazione in partecipazione fra imprese ed altri contratti di tipo associativo, servizi integrati o globali di trasporto e logistica (ora oggetto, in tema di responsabilità solidale sui crediti di lavoro e contributivi, di una noma ad hoc di scarsa efficacia), nolo a caldo, somministrazione di beni o servizi o forniture con posa in opera in caso di rilevante percentuale di manodopera, etc. ? Peraltro proprio recentemente, sia pure limitatamente al caso specifico della sub-fornitura, anche il Giudice delle leggi (Corte Cost., sentenza n. 254/2017) ha offerto una lettura fortemente estensiva delle tutele riservate in via normativa all’appalto, in ragione di un condivisibile richiamo ai principi di tutela del lavoro propri della Costituzione italiana verso qualsiasi lavoratore esternalizzato.
E perché, invece di deprimere (come da D.l. n. 25/2017 del passato recente, ciecamente supino rispetto all’iniziativa referendaria che ha inteso intercettare) non si incentivano attività di auditing e di controllo preventivo, o di buone prassi, volte alla certificazione delle filiere autentiche e virtuose di esternalizzazione ed alla prevenzione dei fenomeni borderline, piuttosto che ancorarsi solo ad una legislazione repressiva che – per oggettiva scarsità di mezzi – risulta poco e tardivamente efficiente?
Invece sull’appalto e sulla somministrazione vi è da tempo un isterico andirivieni di norme (tanto per dire, negli ultimi sei anni anche solo le regole sulla responsabilità solidale hanno subito circa una decina di modifiche) tuttavia mai risolutive, mai organiche, oscillanti fra l’ideologia ed il lassismo.
Anche la prassi cerca di seguire, con fatica, il fenomeno: solo nel 2018 l’Ispettorato Nazionale del Lavoro è intervenuto – anche con qualche licenza interpretativa – a varie riprese (in particolare, con le circolari n. 6, 7 e 10, rispettivamente sulla responsabilità nella sub-fornitura, sull’intermediazione o distacco illecito in contratti associativi e di rete, sulla responsabilità solidale contributiva negli appalti illegittimi), dando la sensazione di voler dare e acquisire certezze su una materia sfuggente ex defectu agentis, cioè per l’inerzia del Legislatore. A riprova del fatto che l’argomento è sentito, e non potrebbe essere altrimenti, ma che gli interessi in gioco (che inevitabilmente spingono in direzioni diverse) sono tanti. Con il risultato, purtroppo consueto nel panorama giuslavoristico, di norme anche ingombranti ed onerose per chi vuole stare alle regole del gioco, ma facilmente eludibili da chi le vuole sistematicamente aggirare.