L’attrazione dei comportamenti datoriali nell’area dei fatti penalmente rilevanti mostra negli ultimi anni una decisa affermazione in conseguenza delle sempre più numerose pronunce della Suprema Corte di Cassazione, chiamata di volta in volta a delineare la linea di confine fra l’esercizio legittimo della libertà contrattuale delle parti e la deriva della condotta datoriale, lesiva della dignità e della libertà – intesa come autodeterminazione – dei lavoratori.
Oggetto del vaglio giudiziale sono state principalmente tutte quelle ipotesi in cui il datore di lavoro ha imposto ai propri dipendenti condizioni di lavoro inique, per esempio corrispondendo in maniera reiterata retribuzioni palesemente difformi dai contratti collettivi di riferimento o comunque retribuzioni sproporzionate ed inadeguate rispetto alla quantità e qualità di lavoro prestato nonché quelle ipotesi in cui il lavoratore viene indotto a rinunciare ai propri diritti. L’imposizione di condizioni contrattuali inique ed illegittime pu ricondurre la condotta datoriale nella fattispecie delittuosa dell’estorsione di cui all’art. 629 c.p., che definisce come estorsiva la condotta di colui che “mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o da altri un ingiusto profitto con l’altrui danno”, riconducendo, dunque, la configurabilità del reato alla contestuale sussistenza di due elementi: la violenza o minaccia e l’ingiustizia del profitto conseguito dal datore di lavoro in danno del lavoratore.
La minaccia estorsiva si qualifica come prospettazione di un futuro pregiudizio ai beni inerenti alla sfera giuridica patrimoniale altrui, dalla quale derivi, presso un soggetto di normale impressionabilità, uno stato di condizionamento morale che lo induce al compimento di un’azione o di un’omissione, voluta dall’agente, nella convinzione che il danno che gli deriva sia inferiore a quello che egli stesso subirebbe in relazione al verificarsi del male prospettato. Affinché la minaccia integri il reato di estorsione, e non quello di violenza privata ex art. 610 c.p. o di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ex art. 393 c.p., è necessaria la sussistenza dell’elemento soggettivo del datore di lavoro, consistente nell’intento di arrecare a sé o ad altri un profitto consapevolmente ingiusto, con coscienza che il comportamento preteso, ed il conseguente vantaggio, non è giuridicamente dovuto. Secondo l’orientamento costante dei giudici di legittimità, ribadito anche da ultimo nella sentenza n. 3724/2022, non si richiede che la minaccia si risolva in una coartazione assoluta della volontà del lavoratore, poiché lo stesso concetto di minaccia, quale elemento costitutivo della fattispecie delittuosa, lascia al lavoratore la scelta finale tra l’accettare le condizioni di lavoro imposte dalla parte datoriale o subire il male minacciato, risultando così condizionato il potere di autodeterminazione del lavoratore. Nel caso esaminato nella prefata sentenza, nelle e-mail che il datore di lavoro inviava ai propri dipendenti, dopo aver impartito delle direttive, veniva specificato che “se qualcuno non è d’accordo, è libero di andarsene”. Non veniva, pertanto, minacciato espressamente il licenziamento, ma ciascun dipendente era posto di fronte all’alternativa di accettare le condizioni di lavoro (inique e illegittime) imposte dal datore di lavoro o di perdere il lavoro, ancorché ci potesse avvenire per una sua scelta “volontaria”.
Dalla condotta datoriale emersa nel corso del giudizio de quo, rileva altresì la modalità di prospettazione della minaccia, che la Corte definisce come “minaccia larvata di licenzi mento”, qualificando come estorsiva la con
dotta del datore di lavoro anche in assenza di iniziative dirette in tutta evidenza a coartare la determinazione dei lavoratori ovvero in mancanza di esplicite minacce. Così, la Suprema Corte ribadisce il principio di diritto secondo cui l’idoneità della minaccia ad integrare il delitto ex art. 629 c.p. prescinde da un’effettiva ed esplicita intimidazione nei confronti del lavoratore, potendo essa manifestarsi anche in maniera implicita, indiretta e indeterminata, figurata, o presentarsi nella forma di consigli, esortazioni, comportamenti formalmente corretti. Cio’ che rileva, quindi, è che l’atto sia idoneo ad incutere timore e forzare la volontà del lavoratore nel senso voluto dal datore di lavoro.
Non vale ad escludere la rilevanza penale di siffatta condotta neanche l’eventuale esistenza di un accordo raggiunto tra le parti, anche in fase di assunzione. Infatti, non può essere una “libera pattuizione” a derubricare la condotta datoriale in un semplice illecito civile. Costituisce principio ormai consolidato, ripreso anche nella sentenza della Suprema Corte n. 18726/2016, quello secondo cui: “un accordo contrattuale tra datore di lavoro e dipendente, nel senso dell’accettazione da parte di quest’ultimo di percepire una paga inferiore ai minimi retributivi o non parametrata alle effettive ore lavorative, non esclude di per sé la sussistenza dei presupposti dell’estorsione mediante minaccia, in quanto anche uno strumento teoricamente legittimo, può essere usato per scopi diversi da quelli per cui è apprestato e può integrare, al di là della mera apparenza, una minaccia, ingiusta, perché è ingiusto il fine cui tende, e idonea a condizionare la volontà del soggetto passivo, interessato ad assicurarsi comunque una possibilità di lavoro, altrimenti esclusa per le generali condizioni ambientali o per le specifiche caratteristiche del settore di impiego della manodopera”. Ci in quanto, anche nel caso di un accordo fra le parti, il consenso del lavoratore pu risultare falsato, poiché coartato dalla minaccia di non ottenere o perdere il lavoro nel caso di rifiuto delle condizioni inique. Sempre nell’ambito dei profili di declinazione della condotta estorsiva da parte del datore di lavoro, pu rilevare l’ulteriore aspetto del condizionamento ambientale, quale elemento di valutazione della condotta datoriale, che, ancorché non rappresenti un carattere costitutivo della fattispecie penale, costituisce comunque un importante indice valutativo dell’efficacia intimidatoria della condotta datoriale, in assenza di evidenti comportamenti minatori.
In particolare, ci può accadere con riferimento a contesti occupazionali fortemente depressi ed in cui sovente si verifica una gestione irregolare dei rapporti di lavoro, ove la situazione di debolezza in cui si trovano le persone offese non è quella tipica dei lavoratori nei confronti dei datori di lavoro, ma deriva dalla grave situazione occupazionale esistente in alcuni territori (cfr. Cassazione penale n. 18727/2016), insinuando il ragionevole dubbio che il datore di lavoro intende avvalersene per l’ottenimento di un ingiusto profitto. La giurisprudenza del passato aveva utilizzato anche l’espressione “estorsione ambientale” (Tribunale di Vercelli 2/02/1995), per la quale la personalità prevaricatrice dei datori di lavoro esplicata in un contesto favorevole ad essi e sfavorevole ai lavoratori, determina che le loro richieste, pur se non accompagnate da una palese intimidazione, sottendono la minaccia di un possibile licenziamento in difetto di accoglimento, con conseguente rischio di disoccupazione, che si trasforma in presunta certezza nel contesto sopra rappresentato, idonea a coartare la volontà dei dipendenti.
Anche da ultimo la già citata sentenza della Cassazione n. 3724/2022 evidenzia come “il reato si realizza nel momento in cui il datore di lavoro prospetta la perdita del lavoro, approfittando della strutturale condizione a lui favorevole della prevalenza dell’offerta sulla domanda di lavoro”. La rilevanza delle condizioni
ambientali resta, per , confinata quale indice valutativo, non potendosi attribuire valenza costitutiva della fattispecie di reato, così come evidenziato nella predetta sentenza con cui gli Ermellini censuravano sul punto i giudici di merito per aver erroneamente escluso il reato sul presupposto che, nel caso concreto, mancava una “peculiare condizione di debolezza delle persone offese, per le particolarità del contesto economico e, specificatamente del settore alberghiero sulmonese, nonché dell’ambiente familiare di provenienza”.
La deriva della condotta datoriale che non si esplica tramite la minaccia, nelle ampie accezioni argomentate, non esclude la rilevanza penale di siffatte condotte, potendosi ricondurre il comportamento datoriale nella diversa fattispecie di cui al novellato articolo 603 bis c.p. rubricato “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” (c.d. caporalato), nella declinazione di cui al comma 1, lett. b), che punisce “chiunque utilizza, assume o impiega manodopera…sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno”.
La norma si preoccupa di individuare le condizioni lavorative che costituiscono indici dello sfruttamento, tutti connotati da palese iniquità ed illegittimità, che fungono da linee guida per aiutare l’interprete a meglio delineare il concetto di sfruttamento. La Suprema Corte di Cassazione ha avuto modo di ribadire quanto già pu desumersi dal tenore letterale della norma, ovvero che si tratta di condizioni tra loro alternative, con la conseguenza che, ai fini della configurazione del reato in commento, è sufficiente la sussistenza di uno solo degli indici riportati nell’articolo (cfr. Cassazione, sentenza n. 6905/2021).
Il cospicuo contributo delle pronunce della Suprema Corte di Cassazione penale volte a censurare le manifestazioni patologiche del comportamento datoriale evidenzia che, nonostante l’impianto di tutele che l’ordinamento giuridico ha costruito in favore della libertà e della dignità dei lavoratori, caratterizzato prettamente da illeciti di natura amministrativa, di fatto, non sempre garantisce adeguate soluzioni per contrastare quelle forme di illegalità che vanno ad incidere in modo significativo sulla capacità di autodeterminazione dei lavoratori.