La riforma dell’art. 2103 c.c., attuata con l’art. 3, D.lgs. n. 81/2015, ha coinciso con l’esplosione del fenomeno della Gig Economy 1, con innovazioni di processo e di prodotto sempre più rapide e con riflessi sulla vita sociale ed economica ancora non del tutto espressi.2
Il passaggio dalla società industriale a quella telematica3 incide soprattutto sul lavoro4, non tanto e non solo sul suo quid, ma anche sul quomodo, e probabilmente in futuro anche sullo stesso an, basti pensare all’intelligenza artificiale quale fattore di sostituzione delle prestazioni manuali labour intensive e di quelle intellettuali di tipo esecutivo.
L’Autore, con il presente contributo, analizza la riattualizzazione delle categorie legali previste dall’art. 2095 c.c. ad opera del novellato art. 2103 c.c., soffermandosi poi sulla nuova configurazione del potere del datore di lavoro di modificare le mansioni del lavoratore,
La disciplina previgente concedeva il mutamento orizzontale di mansioni a patto che le mansioni precedenti e quelle nuove fossero equivalenti: la nozione di equivalenza era stata sviluppata negli anni dalla giurisprudenza in termini restrittivi e andava intesa sia nel senso di pari contenuto e valore professionale delle mansioni sia come coerenza con il background professionale acquisito, come attitudine delle nuove mansioni a consentire l’arricchimento del patrimonio professionale del lavoratore realizzato nella pregressa fase del rapporto.
Il concetto di professionalità, dunque, includeva non solo il complesso di nozioni e perizie già acquisite, ma anche il diritto di professionalizzarsi lavorando.
Nella vigenza della precedente norma, dunque, in caso di contestazione da parte del lavoratore, il giudice, per accertare la legittimità della modifica unilaterale da parte del datore di lavoro, non si limitava a verificare l’eguaglianza retributiva e la riconducibilità delle nuove mansioni al medesimo livello di inquadramento contrattuale, ma verificava anche l’equivalenza professionale.
Nella sua attuale formulazione, frutto delle modifiche apportate dal D.lgs. n. 81/2015, l’art. 2103 c.c. prevede che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto ovvero a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero “riconducibili ➤ allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”. Elemento di novità è, dunque, l’espunzione del requisito dell’equivalenza tra le ultime mansioni svolte e quelle di nuova assegnazione: al datore di lavoro è attribuita la facoltà di modificare unilateralmente le mansioni a condizione che le nuove siano riconducibili allo stesso livello di inquadramento e categoria legale5. Ciò significa che, se in base al contratto collettivo il mutamento di mansioni non comporta alcuna variazione di livello e categoria, non sussiste alcun limite nell’assegnazione di nuove mansioni ad eccezione della non discriminazione.
Il sistema di classificazione del personale, indicato nel contratto collettivo applicato dal datore di lavoro assume così un ruolo primario, poiché costituisce l’unico parametro di riferimento per valutare la legittimità del provvedimento di modifica delle mansioni. In sostanza, la mobilità orizzontale è legittima nel rispetto di un criterio di equivalenza formale con la conseguenza che il lavoratore potrà essere assegnato a tutti i compiti ricompresi nel livello di inquadramento, per quanto espressione di una competenza eterogenea. In tal modo, si passa dalla tutela dello specifico bagaglio di conoscenze ed esperienze acquisite ad una tutela della professionalità intesa in senso più generico, tarata sulla posizione formale occupata dal lavoratore in azienda, in virtù del sistema di inquadramento. Ne consegue che il giudice non può più valutare l’equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti, ma deve limitarsi a verificare che il mutamento rimanga all’interno dello stesso livello e categoria6. La scelta normativa sottesa alla nuova formulazione sembra essere quella di garantire un maggiore grado di certezza del diritto e di limitare al massimo lo spazio interpretativo lasciato alla giurisprudenza in quanto il livello di inquadramento costituisce un parametro più sicuro rispetto a quello di equivalenza della professionalità.
La riforma dell’art. 2103 c.c. ha introdotto espressamente alcune fattispecie giustificatrici del demansionamento, che si sostanziano in una serie di deroghe al divieto di assegnare mansioni non inquadrate nello stesso livello e nella stessa categoria delle precedenti. Le ipotesi previste dal nuovo 2103 c.c. sono tre: le prime due sono qualificabili come casi di demansionamento unilaterale, mentre la terza coincide con il c.d. demansionamento consensuale.
Per quanto riguarda le ipotesi di demansionamento unilaterale, è consentito lo spostamento a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore in caso di modifica degli assetti organizzativi dell’azienda, purché siano rispettati alcuni limiti quali la immodificabilità della categoria legale, l’appartenenza delle nuove mansioni al solo livello di inquadramento contrattuale immediatamente inferiore e la conservazione della retribuzione. Tralasciando gli aspetti che interessano l’inquadramento immediatamente inferiore e la categoria legale di appartenenza, è opportuno esaminare il termine incide, sia in considerazione della sua portata, sia in riferimento alla valutazione che il giudice può operare in sede giudiziale nelle ipotesi di demansionamento. L’utilizzo del verbo incidere allude, in definitiva, alla possibilità del datore di lavoro “di retrocedere il lavoratore a una mansione inferiore se adotta una riorganizzazione (di più ampio respiro oppure anche circoscritta, al limite, al lavoratore interessato) che incide in modo diretto sulla posizione del lavoratore. L’indagine che può svolgere, in tale circostanza, il giudice, ha ad oggetto la veridicità della scelta aziendale a monte e l’esistenza di un nesso di causalità fra tale scelta e il demansionamento del lavoratore”.7
Palesi, dunque, risultano essere i profili sui quali è possibile, per mezzo del potere direttivo, fondare un atto legittimo di variazione in pejus delle mansioni, ovvero la veridicità della scelta aziendale e il nesso di causalità fra la tale scelta e il demansionamento del prestatore di lavoro.
Oltre alla suddetta ipotesi di demansionamento unilaterale, il Legislatore della riforma prevede, con gli stessi limiti e condizioni sopra evidenziati, che ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni corrispondenti al livello inferiore possano essere previste dai contratti collettivi: le “ulteriori ipotesi” devono comunque essere tali da contemperare l’interesse dell’impresa con l’interesse del lavoratore alla professionalità “la cui lesione ha un rilievo che oltrepassa quello puramente economico, come risulta anche dalla giurisprudenza in tema di danno alla professionalità”.8
Per quanto riguarda, invece, il demansionamento consensuale, il nuovo art. 2103 c.c. consente al datore di lavoro e al lavoratore di accordarsi per modificare in pejus le mansioni, la categoria, il livello di inquadramento e la relativa retribuzione.
Tale ipotesi di demansionamento è dunque consentita senza i limiti previsti per quelle unilaterali: il lavoratore può essere adibito a mansioni appartenenti a una categoria legale inferiore e anche a più livelli inferiori di inquadramento e ricevere una retribuzione inferiore. Tuttavia, l’accordo è legittimo solo se raggiunto nelle sedi cosiddette protette di cui all’art. 2113, comma 4 c.c. (Dtl, sede sindacale e giudiziaria, commissioni di certificazione) e a condizione che la modifica abbia uno dei seguenti scopi:
In sostanza, con la previsione espressa di un’ipotesi di demansionamento consensuale il Legislatore sembra fare proprio l’orientamento della giurisprudenza ante Jobs Act che, in nome del diritto alla conservazione del posto di lavoro, considerato preponderante rispetto a quello della salvaguardia della professionalità, consentiva i patti di demansionamento come extrema ratio per evitare il licenziamento. La sostanziale differenza tra il patto di demansionamento riconosciuto dalla giurisprudenza e quello disciplinato dal Jobs Act risiede nel fatto che mentre per i giudici l’accordo era legittimo a condizione che fosse finalizzato solo ed esclusivamente alla conservazione del posto di lavoro, il patto previsto dal Legislatore della riforma ha un oggetto più ampio: è legittimo non solo se fatto per tutelare il posto di lavoro, ma anche se finalizzato all’acquisizione di una diversa professionalità11 o al miglioramento delle condizioni di vita.
Anche la nuova formulazione dell’articolo 2103 c.c. prevede il diritto del lavoratore all’assegnazione a mansioni superiori in caso di svolgimento delle medesime protratto nel tempo12. Tuttavia, il Legislatore del 2015 ha introdotto alcune importanti novità, tra le quali rileva in particolare la definitività dell’assegnazione dopo sei mesi continuativi, e non tre come in precedenza, dando così più tempo al datore per valutare l’idoneità del lavoratore al superiore incarico.
Non solo: la contrattazione collettiva può prevedere un termine anche più lungo dei sei mesi.13 È evidente, dunque, che anche in materia di adibizione a mansioni superiori si è verificato un significativo allargamento dei margini di flessibilità nella gestione del rapporto di lavoro a cui si accompagnano, tuttavia, alcune preclusioni:
Dal punto di vista letterale il riferimento all’assegnazione a mansioni superiori appare poco coerente con quello sottostante all’intera disposizione, ove il termine di comparazione è rappresentato dai livelli di inquadramento e dalle categorie legali, anche se si è giustamente evidenziato che “una interpretazione coerente con il comma 1 della medesima disposizione impone di intendere tale assegnazione come quella riferita a mansioni riconducibili al livello di inquadramento superiore a quello di appartenenza” 14 e, ricorrendone i presupposti, alla diversa categoria legale.
Ovviamente la novella non ha rimosso l’ipotesi di cumulo di mansioni, alcune della quali riconducibili ad un livello di inquadramento superiore rispetto a quello di appartenenza, operando tutt’ora il criterio della prevalenza declinato in senso quantitativo.
* Sintesi dell’articolo pubblicato in MGL, 1/2022, pag. 107 ss dal titolo Lo ius variandi tra categorie e livelli.
1. Si rinvia a D. Garofalo, Lavoro, impresa e trasformazioni organizzative, in AA.VV., Frammentazione organizzativa e lavoro: rapporti individuali e collettivi. Atti delle Giornate di studio di diritto del lavoro AIDLASS, Cassino 18-19 maggio 2017, Milano, 2018, p. 17 ss., nonché ai riferimenti bibliografici ivi contenuti.
2. M. Brollo, La disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act, in Arg. dir. lav., 2015, p. 1156; Ead., Capitolo XXI. Inquadramento e ius variandi, in G. Santoro Passarelli (a cura di), Trattato di diritto del lavoro, Torino, 2017, pp.
768-772.
3. G. Santoro Passarelli, Trasformazioni socioeconomiche e nuove frontiere del diritto del lavoro. Civiltà giuridica e trasformazioni sociali nel diritto del lavoro, in Dir rel. ind., 2019, p. 417 ss
4. Cfr. M. Weiss, La sfida regolatoria per i nuovi mercati del lavoro: verso un nuovo diritto del lavoro? in Professionalità Studi, 2018, II, n. 1, Professionalità e contrattazione collettiva, p.9 ss.
5. F. Liso, Brevi osservazioni sulla revisione della disci- plina delle mansioni contenuta nel decreto legislativo n.
81/2015 e su alcune recenti tendenze di politica legislati- va in materia di rapporto di lavoro, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT, 2015, spec. p. 9.
6. Parla di riscoperta delle categorie legali L. Paolitto, La nuova nozione di equivalenza delle mansioni. La mobilità verso il basso: condizioni e limiti, p. 155 ss
7. R. Del Punta, Diritto del lavoro, Giuffrè Francis Lefebvre, XII edizione, 2020, pag. 505.
8. R. Del Punta, F. Scarpelli (a cura di), con la collaborazione di M. Marrucci e P. Rausei, Codice commentato del lavoro, Commentari Ipsoa, I edizione, 2019, pag. 445.
9. Così M. Brollo, Capitolo XXI. Inquadramento e ius variandi, p. 837.
10. Sul punto v. B. Caruso, The bright side of the moon: politiche del lavoro personalizzate e promozione del welfare occupazionale, in Riv. it. dir. lav., 2016, I, p. 177 ss.
11. Cfr. Cass., Sez. lav., 19 novembre 2015, n. 23698.
12. Cfr. Cass., Sez. lav., 11 ottobre 2019, n. 25673, secondo cui l’assegnazione a mansioni diverse da quelle di assunzione determina il diritto del lavoratore all’inquadramento superiore di cui all’art. 2103 c.c., anche quando le prime siano solo prevalenti rispetto agli altri compiti affidatigli, non richiedendo la predetta norma lo svolgimento di tutte le mansioni proprie della qualifica superiore, ma solo che i compiti affidati al lavoratore siano superiori a quelli della categoria in cui è inquadrato.
13. Ritiene la contrattazione collettiva fonte privilegiata e libera, M. Brollo, Capitolo XXI. Inquadramento e ius variandi, p. 842. Sul punto v. anche F. D’Addio, La tutela e lo sviluppo della professionalità nella più recente contrattazione collettiva, p. 82.
14. Così M. Falsone, La professionalità e la modifica delle mansioni: rischi e opportunità dopo il Jobs Act, p. 36, nota 18.