In questo numero di Sintesi proponiamo l’intervista a Lorenzo Falappi, avvocato in Milano e mediatore professionista dal 2011, che racconta e illustra la mediazione partendo dalle basi giuridiche arricchite dalla propria personale esperienza maturata sul campo e con uno sguardo rivolto al prossimo futuro.
Avvocato Falappi, ci da’ una breve definizione della mediazione civile e commerciale? In quali ambiti è operativa?
Il Decreto legislativo n. 28/2010 – alla lettera a) del comma 1 dell’art. 1 – definisce la mediazione come “l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa”.
Chiunque può accedere alla mediazione per la conciliazione di una controversia civile e commerciale vertente su diritti disponibili.
Tuttavia la mediazione è obbligatoria in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, responsabilità medica, diffamazione a mezzo stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari (cfr. art. 5 del D.Lgs. n. 28/10).
Chi intende, infatti, esercitare in giudizio un’azione relativa ad una controversia avente ad oggetto tali materie è tenuto, preliminarmente, ad esperire il procedimento di mediazione.
Esiste, inoltre, la mediazione demandata, prevista all’art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 28/10: il giudice, anche in sede d’appello – ma prima dell’udienza della precisazione delle conclusioni – valutata la natura della causa, lo stato dell’istruttoria e il comportamento delle parti, può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione, rendendolo condizione di procedibilità della domanda giudiziale. In questo caso si tratta di una obbligatorietà non derivante dall’oggetto/materia della controversia, ma da una valutazione del giudice.
Va precisato che la riforma del processo civile, annunciata proprio in questi giorni, potrebbe incidere in maniera significativa anche sul procedimento di mediazione in quanto prevede, tra le altre cose, la sua abolizione per le materie in cui, statisticamente, l’istituto si è rivelato inefficace (es. contratti assicurativi, bancari e finanziari), lasciandola inalterata dove ha dato buoni risultati (es. in materia di diritti reali).
La mediazione è una procedura con la quale due o più parti si affidano volontariamente ad un terzo – neutrale, imparziale e indipendente – che le aiuta a trovare, se possibile, una soluzione soddisfacente al loro problema. La mediazione si occupa di conflitti, ovvero di situazioni complesse ove si possono fondere aspetti meramente tecnici (giuridici ed economici) insieme ad aspetti più emozionali. All’interno di essa le parti sono protagoniste in quanto ogni decisione deve essere presa da tutti i soggetti partecipanti che, attraverso linguaggi differenti, si confrontano oltre i limiti di operatività propri del diritto.
Ritengo che l’efficacia della mediazione consista nel fatto che la procedura suggerisce un metodo per la risoluzione del conflitto che ha come ambito non tanto lo scontro per l’affermazione della propria posizione bensì una cooperazione tra le parti tesa alla gestione comune del problema.
A mio avviso rispetto al giudizio civile i vantaggi fondamentali – che mi permetto di ricordare ad ogni primo incontro – sono essenzialmente due: (i) nella mediazione il destino delle parti è nelle loro mani; (ii) si tratta di uno spazio riservato all’interno del quale la parte può manifestare il proprio pensiero, le proprie perplessità (e, se del caso, eventuali proposte di composizione bonaria) in maniera libera, senza che siano in alcun modo pregiudicate le proprie pretese e, non da ultimo, le ragioni in diritto sottese alle stesse. Per quanto riguarda gli altri strumenti alternativi alla giustizia ordinaria (mi riferisco alla negoziazione assistita) mi sembra che il plus sia rappresentato dalla presenza di un terzo il cui scopo non è capire dove sta la ragione ed il torto bensì quello di avvicinare le parti per soddisfare i loro reciproci interessi attraverso la creazione di opzioni e la promozione di uno sforzo congiunto per risolvere il conflitto.
In una sola parola: ragionevoli. Alle parti ricordo sempre che in mediazione si ragiona in termini di mesi, in tribunale di anni, mentre per quanto riguarda i costi – al netto, ovviamente, delle spese per l’assistenza legale – faccio presente che il corrispettivo previsto a titolo di indennità per tutta la procedura di mediazione coprirebbe a malapena, in caso di procedimento civile, le spese per il contributo unificato e le notifiche.
Ritengo che un ulteriore vantaggio risieda nella possibilità di acquisire ulteriori informazioni, non tanto per un motivo speculativo, quanto come occasione per comprendere la reale portata della controversia. Faccio un esempio in tema di successioni ereditarie (ma può valere anche in tema di responsabilità sanitaria): capita che le parti si presentino al tavolo di negoziazione con posizioni profondamente divergenti rispetto al valore da riconoscere al compendio ereditario – mi riferisco, in particolare agli immobili -, con un’inevitabile ricaduta sugli eventuali conguagli, rispetto ai quali le distanze sembrano – il più delle volte – incolmabili. Ebbene, la possibilità di approfondire le rispettive valutazioni, magari alla presenza di colui che ha redatto la perizia, o addirittura l’opportunità di effettuare all’interno della procedura una perizia in contraddittorio con la controparte – decidendo, se del caso, di mantenerla riservata – permette alle parti di rivalutare ex ante le rispettive posizioni senza le tipiche pressioni presenti in un giudizio.
Innanzitutto l’approccio della parte al tavolo di mediazione dipende, il più delle volte, dall’atteggiamento del legale nei confronti del procedimento. Le aspettative, pertanto, spesso sono mediate dall’avvocato. In ogni caso, dall’iniziale diffidenza si è passati, nel corso degli anni, ad un approccio più condiviso. Ciò detto, un tratto comune alle parti è rappresentato dal fatto che, indipendentemente dal significato della realtà oggettiva, ciò che conta realmente è il modo con cui si percepisce il conflitto. In genere le parti ritengono le rispettive posizioni, se non incompatibili, talmente lontane da ritenersi reciprocamente escludenti e per tale motivo mi capita di far presente, in maniera scherzosa, che se non fossero lontane non sarebbero sedute al tavolo della mediazione. Nel momento in cui le parti iniziano a ragionare in termini di interessi (quello che si desidera in realtà) e non più di posizioni (quello che si afferma di volere), l’atteggiamento muta, in quanto iniziano a intravedere la loro necessità, ossia quello di cui hanno davvero bisogno: risolvere un problema.
La mediazione si distingue in quattro fasi: introduttiva, esplorativa, negoziale e conclusiva. La fase introduttiva si svolge nel primo incontro: il mediatore si presenta alle parti, spiega il suo ruolo e cerca di instaurare un rapporto positivo e di fiducia, illustrando le finalità del procedimento e le regole da osservare per agevolare la comunicazione. E’ importante chiarire alle parti che il mediatore può fare degli incontri separati in modo da agevolare per ogni singola persona l’esposizione dei motivi del conflitto e capire meglio le posizioni. La fase successiva è quella esplorativa, nella quale il mediatore deve capire i punti di vista delle parti e le vere ragioni del conflitto, facendo emergere i reali motivi del conflitto e i bisogni delle parti. Questa è forse la fase più impegnativa, in quanto il mediatore deve mettere in campo tutte le sue risorse in tema di gestione del conflitto, cercando di comprendere i segni con cui si mostra il conflitto per poi iniziare a gestirlo attraverso competenze relazionali, capacità di ascolto, di empatia, di porre domande, di comunicazione e di gestione dello stress. La fase negoziale consiste nella realizzazione di incontri sia singoli che congiunti per il raggiungimento di un accordo che soddisfi entrambe le parti. In questa fase il mediatore può lasciare alle parti la gestione della negoziazione oppure intervenire attivamente. Personalmente preferisco accompagnarle in quanto la miglior soluzione è sempre quella che le parti sentono come propria (e non imposta o indotta da un terzo). Infine la fase conclusiva: le parti si mettono d’accordo secondo le modalità da loro ritenute migliori. Il mediatore può intervenire per accertarsi che i termini della transazione siano stati capiti da entrambe le parti, ma non deve verificare che l’accordo sia “giusto” secondo la sua visione (non dimentichiamo che l’avvocato è sempre presente). L’accordo raggiunto costituisce un contratto che ha forza vincolante tra le parti (ed è anche titolo esecutivo). In caso di mancato accordo, il mediatore non deve vivere un senso di fallimento in quanto la sua azione è stata in ogni caso utile per le parti, che hanno avuto la possibilità di conoscere altri aspetti della controversia prima non valutati.
Per rispondere a questa domanda mi sembra opportuno premettere che il mediatore non è un giudice o un arbitro e la sua funzione non si identifica con la decisione della controversia: il suo ruolo principale è quello di avvicinare le parti. Ciò detto, l’esperienza di mediatore, sebbene da un punto di vista quantitativo occupi energie e risorse minori rispetto a quella di avvocato, ha influito sul mio modo di svolgere la professione di avvocato (che, inevitabilmente, rimane la <<principale>>). Innanzitutto, essendo il mediatore imparziale e ”svincolato” da qualsivoglia legame con le parti e con la controversia, diventa quasi consequenziale la capacità di tenere una giusta distanza nei confronti del conflitto. E’, quindi, più semplice osservare la controversia nel suo complesso, comprendendola in misura sicuramente maggiore. In altre parole è un po’ come guardare un quadro: per apprezzarlo veramente occorre una certa distanza. Tutto questo non solo è un vantaggio per l’avvocato-mediatore, ma rappresenta altresì un beneficio per il cliente, al quale viene inevitabilmente restituita questa maggiore consapevolezza. Si affina, inoltre, l’attitudine ad ampliare le alternative in discussione, anziché cercare un’unica risposta, nonché la capacità di ascolto e, correlativamente, di dialogo, e questo nei confronti di tutti i soggetti coinvolti (cliente, controparte, giudice).
Con tutti i limiti insiti in un’inevitabile schematizzazione riassumerei così le abilità del mediatore: (i) controllare gli automatismi; (ii) identificare le distorsioni cognitive e saperle gestire; (iii) saper ascoltare; (iv) conoscere il linguaggio non verbale ed essere attento ad esso; (v) essere creativo; (vi) esprimere sensazioni e sentimenti in maniera costruttiva (essere assertivi e non aggressivi); (vii) scegliere le strategie adeguate al contesto concreto ed essere capace, se del caso, di modificarle in itinere.