L’approssimarsi delle scadenze legate all’attuazione della “Legge Madia” nei vari Enti ed Amministrazioni del comparto pubblico, e l’intensificarsi delle incertezze di stabilizzazione del rapporto, legate anche al periodico ripresentarsi dei problemi di copertura finanziaria dei relativi interventi, sta spingendo molti lavoratori precari del pubblico impiego (sia singolarmente che organizzati) a tentare la via del contenzioso con la pubblica amministrazione per giungere alla conversione del rapporto.
Questo sulla base della cosiddetta “sentenza Mascolo” della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Corte Giust., 26 novembre 2014, cause riunite nn. 22/2013, 61/2013, 63/2013, 418/2013), che ha dichiarato l’illegittimità della normativa nazionale, nella misura in cui in essa mancassero: la possibilità di trasformare il rapporto operando la “stabilizzazione”, previsioni in tema di rapido espletamento delle procedure concorsuali e criteri trasparenti per verificare se il rinnovo dei contratti a termine corrispondesse a esigenze reali e temporanee e fosse idoneo a raggiungere l’obiettivo perseguito.
È tuttavia il caso di chiedersi se, al di là dei facili trionfalismi di qualche organizzazione sindacale, tale richiamo sia corretto e soprattutto applicabile.
Muoviamo le mosse, in sostanza, dalla valutazione della compatibilità tra le norme riguardanti l’accesso al pubblico impiego (artt. 36, co. 4 del D.lgs. n. 29/1993 – come modificato dall’art. 7 del D.lgs. n. 546/1993 – art. 22, co. 8 del D.lgs. n. 81/1998 e da ultimo l’art. 36 del D.lgs. n. 165/2001) che obbligano alla procedura concorsuale e la clausola 5 della Dir. 1997/70/CE (che recepisce l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso tra UNICE, CEEP e CES), laddove stabilisce che gli stati membri debbano prevedere misure di contenimento degli abusi ed adeguate sanzioni nei confronti dei relativi attori tali da scoraggiare l’effettuazione dei medesimi.
In applicazione di tale direttiva è stato emanato nel 2001 il D.lgs. n. 368, che prevedeva in caso di specifiche fattispecie di abuso del ricorso al tempo determinato, la trasformazione del rapporto da contratto a termine in lavoro a tempo indeterminato; impostazione che è stata poi confermata dall’art. 19, co. 2 del D.lgs. n. 81/2015, nonché oggetto di recenti modifiche (per taluni versi più restrittive) da parte del cosiddetto “Decreto Dignità”.
Tale norma, tuttavia, non trova attuazione ai rapporti stipulati nel pubblico impiego sia per motivi sistematici (l’art. 36 del D.lgs. n. 165/2001 è norma speciale ed in quanto tale prevale sulle disposizioni del D.lgs. n. 368/2001 prima e del D.lgs. n. 81/2015 poi), sia in quanto configgente con l’art. 97 della Costituzione poiché altrimenti lesivo del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, come affermato da costante giurisprudenza costituzionale (sent. n. 190/2005, n. 34 e n. 205/2004 e n. 1/1999).
Né può affermarsi la violazione dell’art. 3 della Costituzione poiché l’ordinamento comunque prevede sanzioni a ristoro del soggetto abusato (sent. Corte Costituzionale n. 89/2003).
D’altra parte la stessa Corte di Giustizia, prima con sentenze 15 aprile 2008 (causa C-268/06) e 23 aprile 2009 (cause C-378/07, C-379/07 e C-380/07) e da ultimo con ordinanza 1 ottobre 2010 e sentenza 26 gennaio 2012 (cause C-3/10 e C-586/10) ha chiarito che la citata clausola 5 della Dir. 1997/70/CE non è suscettibile di “autoapplicazione”, ma richiede l’intervento del Legislatore nazionale, il quale ben può prevedere misure di prevenzione degli abusi e sanzionatorie differenti in ragione del tipo di rapporto di lavoro, purché adeguate all’interesse che si intende tutelare.
Chiarita la compatibilità tra la clausola 5 della citata Dir. CE e le norme regolanti l’accesso al pubblico impiego, va inoltre osservato come l’attuale ordinamento, quale fissato proprio dal D.lgs. 25 maggio 2017 n. 75, preveda una serie di misure atte al superamento del precariato nella pubblica amministrazione, così rispondendo proprio ai criteri di cui alla sentenza citata in apertura.
Misure, che, va ricordato, non possono risolversi in una mera cooptazione nel pubblico impiego di chiunque si trovi in condizioni di precariato, ma devono prevedere requisiti e condizioni stringenti sia in tema di condizioni di accesso dal lato della pubblica amministrazione (come stabilità finanziaria e definizione dei piani di fabbisogno triennale), sia dal lato delle procedure di selezione degli aventi diritto.
Quanto sopra in ossequio alla costante giurisprudenza costituzionale in tema di deroghe alla modalità concorsuale di accesso al pubblico impiego (tra le tante: sent. n. 213, n. 150 e n. 9 del 2010, n. 363 e n. 81 del 2006, n. 194/2002, n. 320/1997, e n. 363 e n. 205 del 1996).
Da qui, una serie di vincoli e paletti che rendono del tutto impraticabile la via giudiziaria per l’accesso diretto al lavoro pubblico.
Al precario che non rientrasse nelle misure di stabilizzazione, pertanto, non potrà che presentarsi l’opzione del risarcimento del danno (questa sì percorribile giudizialmente), nelle misure e secondo i criteri fissati dalla Sentenza a SS.UU. della Cassazione n. 5072/2016.