Tutti noi Consulenti del lavoro ci siamo trovati almeno una volta ad affrontare la questione relativa al Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro (Ccnl) da applicare in azienda. Normalmente il problema sorge all’atto dell’acquisizione di un nuovo cliente che deve procedere con le prime assunzioni, ma ultimamente questa valutazione emerge anche quando dei clienti “storici” si rivolgono a noi con un quesito e osservazioni quali ad esempio: “Ma io posso cambiare contratto collettivo?” oppure “Un mio amico che ha la stessa attività ha scelto di applicare il Ccnl tal dei tali che mi dice essere più conveniente”. Il tema è sicuramente causato dal recente proliferare di Contratti Collettivi Nazionali. Come riportato da un recente reportpubblicato dal Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL) i contratti collettivi depositati sono più di ottocento. Per capire maggiormente questa frammentazione osserviamo come esempio il settore metalmeccanico. In questo specifico settore vi sono più di trenta contratti collettivi depositati.
Ma perché si è arrivati a questa situazione? Come muoversi e come comportarsi davanti alle richieste del cliente e alla complessità normativa? Vedremo che la situazione non è affatto semplice.
Sicuramente ci sarà sorto un dubbio simile: “Ma io sono obbligato ad applicare un Ccnl? Quale convenienza ho nel farlo?” Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.
Innanzitutto il Ccnl è quel contratto che viene sottoscritto dalle organizzazioni che rappresentano i datori di lavoro e dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori. Esso disciplina i rapporti di lavoro per tutti quegli aspetti demandati dal Legislatore o da esso non previsti. Solitamente i Ccnl sono composti da tre parti: parte economica, parte normativa e parte obbligatoria. Quest’ultima contiene le disposizioni che regolano i rapporti tra le associazioni che sottoscrivono il contratto. Sono contratti di diritto comune in virtù della mancata attuazione dell’articolo 39 della nostra Costituzione[1]. Questo articolo disciplina la libertà sindacale, prevedendo anche la possibilità di ottenimento della personalità giuridica da parte dell’associazione sindacale a seguito di una particolare procedura di registrazione.
La mancata registrazione da parte delle rappresentanze sindacali comporta che i sindacati siano oggi delle associazioni di fatto.
Pertanto i contratti sottoscritti dalle parti sono contratti di diritto comune che vincolano solo i contraenti e coloro che esplicitamente o implicitamente vi abbiano conferito mandato.
Ciò comporta un’altra importante conseguenza relativa all’applicazione di alcune norme nel nostro ordinamento. Ci riferiamo in particolare all’articolo 2070 del codice civile[2] : un datore di lavoro può scegliere di applicare un Ccnl di un settore diverso rispetto a quello nel quale opera. Ad esempio, un’azienda con attività tipica del terziario potrebbe applicare un contratto del settore metalmeccanico.
Quanto disposto nell’articolo del codice civile significa che se l’azienda è iscritta all’associazione sindacale firmataria del Ccnl, dovrà applicare integralmente il contratto sottoscritto dall’associazione alla quale ha conferito mandato.
La gestione di questa informazione non è sempre semplice. Tante volte il cliente non ci comunica se è iscritto a una associazione di categoria, oppure è iscritto contemporaneamente a più associazioni o, ancora più complicato, è iscritto a una associazione che è a sua volta iscritta all’associazione di categoria. In quest’ultimo caso il datore di lavoro è obbligato all’applicazione integrale del contratto collettivo.
Ma l’azienda non iscritta è obbligata ad applicare il Ccnl? E se sì quale? Sicuramente la nostra prassi è quella di suggerire al cliente l’applicazione di un Ccnl per poter gestire con più tranquillità alcuni aspetti essenziali. Non solo quelli più strettamente quotidiani della gestione del rapporto di lavoro, per la quale solitamente all’interno della lettera di assunzione effettuiamo il rimando alla contrattazione collettiva nazionale applicata in azienda.
Ciò che ci può spingere all’applicazione di un Ccnl è innanzitutto il fatto che la giurisprudenza, ormai consolidata, considera le retribuzioni dei Ccnl comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale quelle idonee al rispetto del dettato in Costituzione di cui all’articolo 36[3].
In seconda battuta possiamo ricordare che la retribuzione imponibile ai fini contributivi, ai sensi della legge n. 389/89[4], è quella dei contratti collettivi di categoria sottoscritti dalle associazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Si possono inoltre aggiungere due ulteriori riferimenti normativi molto importanti nel nostro ordinamento, che nell’ultimo periodo ci troviamo a gestire quasi quotidianamente. Basandoci solo su un criterio temporale di introduzione della norma dobbiamo fare riferimento alle condizioni per l’accesso da parte delle aziende di benefici e agevolazioni contributive e normative. Tra i diversi requisiti richiesti dall’articolo 1, comma 1775, legge 27 dicembre 2006, n. 296 vi è il rispetto dei Ccnl sottoscritti dalle associazioni comparativamente più rappresentative.
Infine possiamo ricordare che nel D.lgs. n. 81/2015 (Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in materia di mansioni), così come modificato dal recente Decreto Dignità, si trovano numerosi rimandi e numerose possibilità di deroghe alla contrazione collettiva, nazionale, territoriale o aziendale. All’interno del decreto, precisamente all’articolo 51, il Legislatore offre una indicazione chiara di lettura dell’intero testo normativo: “Salvo diversa previsione, ai fini del presente decreto, per contratti collettivi si intendono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria.”
Evidenziata quindi l’importanza dell’applicazione di un contratto collettivo per il datore di lavoro, sorge spontanea una domanda: ma quali sono i sindacati maggiormente rappresentativi?
A questa domanda non è possibile dare una risposta certa. Non ci sono attualmente strumenti a nostra disposizione per valutare correttamente quali sigle sindacali rispettino il requisito della maggior rappresentatività.
Come accennato all’inizio del presente articolo, il problema sta emergendo sempre più nella sua drammaticità. Nel contesto economico attuale e nella situazione di incertezza normativa si sono viste proliferare sigle sindacali che hanno dato vita a una molteplicità di contratti collettivi. Leggendo alcuni di questi testi ci si è trovati di fronte a retribuzioni inferiori rispetto ad altri Ccnl o addirittura a un numero di mensilità inferiore rispetto al contratto considerato solitamente leader in quel settore.
La prospettiva di un risparmio da parte del datore di lavoro potrebbe fargli gola. Tuttavia deve essere reso cosciente di tutte le problematiche che potrebbero scaturire dal mancato rispetto delle norme e degli obblighi illustrati in precedenza.
Infine aggiungiamo un ulteriore aspetto, anche questo di difficile applicazione anche da parte di operatori del settore, ma che ricopre sempre maggior importanza nei contratti. Ci riferiamo all’introduzione sempre crescente di soluzioni di welfare all’interno della contrattazione di cui i lavoratori possono beneficiare (casse sanitarie, enti bilaterali, ecc.) la cui collocazione all’interno del Ccnl non è mai chiara e pertanto è difficile capire se rientrano nella parte cosiddetta “obbligatoria” o se sono attratti nella parte economica.
L’individuazione dei sindacati maggiormente rappresentativi non sembra di facile e breve soluzione. Questa difficoltà genera sicuramente incertezza negli operatori, come i Consulenti del lavoro, che si trovano a gestire aspetti quotidiani dei rapporti di lavoro, e inoltre fa sì che venga meno una contrattazione di qualità tra le parti sociali.
Infatti in una situazione in cui il Legislatore demanda la regolamentazione o la possibilità di deroga alla contrattazione, sarebbe utile che le parti sociali trovino accordi costruttivi e virtuosi che permettano una gestione efficace ed efficiente dei rapporti di lavoro, senza ledere la dignità dei lavoratori (proponendo ad esempio retribuzioni al ribasso) o facendo leva sulle difficoltà economiche dei datori di lavoro attraendoli verso accordi cosiddetti “pirata”.
È essenziale pertanto che le parti sociali costruiscano relazioni che abbiano al centro il valore e la dignità del lavoro (sia dell’imprenditore che del dipendente) e che procedano anche alla definizione di una soluzione all’annosa questione della maggior rappresentatività, che permetterebbe sicuramente maggior certezza applicativa dei contratti.
[1] Art. 39. L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.
[2] Art. 2070 c.c. (Criteri di applicazione). L’appartenenza alla categoria professionale, ai fini dell’applicazione del contratto collettivo, si determina secondo l’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore. Se l’imprenditore esercita distinte attività aventi carattere autonomo, si applicano ai rispettivi rapporti di lavoro le norme dei contratti collettivi corrispondenti alle singole attività. Quando il datore di lavoro esercita non professionalmente un’attività organizzata, si applica il contratto collettivo che regola i rapporti di lavoro relativi alle imprese che esercitano la stessa attività.
[3] Art. 36 Cost. Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.
[4] Decreto Legge 338/89 convertito in Legge n. 389/89, art. 1, co. 1: “Retribuzione imponibile, accreditamento della contribuzione settimanale e limite minimo di retribuzione imponibile”
La retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo.